Gennaio è il mese nel quale ci lamentiamo del freddo, è il mese in cui siamo carichi di buoni propositi (il più gettonato credo sia sempre lo stesso: la dieta) ed è anche il mese in cui il gargantuesco Convention Center di Anaheim in California diventa la sede del NAMM, la National Association of Music Merchants, il più grande festival di attrezzature musicali del mondo che sta agli strumenti come Morandi o Raphael Gualazzi stanno al Festival di Sanremo.
Anche se per via della pandemia la convention quest’anno non ha luogo fisicamente, ciò non impedisce ai produttori di chitarre elettriche, lo strumento simbolo del rock che ha stabilito un nuovo impressionante record di vendite nell’anno appena trascorso di sfornare tante appetitose novità. Tradizionalmente, da parecchi anni a questa parte, la parte del leone la fanno le chitarre e i bassi signature, ovvero quegli strumenti realizzati, almeno nominalmente, secondo le specifiche di famosi musicisti che divengono di fatto endorser. Senza scomodare gli aspetti filosofici connotativi che inebriano un giovane brufoloso quando strimpella una Fender Stratocaster Hendrix model, non ci vuole un genio del marketing per capire che gli strumenti “firmati” dal guitar hero di turno sono spesso sinonimo di vendite a sei zeri. Suona la chitarra del tal tizio e catturerai un po’ della sua magia: ovviamente è una fregnaccia colossale, ma a livello di marketing funziona.
Il fenomeno non è nuovo: già nel 1830 liutai leggendari come Johann Stauffer e René Lacôte collaboravano coi virtuosi di quei giorni, gente come Luigi Legnani, Fernando Sor e Napoléon Coste (definito dal musicologo René Vannes «lo Stradivari della chitarra»), per creare i loro modelli signature. Coste è forse il primo chitarrista della storia a vantare un vero strumento di questo tipo, la Lacôte Heptachord (presumibilmente la prima chitarra a sette corde della storia) che recava all’interno della cassa di risonanza la firma del chitarrista francese. Per le chitarre signature le cose si fanno serie quando un ambizioso chitarrista, produttore, inventore proveniente da Waukesha, in Wisconsin, inizia a vendere assieme alla moglie Mary Ford milioni di dischi e stringe una partnership col più storico marchio di strumenti a corda d’America, Gibson: il suo nome è Lester William Polsfuss e nel 1952 arriva sul mercato la sua chitarra, la leggendaria Les Paul (progettata in larghissima misura dall’allora presidente Ted McCarty, con qualche accorgimento da Polsfuss).
Da allora quello dei modelli personalizzati diventa un trend in ascesa che ancora oggi non sembra arrestarsi. Ma se alcuni modelli nel tempo sono divenuti dei veri e propri classici (penso soprattutto alla Stratocaster Eric Clapton, la serie di Les Paul dedicata a Slash e alla PRS di Santana) altri non hanno avuto la stessa fortuna. In un settore dove il concetto di guitar hero cambia più rapidamente di un allenatore sulla panchina della squadra ultima in classifica, i reparti marketing dei marchi sono sempre alla ricerca di nuove icone della sei corde la cui associazione al brand vada a beneficio delle vendite. Ma nella storia delle chitarre segnature certe combinazioni artista + strumento, o i risultati da esse prodotte, sono così assurde che è francamente difficile credere che siano davvero state prodotte con la speranza di successo. Qualche esempio? Ecco le più assurde chitarre signature mai realizzate.
Ace Frehley e la Washburn AF-40
I Kiss sin dal 1973 hanno macinato successi planetari grazie a una combinazione vincente di caratterizzazione camp dei loro personaggi, costumi assurdi (al confronto Alice Cooper e la sua band sembravano dei parlamentari finlandesi), effetti speciali pirotecnici e innegabili inni da pub. Ma gli anni ’80 per la band sono un periodo transitorio: tirano giù la maschera e soprattutto licenziano il loro chitarrista, il leggendario Ace Frehley che però non si piagnucola addosso, ma fonda la sua band, i Frehley’s Comet.
Ora, a dispetto dei suoi abiti di scena sgargianti, Ace è sempre stato noto per la sua associazione con la Gibson Les Paul, uno strumento piuttosto tradizionale. Ma questo è il decennio degli eccessi dove tutto è possibile, ed ecco quindi che nel 1987 i signori di Washburn, un marchio americano minore che sta conoscendo una certa fama, gli propongono di realizzare uno strumento signature, il primo, per lui. Ma certo, perché no? Beh, perché il rischio è partorire la Washburn AF-40. Costruita nello stabilimento Matsumoku in Giappone in pochissimi esemplari, secondo numerose recensioni online è considerata una chiavica senza precedenti.
