È da qualche anno, ormai, che Steven Wilson sta cercando di scrollarsi di dosso l’etichetta di re del prog rock con dischi vicini ai territori del pop. E al di là di una parte dei fan storici che l’hanno subito accusato di alto tradimento, il tentativo dell’ex leader dei Porcupine Tree non ha portato solo a risultati musicalmente interessanti, ma anche a un successo commercialmente non indifferente: basti pensare che nel 2017 l’album To the Bone ha raggiunto il terzo posto nella UK Album Charts e il relativo tour ha visto Wilson esibirsi in 33 Paesi per un totale di circa 150 show, incluse tre date sold out alla Royal Albert Hall poi finite nel DVD Home Vision.
«Come musicista mi interessa evolvermi», è il mantra del songwriter inglese noto anche come l’ingegnere del suono scelto da Robert Fripp per i remix del catalogo dei King Crimson. E oltre ad avere un sound potente e definitissimo, il suo sesto disco solista in uscita il 29 gennaio, The Future Bites, non fa che confermare la sua intenzione di sfuggire a qualsiasi tipo di comfort zone: questa volta il 53enne si è divertito a mescolare le suggestioni prog con l’amore per l’elettronica e la new wave anni ’80, il tutto in un concept ambizioso dove, tra falsetti e cori femminili, si affrontano temi quali il consumismo, l’ossessione per il denaro, il lato manipolatorio dei social. Super ospite, Elton John, che nel singolo Personal Shopper legge un elenco di prodotti superflui o legati a un culto esasperato del sé, dall’acqua griffata alle creme anti-age. “Ora sei la somma di ciò che possiedi”, recita il testo. «Non è un’accusa, ma una constatazione su cui riflettere», spiega Wilson, che nel corso della sua carriera ha portato avanti anche l’impegno in vari progetti paralleli, tra cui No-Man e Blackfield.
Con To the Bone ti eri dedicato alle fake news, qui è un po’ come se proseguissi su quel solco, o no?
Il fatto è che mi piace sempre avere un’idea di fondo per i miei dischi, non necessariamente una storia da narrare, ma un concetto che dia coesione all’opera. In questo caso ho voluto raccontare il modo in cui oggi noi esseri umani vediamo noi stessi, riflessi come siamo nel prisma dei social media. E anche come la nostra specie sta mutando da questo punto di vista, e non in senso buono.
Ossia?
Abbiamo sempre guardato al cosmo, allo spazio, con curiosità e fascinazione, e adesso trascorriamo il tempo a osservare un piccolo schermo per sapere quanti like abbiamo ricevuto su Instagram, Facebook o YouTube: non è assurdo? Siamo sempre più autocentrati, ossessionati da noi stessi, anzi, peggio, dalla nostra immagine sul web, il che oltretutto condiziona i nostri rapporti interpersonali. Senza contare che dipendiamo dalla Rete per qualsiasi cosa – news, musica, cinema, libri – e non credo ci si renda conto delle conseguenze che tutta questa digitalizzazione provocherà.
La vedi così male?
Da ragazzino ho letto i romanzi di fantascienza di Arthur C. Clarke, Philip K. Dick e Thomas M. Disch, scrittori che prevedevano che il progresso tecnologico ci avrebbe schiavizzati: sarà stata una visione distopica, ma a me pare ci abbiano azzeccato, l’unica differenza è che a dominarci non abbiamo ancora i robot, ma Internet. Lo stesso Internet, tra l’altro, che ha modificato persino il nostro modo di fare acquisti, di essere consumatori, e che attraverso algoritmi analizza i nostri dati, comportamenti, gusti, per utilizzarli contro di noi, per persuaderci. Per persuaderci a comprare questo o quell’altro oggetto – spesso cose di cui non abbiamo bisogno –, ad approfittare di questa o quell’altra offerta speciale, ma anche a votare questo o quell’altro leader politico. A volte ci casco anch’io, in questo tipo di meccanismi, ma ciò non significa che non li trovi preoccupanti.
Quando ci caschi?
Per esempio con cofanetti ed edizioni deluxe dei dischi. Sono articoli che mi piacciono, non è questo il punto; il punto è fare di qualsiasi oggetto un business: ne abbiamo bisogno? Siamo l’unica specie che per vivere fabbrica cose di cui non c’è reale necessità: questo ci rende felici?
