Dei librini super carini. Dei calzini. Dei piattini. Delle mutandine. Dei gioiellini. Delle cremine. Dei comodini. Dei maglioncini. Dei cioccolatini. Dei piumini. Tempo di trangugiare un paio di biscotti, di bere un caffè (se specifico i rispettivi marchi, riceverò forniture aggratis?), di guardare inebetita qualche Instagram story, e le tre, quattro influencer nostrane che seguo hanno cercato di vendermi tutto ‘sto popò di roba. Tutto “ino”. Anzi, “ini”. Non perché di roba piccola – piccolini – si tratta, ma perché loro parlano così: bellini, patatini, cappottini, posticini, piantini. Tortellini. No dai, sto scherzando, i tortellini non c’entrano nulla, poveretti. Per il resto ero dannatamente seria.
Quand’è che l’internet, Instagram in particolare, s’è trasformato in una gigantesca televendita, con queste nuove piazziste pronte a vestire i panni di quel che resta di Mastrota? «Prendi la cornetta, Mondial Casa ti aspetta!» non segnava forse la definitiva morte celebrale di una carriera agli sgoccioli? Possibile che nessuna si senta un po’ scema a pubblicizzare – taggandolo – pure il brand che progetta gli scopini del cesso? Be’, almeno sono “ini”. Perdonatemi, accidenti, è più forte di me. Vatti a ricordare il motivo per cui il mio pollice aveva deciso di posarsi su “follow”, nella notte dei tempi. Di sicuro è la pigrizia l’unica colpevole dell’unfollow: pensateci, è molto più semplice e automatica la prima azione rispetto alla seconda, le pulizie di primavera sui social richiedono sempre troppa pazienza e memoria. Morale: eccomi qui che, in mezzo all’amico e al protagonista della serie che mi piace tanto, mi ritrovo la tizia di turno che impiega preziosissimi minuti – sotto forma di tondini – per persuadermi a comprare lo shampoo al durian utilizzando il suo codice sconto PuzzaMaFaBene.
E che, ogni santa volta, ci tiene a specificarmi che lei mica ci guadagna niente, se io decido di usare la maschera che elimina magicamente le doppie punte: la sua missione (eh?) consiste proprio nel rendere partecipi i follower di ciò che ha testato personalmente e che le è piaciuto. «Senti, che lavoro… me ne ero dimenticata, che lavoro fai?», domanderebbe ora Michele Apicella, che sono io, che siamo noi mentre sfogliamo le foto di un’altra cristiana in vacanza in un Paese terzomondista, accompagnata ovunque dal suo set di borse Louis Vuitton. Ed è come in Ecce bombo, è un film che s’è trasformato in realtà: le nostre influencer s’interessano di molte cose – cinema, teatro, fotografia, musica… leggono – e concretamente non fanno nulla di preciso. Campano girando, vedendo gente, muovendosi, conoscendo, facendo delle cose; i vestiti glieli dà Caio in cambio di un post, il cibo il ristorante di Tizio dove pranzano e cenano a scrocco documentando anche le briciole di pane, la sigaretta (leggi: qualsiasi cosa vi venga in mente) viene elargita da Sempronio incontrato la mattina al costo di una manciata di tondini.
Le influencer italiane sono insomma esperte di tutto e di niente; recensiscono in pillole da quindici, trenta secondi un film, un locale, una spugnetta leva-trucco; hanno la capacità argomentativa di un settenne («We Are Who We Are no raga, mi sono annoiata tantissimo») e non amano essere contraddette, pena il rischio di finire in uno screenshot dato in pasto ad avvocati difensori e moralizzatori. Ultimo, ma non meno importante, sono l’anima del commercio: le ex ragazzine (all’inizio) spigliate e (un po’) divertenti hanno avuto l’innegabile merito di conquistare un seguito annoiato e facilmente annoiabile, di intrattenerlo con uno sforzo minimo e di attirare l’attenzione di chi vuole farsi pubblicità, ma non dissanguarsi. A differenza di un giornale, di un’emittente televisiva o di un portale, con l’influencer medio/bassa – non del calibro di Chiara Ferragni, sia chiaro, che manco lo è più – ci si può permettere di mercanteggiare e di usufruire dell’ancestrale pratica del baratto: basta un weekendino, un set di tazzine, un tavolino, un ciondolino. Il risultato, va da sé, è un interminabile spottone dove spessissimo le varie formule studiate da sedicenti esperti – #gifted, #supplied, #sponsored e via dicendo – vengono utilizzate piuttosto arbitrariamente, confondendosi nel calderone degli unboxing, dei regali, dei codici sconto.
Per le nuove piazziste dell’internet, una foto senza tag è una stella senza cielo: vanno filmate pure le scoregge, menzionati i generosi benefattori, bisogna raccontare, parlare, convincere (e autoconvincersi) che quel prodotto, quell’oggetto, quell’iniziativa è una bomba, e che rinunciarci sarebbe imperdonabile. Ergo: occorre visualizzare, cliccare, comprare, supportare, taggare, alimentando così una popolarità costruita sul nulla cosmico e l’illusione di essere qualcuno perché il brand tal dei tali ha voluto mandarti dieci pacchi di biscotti. Vagamente scimuniti dal flusso costante di informazioni condivise e di consigli per gli acquisti, noi spettatori ci ritroviamo in un incerto equilibrio tra l’invidia sociale – vorrei vedervi, omaggiati della qualsiasi a fronte di una sola richiesta: un tondino su Instagram – e un senso del ridicolo che pian piano inizia a insinuarsi a ogni stacchetto.
Che poi, le venditrici porta a porta del web saranno anche imbarazzanti, ma la gente come me che le segue di malavoglia causa eccessiva indolenza pecca della peggiore perversione, il masochismo. Non avrei mai pensato d’ammetterlo, ma forse si stava meglio quando c’erano Mastrota e Mondial Casa su Canale 5: lì almeno potevi cambiare subito canale, ed eri sicuro di non vedere più né la sua faccia, né la batteria di pentole.