È indubbiamente brutta (anche se in questo senso il mercato ha fatto ben peggio) ma in modo affascinante, con quelle spigolosità insensate e quel lampo bianco che la attraversa (del resto Ace è lo Spaceman). Peccato che il matrimonio tra Frehley e Washburn fosse solo di facciata: pare infatti che il chitarrista non fosse affatto contento dello strumento. «I tipi della Washburn, davvero belle persone, disegnarono questa chitarra davvero fica da vedere. Sfortunatamente non suonava particolarmente bene. L’ho suonata qualche volta e non aveva il sustain, non aveva la potenza che volevo, quindi sono tornato alla mia fedele Les Paul». In pratica non la suonò mai, ma i feticisti più irriducibili possono ammirare lo strumento nel video del pezzaccio dei Frehley’s Comet Into The Night.
Bono Vox e la Gretsch G6136I “Irish Falcon”
Non sarà un virtuoso, non avrà partorito nella sua strabiliante carriera nessun assolo strappamutande memorabile, non avrà pubblicato corsi di chitarra elettrica o video didattici divenuti classici per tutti gli spigolatori da cameretta del mondo… ma tutti sono indubbiamente d’accordo che The Edge degli U2 (soprattutto nella loro prima produzione) è uno dei grandi scultori sonori dello strumento, capace con una Gibson Explorer, un amplificatore Vox e un pedale delay di definire il suono della band per decenni. Eppure il suo strumento signature, una Stratocaster ad opera della Fender, arriva solo nel 2016.
Lascia quindi quantomeno perplessi il fatto che Bono, nonostante l’indubbio carisma, abbia avuto il suo modello di chitarra con oltre un decennio d’anticipo sul collega e amico, sebbene la sua capacità allo strumento si limiti in genere al giro di Do. E parliamo di un signor strumento: si tratta del fiore all’occhiello della produzione Gretsch, il White Falcon di manifattura giapponese che qui omaggia la patria natia di Bono tingendosi di un bel verde speranza Irish. Il frontman se l’è portata sui palchi di mezzo mondo estensivamente nel 2005 e nel 2006, durante il Vertigo Tour.
Finiture in oro, la firma di Vox al dodicesimo tasto, custodia rigida e certificato di autenticità impreziosiscono il pacchetto per uno strumento dal notevole stile, come ribadisce la scritta sul battipenna “The Goal is Soul”, lo scopo è l’anima. Con un prezzo al pubblico di circa 3600 € io aggiungerei però che lo scopo è soprattutto fare cassa.
Courtney Love e la Squier Venus
Oggi è abbastanza normale vedere alle pareti di forniti negozi musicali strumenti signature di chitarriste donne: pensiamo ai modelli di Nita Strauss, di Joan Jett, di Jennifer Batten fino a St. Vincent, che ha dichiarato di aver progettato una chitarra elettrica che si adattasse meglio al corpo di una donna. Del resto le donne le chitarre le hanno sempre suonate (un nome su tutti: la mitologica Sister Rosetta Tharpe con la sua Gibson SG Les Paul Custom bianca). Eppure, nel 1997, erano solo due le signore a beneficiare di uno strumento a loro dedicato: una era la stratocaster di Bonnie Raitt, virtuosa blueswoman vincitrice di dieci Grammy e numero 50 nella classifica dei 100 Greatest Guitarists of All Time di Rolling Stone. L’altra era la Squier Venus di Courtney Love, la madrina del punk-rock alternativo anni ’90, la Yoko Ono del grunge diventata (ingiustamente) quasi più famosa come la vedova di Kurt Cobain che non per i propri meriti artistici.
Nel 1997 le sue Hole sono su tutte le principali riviste musicali: Courtney è una specie di Madonna proletaria scappata di casa per andare a vivere in una roulotte e campare di espedienti, una figura alla quale le giovani ragazze si ispirano per provare il brivido dell’anticonformismo patinato di L.A. (non siamo esattamente dalle parti di Lydia Lunch). Dedicare una chitarra “alternativa” alle aspiranti chitarriste imbronciate che popolano sempre di più i festival musicali come il Lollapalooza sembra una buona idea al reparto marketing di Fender. Nel 1997 debutta quindi la Venus, chitarra solid body progettata da Fender e uscita per la sua marca consorella delle case popolari Squier “in collaborazione” con Courtney Love. Il virgolettato è d’obbligo in quanto successivamente all’uscita del modello ci fu una disputa in merito: Tim George e Danny Babbitt rivendicano la paternità del design, avendo costruito nel ’93 una chitarra sospettosissimanete simile in mille dettagli alla Venus proprio per Courtney Love, da loro chiamata Mercury e visibile nel video di Violet (per chi volesse approfondire la vicenda, trovate le dichiarazioni di Tim George qui).
