Mettiamola così. Visto che nella nuova serie Il commissario Ricciardi, in onda dal 25 gennaio su Rai 1, le espressioni facciali di Lino Guanciale variano dal “non sto sorridendo” al “non sto sorridendo affatto” (ed è pure circondato da una sfilza di fantasmi…), abbiamo deciso di rimediare noi e sdrammatizzare con una chiacchierata-intervista semiseria. Piccolo spoiler (ok, non si fa, ma tanto lo spoiler riguarda questa intervista, mica la serie): il novello Lino “ghost whisperer” è ancora il favorito del pubblico generalista dopo i successi di Non dirlo al mio capo, L’allieva, Arrivano i prof, Che Dio ci aiuti… Sorride, e pure parecchio, scherza, e ha qualcosa da dire ai suoi eredi naturali Gianmarco Saurino e Pierpaolo Spollon. Ma adesso iniziamo dal principio, ossia dalla prima domanda.
Con Ricciardi cambi personaggio ma anche epoca, ambientazione, tono, genere (la serie è noir, nda). Sbaglio o più passano gli anni e più ti piace alzare l’asticella delle tue performance?
Non solo mi piace, ma credo sia anche una scelta necessaria. In Accademia i miei insegnanti me lo ripetevano sempre: «Devi fare questo mestiere fino a quanto avrai forza di stare sul palco, quindi non devi pensare ai prossimi dieci anni, ma ai prossimi 80».
Mica facile.
No, certo, però credo che la chiave sia proprio esigere, ogni volta, qualcosa di più e di diverso da se stessi. Solo così si avrà maggiore possibilità di continuare a recitare in maniera soddisfacente, per se stessi e per chi ci guarda.
Però, fattelo dire, sei anche il terrore dei produttori tv: se da un lato averti è un motivo di vanto, perché vuol dire che il progetto probabilmente merita ed è coraggioso, dall’altro tu non ti fai problemi a mollare un personaggio, persino sul più bello: ogni riferimento a L’allieva e Che Dio ci aiuti è puramente casuale…
Sì, lo ammetto: sono il terrore delle società di produzione, e non solo per questo motivo! Avermi sul set è un incubo perché, soprattutto prima della pandemia, ero solito incastrare molti progetti insieme. Ora, diciamo così, sto un po’ migliorando ma solo per ragioni di anzianità! (ride, nda) In questi giorni sto girando la serie tv Sopravvissuti e ogni tanto sul set sbuca fuori qualcuno che mi chiede: «Vabbè Lino, siamo in pausa pranzo: che vai a fare, una lettura a Pietralata?» (ride, nda) Quanto invece alla mia tendenza a lasciare i personaggi nel bel mezzo di una serie, sono convinto che valga la pena stare in un progetto fintanto che c’è così tanto da raccontare che le persone sono felici di vederlo. Noi attori non ci stancheremmo mai di interpretare un personaggio, ma il pubblico, al contrario, potrebbe stufarsi. Bisogna essere quindi bravi a mettersi nei panni dello spettatore e capire quando è il momento di passare ad altro.
Credi che la recente infornata di serie antologiche americane nasca in parte da qui, ossia dalla necessità di non proseguire sempre e comunque a oltranza?
Sì, per certi versi il mercato sta seguendo un ragionamento analogo al mio: per non cadere nel rischio di saturazione delle serialità lunghissime (quelle, per intenderci, calibrate sul “fine mai” virtuale), sta coltivando il desiderio della serialità limited. Questo infonde maggiore vitalità e ricchezza al settore. Sta poi a noi attori dimostrare di essere all’altezza sia dell’una che dell’altra via seriale.
A proposito di avvicendamenti, dal punto di vista artistico sei il padre putativo di Gianmarco Saurino…
… e pure un padre po’ snaturato, visto che l’ho abbandonato in diverse serie tv. Però non l’ho mai rinnegato, anzi, sono orgogliosissimo del successo che sta riscuotendo.
Hai visto? Lui e Spollon sono praticamente la coppia d’oro della serialità italiana: i nuovi Gabriel Garko e Manuela Arcuri.
Io avrei anche un’idea di chi potrebbe essere chi, ma la terrò per me.
Insistiamo per saperlo.
Non credo che Spollon accetterà mai l’affinità estetica con Manuela, per via dei capelli… (ride, nda).
Senti, Lino, io non voglio metterti ansia, ma qui, a occhio, nel giro di due anni Saurino e Spollon ti soffieranno il ruolo di sex symbol. Come la mettiamo?
Il vintage è un evergreen! Quindi, ragazzi, fate pure la vostra corsa che tanto… (ride, nda)
E io che pensavo non amassi essere definito sex symbol.
Non è quello il punto. Per spiegarlo meglio, devo tornare a evocare i miei studi in Accademia, quando i miei stessi insegnanti faticavano nel riuscire a incasellarmi in una tipologia precisa di attore. All’epoca mi dannavo di non avere un percorso segnato davanti a me, poi, con il tempo, mi sono reso conto che era invece una opportunità perché mi permetteva di essere versatile e spaziare tra generi e ruoli. Per riuscirci, però, è bene non affezionarsi mai troppo alle etichette, ma guardarle con il distacco di Ricciardi.
