3 gennaio 2020. Cédric Chouviat, parigino di 42 anni, viene fermato dalla polizia a bordo del suo scooter per infrazione del codice della strada. Dopo un confronto con i poliziotti, il rider è placcato e atterrato al suolo dagli agenti. Morirà poche ore dopo, per arresto cardiaco e asfissia. La scena, ripresa sia dalla vittima sia da numerosi passanti, ha aperto il dibattito in Francia prima dell’omicidio Floyd negli Stati Uniti sui metodi di atterraggio e strangolamento utilizzati dalla polizia. L’asfissia posizionale è provocata dalla stretta al collo di una persona, cosa che rende la respirazione difficile, o nel momento in cui la persona viene immobilizzata a pancia in giù: questa posizione impedisce di respirare in modo corretto. Qualsiasi pressione sulla schiena peggiora la respirazione. Così è morto anche George Floyd, ucciso dai poliziotti a Minneapolis il 25 maggio 2020.
A un anno di distanza Doria Chouviat, moglie del rider, ha sottolineato la rilevanza del caso Chouviat nel dibattito sulla ”legge sicurezza globale” ai microfoni di Europe 1: «Il caso di Cédric è emblematico, perché si tratta di un caso pratico sulle derive della polizia e dell’importanza dei video e dei testimoni. Siamo qui per dire no alla legge sicurezza, perché ci viene detto “non avete il diritto di filmare i poliziotti”. Non possiamo accettarlo, perché senza questi video non potremmo chiedere giustizia». I poliziotti coinvolti nell’affaire Chouviat, indagati per omicidio colposo, non sono stati sospesi.
Anche nel caso del pestaggio di Michel Zecler, i video pubblicati dal sito di informazione indipendente Loopsider si sono rivelati fondamentali perché hanno permesso di verificare la brutalità dei metodi della polizia. Nel primo video, ottenuto dalle telecamere a circuito chiuso dello studio di produzione di Zecler, quattro poliziotti trattengono l’uomo con calci e pugni. Nel secondo video, girato all’esterno, decine di poliziotti circondano l’edificio, lanciano lacrimogeni all’interno e continuano a immobilizzare Zecler con calci e pugni. Il produttore era stato fermato dalla polizia perché non portava la mascherina per strada. Si può giustificare un tale dispiegamento di forze e violenza contro un cittadino, anche in caso di un’infrazione?
L’articolo 24 del progetto di legge sulla sicurezza globale modifica la legge del 1881 sulla libertà di stampa, creando una nuova infrazione penale. Viene punita con “un anno di detenzione e 45 mila euro di multa, la diffusione del viso o qualsiasi altro elemento di identificazione di un agente della polizia o di un militare della gendarmeria nel quadro di un’operazione di polizia, con qualsiasi mezzo o supporto e allo scopo di ledere l’integrità fisica o psichica dell’agente ripreso”. Il testo legislativo è in attesa di essere approvato dal Senato francese. In risposta alle manifestazioni di protesta, il Governo ha proposto di riscrivere l’articolo che ha sollevato il mondo del giornalismo e l’opinione pubblica contro il ministro dell’Interno Gérald Darmanin.
Per i relatori LREM (il partito del presidente Macron) il progetto di legge è scritto per tutelare la vita privata dei poliziotti. Il difensore civico francese la pensa diversamente: la loi sécurité sarebbe una minaccia diretta al diritto di informare, sia perché “l’informazione e la pubblicazione di immagini e registrazioni sulle operazioni di polizia sono legittime“ sia perché nel progetto di legge “la definizione del reato è imprecisa”.
