Da quando è uscita la notizia della vendita da parte di Bob Dylan del suo catalogo a Universal Music Group, la discussone verte su due domande. Entrambe riguardano Dylan. L’operazione cambierà la percezione che i fan hanno della sua musica? (No, ma aspettatevi di sentirla ancora di più nelle pubblicità). Perché Dylan l’ha fatto? (Il valore dei cataloghi è al massimo storico, ha quasi 80 anni, è possibile che Joe Biden aumenti la tassazione su transazioni di questo tipo).
La domanda da farsi invece è: perché Universal Music Publishing Group (UMPG) ha speso una somma importante, che le mie fonti pensano sia più vicina ai 400 che ai 300 milioni di dollari di cui si parla, per acquisire i diritti sulle 600 canzoni di Dylan? Si tratta di un catalogo sempreverde e, come ha scritto il boss della Universal Lucian Grainge in una e-mail interna, «abbiamo in un istante migliorato il retaggio dell’azienda». Ha anche lasciato intendere che UMPG ha battuto una concorrenza agguerrita grazie al suo pedigree. «Non ci siamo arrivati per caso. Certe cose succedono quando metti gli autori al centro, crei valore per la loro arte, hai una storia pulita e coerente».
Il riferimento alla storia è voluto ed è un affondo ad aziende più giovani come Hipgnosis Songs Fund e Primary Wave che stanno cercando di erodere la quota di mercato della Universal acquisendo i cataloghi di Bob Marley, Whitney Houston, Stevie Nicks e Mark Ronson. L’hanno fatto con i soldi di investitori istituzionali che sono in grado di mettere sul piatto risorse importanti. Ecco che cosa significa l’acquisizione di Dylan. È come se Universal stesse dicendo: non staremo con le mani in mano mentre le canzoni che hanno fatto la storia vengono vendute a Wall Street sotto il nostro naso.
La nuova domanda allora è: a chi è diretta questa affermazione? Agli investitori attuali, poiché nel 2022 Universal Music Group sarà quotata in borsa. E serve a invogliare quelli futuri, che vedono i diritti musicali una fonte d’introito in costante ascesa. L’acquisizione del catalogo di Dylan è modo per dire: siamo ancora i numeri uno e lo saremo anche in futuro. L’azienda mira a dimostrare la capacità di sopravvivenza nel lungo periodo e aumentare il prezzo delle azioni che verranno messe sul mercato.
Altre aziende musicali stanno lottando per mantenere la propria posizione dominante. In ottobre, Warner Music Group si è indebitata per 250 milioni di dollari al fine di portare a termine due acquisizioni, per un valore pari a 338 milioni. La più importante delle due operazioni, riferisce una fonte, ha a che fare con un grande catalogo di diritti musicali. È un cambiamento di strategia per la Warner dettato dalla quotazione in borsa: come Universal, ha dovuto dimostrare che non si lascerà sfuggire un grande business a favori di soggetti come Hipgnosis e Primary Wave. Nel novembre 2018, Sony Corp ha sborsato 2,3 miliardi di dollari (e in seguito altri 288 milioni) per entrare in possesso di un’ulteriore quota di EMI Music Publishing. Se non l’avesse fatto, i diritti musicali di gente come Carole King, Queen e Kanye West sarebbero finiti nelle mani di Wall Street.
I tentativi da parte delle major di respingere minacce alla loro stessa esistenza si estende ad altri settori. La scorsa settimana, ad esempio, Sony Music e The Orchard hanno acquisito Human Re-Sources da Q&A, portando nella famiglia Sony una star come Ant Clemons, candidato come Miglior Album R&B ai Grammy del 2021. Un po’ come Warner e Universal, anche Sony percepisce il pericolo rappresentato da aziende in grado di scovare e sviluppare con successo star indipendenti senza una casa discografica.
Nell’era dello streaming sono molti i player e le tendenze in grado di indebolire la posizione delle tre storiche major musicali. Ma, come ci mostra l’affare da 400 milioni di dollari di Bob Dylan, quando le major reagiscono a queste minacce lo fanno alla grande.
Questo articolo è stato tradotto da Rolling Stone US.