Non puoi negare che le edizioni deluxe siano anche la tua fortuna…
No, infatti, ma penso comunque quello che ho detto.
E del resto è grazie alla tecnologia che The Future Bites ha un sound così potente, immersivo, dettagliato. Per la produzione hai chiamato al tuo fianco David Kosten: cosa avevi in mente?
Volevo un suono fresco e contemporaneo. Perché sono consapevole che i miei vecchi dischi sono in qualche modo omaggi alla musica del passato e se devo farmi una critica è esattamente questa: da appassionato di storia della musica, materia alla quale mi approccio quasi come uno studente, ho la tendenza a essere nostalgico nella ricerca del suono. Questa volta ho voluto fare un passo oltre, incidendo un disco che è certamente connesso con il mio universo musicale, ma che suona come un album di adesso. O almeno questo era l’obiettivo che avevo in testa quando ho deciso di coinvolgere David, di cui amo le produzioni che ha firmato per Bat for Lashes, Flaming Lips e altri.
Il cambio di stile è evidente: a parte che per 12 Things I Forgot, che è un po’ un episodio a sé, si potrebbe parlare di un pop-rock elettronico in cui hai ficcato dentro echi di Moroder come dei Depeche Mode e dei tuoi cari Pink Floyd.
Sai, quella è la musica con cui sono cresciuto, che ascoltavo con i compagni di scuola negli anni ’80: Cure, Joy Division, Tears for Fears, Talk Talk, Depeche Mode… È il suono della mia adolescenza, ce l’ho nel dna. Ma è vero, è un lato di me che in tutti questi anni di attività non era affiorato così tanto, finora erano emerse perlopiù le influenze classic rock. Sarà che per scrivere The Future Bites, più che dalla chitarra, che è sempre stato il mio strumento tradizionale, sono partito da sintetizzatori e drum machine, macchine che ho imparato ad apprezzare all’epoca di Giorgio Moroder e Donna Summer, continuando in seguito con artisti come Aphex Twin. Sono questi gli ascolti che mentre componevo questi nuovi pezzi mi hanno portato a spingere sul lato elettronico.
Giusto per non creare equivoci, non è che la chitarra non ci sia.
Certo. Prendiamo il singolo Eminent Sleaze: lì non ci sono sintetizzatori, bensì chitarra, basso, batteria, percussioni, archi, Fender Rhodes, voce, eppure il suono è super elettronico e questo per il modo in cui sono stati trattati quegli strumenti. Mi intriga molto la possibilità di rendere elettronici strumenti classici e acustici, e in queste nuove canzoni ci ho giocato parecchio.
A proposito di Eminent Sleaze, il videoclip di Miles Skarin è girato come un cortometraggio: come l’avete concepito?
Ci siamo immaginati un futuro distopico pensando a film come Blade Runner o 2022: i sopravvissuti. Io recito la parte di un imprenditore a capo di una big tech potentissima, di una piattaforma di e-commerce dove chiunque può comprare qualsiasi cosa da ovunque e in ogni parte del mondo. In pratica sono una sorta di Jeff Bezos, il fondatore di Amazon. Solo che a un certo punto divento così potente che la mia attività diventa l’unica a regolare ogni genere di transazione commerciale ed economica, il che porta alla morte di ogni concorrenza e dunque anche del mercato come lo intendiamo oggi.
Ci siamo quasi, direi.
Già, non è uno scenario del tutto fantastico, lo possiamo immaginare proprio perché in parte è già davanti ai nostri occhi, ed è spaventoso. Nel video, però, vado oltre, perché il mio personaggio è l’ultimo esemplare di essere umano sulla Terra, è un essere umano in edizione limitata. Siamo dalle parti della black comedy, naturalmente.
Una black comedy ambientata tra il 2032 e il 2035. Non ti piacerebbe comporre la colonna sonora di un film del genere?