Su questo punto si è concentrato il dibattito nella politica e nell’opinione pubblica francese. Secondo il presidente del Senato Gérard Larcher la legge punirebbe “l’utilizzazione delle immagini al fine di esercitare pressione psicologica e fisica sugli agenti di polizia, ad esempio attraverso messaggi che vorrebbero non soltanto denunciarne le azioni ma prendersela direttamente con loro e le loro famiglie, precisandone gli indirizzi”. Per Reporter Sans Frontières l’applicazione del testo potrebbe avere un “effetto dissuasivo” per i giornalisti impegnati sul campo, come nel caso di manifestazioni e proteste. L’infrazione penale esporrebbe i reporter a possibili inchieste giudiziarie e sanzioni penali. Il rischio è l’impunità degli agenti di polizia, una “costante da più di 10 anni”, ha affermato Amnesty International France che descrive “l’uso eccessivo della forza e la mancanza di inchieste efficace” come un “problema strutturale a cui lo Stato francese non ha dato risposta”.
In Colombia il 2020 è stato un altro anno di proteste e repressione, in continuità con le proteste studentesche scoppiate in tutta l’America Latina nell’anno precedente. «L’omicidio di Javier Ordonez è stato solo il detonatore», racconta a Rolling Stone la redazione di Hekatombe, rivista contro-informativa e “pecora nera dell’informazione colombiana”, che monitora gli attacchi violenti e indiscriminati della polizia colombiana. «La polizia ha comportamento quasi dittatoriale, portano le persone nei Centros atencione immediata (CAI – sono piccoli edifici della polizia presenti in ogni quartiere ce n’è uno, costruiti per limitare le attività delle Farc, nda) per qualsiasi motivo». Il 9 settembre 2020 Ordonez, avvocato di Bogotà, è morto in seguito all’emorragia interna provocata dalle torture subite della polizia. Anche in questo caso l’aggressione è stata documentata in un video che ha fatto il giro del mondo. La scena si ripete : due poliziotti protetti da caschi e balaclava immobilizzano al suolo il civile, seguono calci e scosse elettriche, 10 secondo l’autopsia. Ordonez ha poi subito maltrattamenti e torture all’interno del commissariato (Cai). Nei giorni successivi, a Bogotà e in tutta la Colombia scoppiano le manifestazioni di protesta: «La polizia ha aperto il fuoco sui manifestanti con armi di ordinanza, secondo dati ufficiali sono morte 9 persone», racconta Hekatombe.
L’autoritarismo della polizia in Colombia è una tendenza storica: «In questo paese c’è una grande dottrina militare introdotta nel 1948. Qualsiasi persona che protesta è vista dalla polizia come un potenziale ribelle. Nel 2016 e nel 2017 due riforme hanno dato più poteri alla polizia. Si sono moltiplicati gli attacchi nei confronti dei venditori ambulanti ad esempio o contro la gente dei quartieri poveri». Assicurare l’ordine pubblico in Colombia è stato storicamente complicato anche dai decenni di guerriglia delle FARC, un’organizzazione rivoluzionaria comunista attiva dal 1964. Ma il potenziamento delle prerogative della polizia non è andato di pari passo con regole chiare sul limite della violenza. Le Squadre anti sommossa, conosciute come Esmad, sono state legalizzate nel 1999, «su impulso dell’ex sindaco di Bogotà Antanas Mockus», spiega Hekatombe. «Si chiamano Escuadrones moviles anti disturbios e sembrano dei robocops, hanno “armature”, armi per affrontare le proteste. Quando c’è una protesta devono interrompere qualunque cosa che disturbi l’ordine». Le stesse forze dell’ordine sono accusate dell’omicidio di Dilan Cruz, ucciso nel novembre 2019 nel corso di una protesta contro il governo Duque, da un’arma non identificata.
La violenza della polizia è più classista che razzista in Colombia: «Se sei trans, studente, povero o appartenente a una “cultura urbana” (come gli skaters, nda), avrai più possibilità di subire attacchi e abusi», spiegano i redattori. Gli interventi della polizia nei quartieri poveri, contro gli ambulanti sono il sintomo della mancanza di un piano per le classi più povere, a Bogotà come nel resto del Paese, sostiene Hekatombe: «Di fronte al contagio del virus, non è stato fatto niente per le popolazioni più vulnerabili. La sindaca della capitale Lopéz si definisce progressista ma rifiuta le richieste della popolazione. Dice che ci saranno inchieste sul comportamento della polizia nelle proteste di settembre ma chiede allo stesso tempo “un atto di riconciliazione”».