In ogni caso la Venus appartiene alla linea Vista, realizzata in Giappone secondo standard produttivi più elevati rispetto a quelli delle normali Squier, strumenti spesso entry level che intorno alla fine degli anni ’80 e i primi ’90 avevano una reputazione bassa come il loro prezzo (oggi le cose sono radicalmente cambiate). Nonostante fosse l’unica chitarra del catalogo ad avere una forma originale (a me ricorda la figlia meticcia di una Strato e una Rickenbacker) rispetto ai canoni classici, o forse proprio per questo, non fu un successo e venne prontamente dimenticata, riaffiorando sporadicamente in qualche annuncio on line in cui viene sempre ottimisticamente definita un pezzo da collezione. In ogni caso la Squier Vista Venus testimonia la popolarità e l’influenza di un personaggio mai abbastanza apprezzato (chiaramente non parliamo della sua abilità allo strumento (ma tanto è tutta una questione di attitudine, giusto?).
Al Jourgensen e la Schecter Triton
Un pioniere della musica industrial, un artista che non si è mai piegato al compromesso, un eroinomane per oltre 20 anni, un amico di William Burroughs: Al Jourgensen è tutte queste cose e anche di più. Leader e demiurgo incontrastato dei Ministry, una band formidabile che coniugava riff violentissimi a beat dance sotto anfetamina (senza la quale probabilmente Trent Reznor e Marilyn Manson oggi sarebbero impiegati amministrativi in una società di analisi dati), in oltre quattro anni di carriera Al non si è fatto mancare nulla: ha raggiunto il successo mainstream e ha toccato il fondo più profondo per poi risalire e diventare una figura di culto. A metà anni ’90 se ne stava nella sua casa di Austin, Texas, quando riceve la telefonata di Stanley Kubrick che gli chiede di comparire in A.I. e di contribuire con due pezzi dei Ministry. Jourgensen, pensando sia uno scherzo telefonico, gli sbatte la cornetta in faccia. Poi Kubrick muore, ma Spielberg, a cui aveva passato il testimone, ricontatta Jourgensen che compare nel film, diventando anche amico del regista nonostante i rapporti inizialmente fossero tesi tra i due (prevalentemente per il fatto che Jourgensen continuava a scherzare con tutti sul titolo del film dicendo che A.I. stesse per Anal Intruder).
Divagazioni a parte, poteva un personaggio di siffatta caratura non meritarsi una chitarra signature? A realizzarla ci pensa Schecter, azienda della Sun Valley specializzata in suoni belli pesanti, che nel 2010 annuncia la Triton. Realizzata dalle sapienti e relativamente economiche mani di artigiani sudcoreani, si tratta di un’ingegnosa rivisitazione della classica forma a freccia della Flying V fatta apposta per essere brandita da Nettuno durante un concerto heavy nelle profondità marine. Perché associare la figura di Jourgensen a un tema oceanico non è chiaro, ma del resto tante cose nella vita dell’artista non lo sono. Jourgensen è un polistrumentista che sa suonare una varietà di strumenti («nessuno bene» dice con onestà), ma credo nessuno gli abbia visto suonare questa. A dire il vero chi scrive non ne ha mai vista una suonata da nessuno. Esisterà davvero?
Kiefer Sutherland e la Gibson KS-336
Una decina d’anni fa i responsabili del Gibson Custom Shop, il fiore all’occhiello della produzione del leggendario marchio, fecero uscire una limitatissima serie di strumenti che incorporassero caratteristiche uniche come unico era lo stile dei loro mitologici possessori, veri e propri titani delle sei corde: gente come Slash, Robby Krieger dei Doors, Mike Bloomfield, Johnny Winter, Kiefer Sutherland. Ferma un attimo: Kiefer Sutherland? Kiefer Sutherland, l’attore figlio d’arte con la faccia un po’ da stronzo star della serie 24? Esatto. Sembra assurdo ma nel 2007 Gibson produce questo modello (in soli 155 esemplari) dal prezzo non proprio accessibile e dalle specifiche abbastanza peculiari: dimensioni più ridotte della classica semiacustica 335, intarsi super 400, finitura dorata (battezzata opportunamente Kiefer Gold), firma autografa sullo strumento dell’attore e humbucker speciali.
Con questa stupenda ascia potrete finalmente emulare il vostro idolo suonando tutte le sue canzoni! Non ne conoscete manco una? Tranquilli, non siete soli. Quando scoprii che Kiefer aveva il suo strumento signature una sola domanda mi tormentò per settimane: perché? Forse un motivo, seppur labile, potrebbe essere il fatto che sin dall’adolescenza il nostro è stato un avido collezionista che oggi vanta una portentosa collezione di strumenti vintage. Ma questo vale anche per Steven Seagal. Dov’è quindi la sua Gibson SS-336?