A dire il vero, parlando di cinema, ho un mio progetto che spero di riuscire a realizzare: anni fa ho scritto con un amico una sceneggiatura per un film di cui abbiamo realizzato solo un trailer all’inizio del 2020, giusto prima del lockdown. È un thriller psicologico dai toni dark che ha per protagonista un ingegnere del suono, l’idea sarebbe di farne un’opera d’arte surreale, ispirata al cinema che amiamo, a registi come Nicolas Roeg, David Lynch, Jonathan Glazer, oltre che a La conversazione di Francis Ford Coppola. A parte questo, mi piacerebbe eccome comporre colonne sonore per il cinema: ho scritto le musiche per un videogame tre anni fa (si riferisce a Last Day of June, nda), mentre al grande schermo non ci sono mai arrivato, non mi hanno mai chiamato, ma è un’ambizione che coltivo da tempo, lo ammetto.
Ti sei mai proposto?
Una volta sono andato a Los Angeles per incontrare alcuni studi che si occupano di colonne sonore, ma è un ambito talmente competitivo… Come ormai tutto in questo mondo, c’è troppa gente che vuole fare la stessa cosa. Avrei bisogno che un regista si accorga di me, com’è successo a Jonny Greenwood con Paul Thomas Anderson, il quale la prima volta che lo contattò per una colonna sonora lo fece in quanto fan dei Radiohead, o come quando Sofia Coppola ha voluto gli Air. Vedremo, c’è ancora tempo.
Sicuro, mai dire mai: avevi detto di non aver messo su famiglia per scelta e ora ti ritroviamo sposato con una donna che ha due figli.
Già!
Una cosa, però, non mi aspettavo: l’annuncio su Instagram.
Capisco, in effetti uso sempre i social solo per lavoro, non pubblico quasi mai nulla di privato. In questo caso volevo condividere con i miei fan un cambiamento nella mia vita che è stato davvero enorme e che mi ha reso felice. Ma ci tengo ancora molto alla mia privacy, diciamo che mia moglie da questo punto di vista è più aperta e mi ha convinto che non bisogna nemmeno essere troppo rigidi, perché comunque è questa l’epoca in cui viviamo. Non vorrei essere frainteso, sono convinto di tutte le cose che ho detto fin qui, ma so anche che come musicista non posso fare a meno dei social: pur terrorizzandomi, non posso negare quanto siano utili. Specie ora che a causa della pandemia non posso fare concerti né organizzare incontri con i fan o attività promozionali dal vivo. Cosa mi resta? I social media! Ironico, vero?
Nel 2010 hai chiuso il progetto Porcupine Tree per dare il via alla tua carriera solista. E da allora ti abbiamo visto cambiare non solo musicalmente: ci sono Paesi come Regno Unito e Germania dove hai un pubblico enorme, suoni in grandi venue, ti invitano in tv. Sei a tuo agio in questo ruolo più da popstar?
Ora sì, ma non è stato facile imparare a essere sicuro di me come artista solista, come musicista che non fa parte di una band, ma il cui nome è di per sé un brand. Mi ci è voluto un po’ ad adattarmi a questa nuova condizione, sia sul palco, sia giù dal palco. Resta il fatto che non amo vendere me stesso e questo soprattutto quando devo fare cose mainstream come programmi televisivi o radiofonici molto seguiti e basati sul mero intrattenimento. Perché io non sono così, per me la musica è una cosa seria da trattare seriamente, quindi in quei frangenti faccio fatica.
E sul palco cos’è cambiato rispetto ai tempi dei Porcupine Tree? Anche sei hai dei musicisti con te, il pubblico viene a vedere Steven Wilson; come dicevi, ormai sei tu il marchio.
Sul palco adesso mi sento bene: anch’io ho un ego, non mi dispiace essere al centro dell’attenzione. Ma inizialmente non era così, non ero per niente contento che gli occhi fossero puntati su di me. Sono stati i fan ad aiutarmi ad acquisire sicurezza nel corso del mio percorso da solista, pian piano ho capito che loro erano dalla mia parte, che erano loro a volere che durante i concerti fossi io la star. Così oggi me la godo, anche perché i musicisti che mi accompagnano, la produzione, le luci, il suono, è tutto così curato nei dettagli che non posso che essere fiero di metterci la faccia. Fate di me una rockstar, va bene! (ride).
Una rockstar o una popstar?
Per me rock e pop sono due facce della stessa medaglia. I Beatles erano un gruppo pop, i Pink Floyd erano un gruppo pop. Se molti, specie tra coloro che ascoltano classic rock e metal, se lo dimenticano, è perché conferiscono al termine pop un’accezione negativa.
Gli ultimi tuoi lavori hanno diviso i tuoi fan proprio perché più pop delle tue precedenti produzioni, di qui la mia domanda.
Lo so, c’è gente che mi dice che sono diventato pop come per farmi una critica, solo che per me non lo è, sono contento di essere pop. Sul serio, sono distinzioni che non mi appartengono, per me anche i Cure sono pop, i Tears for Fears, i Depeche Mode… Parliamo di un pop fantastico, sofisticato, esistenziale, intellettuale, descrivilo come vuoi, ma è pop.
Che cosa pensi del crescente dominio del marketing nell’industria discografica?
Il marketing c’è sempre stato, anche Elvis Presley è stato promosso come un prodotto di marketing. La particolarità oggi, secondo me, è che abbiamo due tipi di pubblico, c’è una polarizzazione. Da un lato, ci sono tutte quelle persone che ascoltano musica solo ed esclusivamente in streaming usando le playlist, per cui conoscono le canzoni, ma spesso non sanno di chi sono e nemmeno gliene frega, non gli interessa conoscere gli autori – salvo eccezioni, vedi un personaggio come Billie Eilish. Dall’altro lato ci sono tutti quei soggetti che comprano ancora dischi in cd o in vinile, uomini e donne di una certa età che ascoltano artisti della mia generazione o più anziani, molti dei quali sono disposti a spendere anche tanto per un cofanetto con contenuti speciali o per un disco rimasterizzato. Si tratta di due estremi.
Sì, ma il secondo non credi sia destinato a scomparire?
Beh, di sicuro la maggior parte dei nativi digitali è cresciuta e cresce con l’idea che il supporto fisico non abbia valore.
E tu citi Billie Eilish: ti piace?
Tantissimo, lei è incredibile! E adoro il lavoro di suo fratello, Finneas O’Connell, è interessante come riesca a coinvolgerti al volo con produzioni minimali, fatte di pochi elementi. Ma sai quanti miei amici trovano terribile che io pensi questo?
Facciamoli arrabbiare: chi altro apprezzi nel mainstream?
Stamattina ho sentito il nuovo disco di Taylor Swift: niente male. Abbiamo bisogno di artisti come lei e la Eilish: artisti pop mainstream, ma che perseguono una certa integrità artistica, che hanno voglia di proporre qualcosa per il grande pubblico, ma di autentico, che non sembrano del tutto asserviti alle dinamiche commerciali dell’industria discografica.
Tu in Sound of Muzak, brano dei Porcupine Tree uscito quasi vent’anni fa, cantavi “la musica non intratterrà, avrà lo scopo di reprimere e neutralizzarti il cervello”? Ci hai pensato mentre lavoravi a The Future Bites?
No, ma quei versi esprimono un dilemma che ho dentro di me da sempre, legato al paradosso della musica, che è arte a al tempo stesso prodotto, e al modo in cui questi due aspetti si possono conciliare. Perché non si può fare musica pensando alle aspettative del pubblico, un artista non deve fare ciò che fa per compiacere gli altri, però è pur vero che per campare l’artista deve vendere il frutto della propria creatività, ed è qui che si insinua la contraddizione. Non esistono soluzioni, è un dilemma che non riuscirò mai a sciogliere. Semmai il contrario, mi darà sempre più filo da torcere, visto che gli strumenti con cui abbiamo a che fare continuano a cambiare e con essi le domande che sono costretto a pormi.
Tipo?
Come si può comportare uno come me, che fa dischi concettuali scritti per essere ascoltati dalla prima all’ultima traccia, con una piattaforma basata sui singoli come Spotify? L’unica è trovare un equilibrio.
E da ascoltatore come ti comporti? Alle tue spalle vedo una libreria a tutta parete con una valanga di vinili.
Ma non ho solo vinili, aspetta che ti mostro (gira la webcam e compaiono altre due pareti di CD, nda). Non conosco il numero esatto, ma credo di avere circa 6000 CD 4000 vinili. In tutto 10 mila titoli, posso definirmi un collezionista.
Meglio il suono del vinile o quello del CD?
Dipende dal genere musicale, non capisco chi sostiene che i vinili siano migliori in assoluto. Per la musica classica e soprattutto per l’ambient preferisco il suono più pulito del CD: non ascolterei mai Brian Eno su vinile.