Nell’intervista che Saurino ha rilasciato a Rolling Stone, il tuo erede al trono spiegava che in Inghilterra esistono delle palestre di recitazione, frequentate anche dagli interpreti più quotati. Tra un set e l’altro, gli attori studiano: tutti quanti, sempre. Perché in Italia è così difficile immaginare una formazione continua per gli attori?
La filosofia del training continuo, di cui parlava il buon Saurino, è figlia dell’Actors Studio americano: si tratta di un set in cui gli attori, sia quotatissimi che esordienti, attuano una sorta di pedagogia autogestita, fondata sullo scambio reciproco. Sarebbe interessante se, a partire proprio da noi, scattasse una cultura auto pedagogica permanente. È chiaro che andando all’estero si ha l’opportunità di perfezionare anche la lingua, ma sarebbe utile se lavorassimo di più per implementare questo tipo di cultura: alcuno corsi esistono già, anche molto buoni, ma sono meno rispetto ad altri Paesi europei.
Noi italiani siamo forse troppo gelosi delle nostre competenze per poterle condividere con i colleghi?
Questo valeva, più o meno, fino alla generazione precedente alla mia. Per decenni abbiamo infatti vissuto la recitazione come un settore a compartimenti stagni: chi faceva cinema snobbava la televisione; chi lavorava in tv non si cimentava con il teatro; chi faceva teatro si votava solo a quello. Di questa mentalità a steccati era figlia anche una certa, passatemi il termine, prosopopea: un’arroganza sciovinista di chi pensa che, arrivati a un certo punto, non sia più necessario formarsi. Dalla mia generazione in poi, compresa quella di Saurino e Spollon (che sono più giovani, ma poi non così tanto…), le cose sono cambiate. Gli steccati tra cinema/tv/teatro sono caduti e il training continuo è un ragionamento che si può fare perché adesso esiste una democraticità di scambi molto più grande di quello che potrebbe sembrare.
A proposito di teatro, il settore si è schierato contro Sanremo sostenendo che se il pubblico va all’Ariston allora tanto vale riaprire anche sale e teatri. Qual è la tua posizione in merito?
Sanremo si deve fare. Ma se si deve fare Sanremo, allora si devono anche riaprire le sale teatrali. Capisco perfettamente la logica sottesa al provvedimento legato alle chiusure, che è quella di evitare il più possibile gli spostamenti delle persone, e dico: «Ok, obbedisco». Noto soltanto che se il teatro e le sale cinematografiche finiscono in fondo a una graduatoria preceduta da altre cose, è per una carenza di considerazione. Bisogna lavorare affinché questa mentalità evolva e devono farlo non tanto, o non solo, i politici, ma anche noi che apparteniamo al mondo dello spettacolo: oltre a fare bene il nostro lavoro, dovremmo raccontarne l’utilità. L’abbiamo sempre data per scontata ma, evidentemente, non è così.
Torniamo a te. Dopo Ricciardi sarai nella fiction Sopravvissuti, nell’adattamento italiano di This Is Us e nel nuovo film di Paolo Genovese Il primo giorno della mia vita. Esattamente in quale dimensione parallela vivi per essere riuscito a fare tutte queste cose, quando noi qui siamo tappati in casa per la pandemia?
La dimensione parallela si chiama set: all’inizio temevo che non potesse essere un ambiente davvero sicuro, ma mi sono dovuto ricredere. Hanno attivato una serie di protocolli sanitari efficacissimi, due volte a settimana mi sottopongo al tampone (rapido e molecolare) e a loro volta tutti i membri del set fanno tamponi e test sierologici. Ci togliamo le mascherine solo quando si batte il ciak e a vigilare su tutto c’è un nuovo cerbero, coniato dal protocollo, che è il Covid manager. Ha il compito ingrato di far mantenere la distanza e i presidi sanitari. Il set dunque funziona come sarebbe bello che funzionassero tutti gli ambienti lavorativi garantendo la massima sicurezza.
Senti, ma se corri tra un set e l’altro persino in piena pandemia, il famoso “Ora mi fermo un po’ con la tv e il cinema” esattamente quando accadrà?
Sarà il mio esordio alla regia: Ora mi fermo un po’, un film di Lino Guanciale. È sempre questo, in realtà, che volevo dire quando parlavo di prendermi una pausa dal set (ride, nda).
Il film di Genovese è targato Medusa, eppure avevi sempre detto che per ragioni politiche non avresti mai lavorato con Mediaset. Cosa ti ha spinto a cambiare idea?
Dal mio punto di vista, oggi lo scenario politico è mutato rispetto a dieci anni fa. Nutro molto rispetto per un’azienda come Mediaset che dà lavoro a decine di migliaia di persone, e sarebbe sbagliato demonizzare a priori un intero polo produttivo. Non c’è quindi alcun veto verso Mediaset né verso qualsivoglia interlocutore. Quello che conta, per me, è il valore dei progetti e le relazioni artistiche in campo.
Un’ultima domanda: durante il lockdown hai letto Il barone rampante di Italo Calvino su Instagram. Ti saresti mai aspettato un seguito così ampio (nonostante l’orrenda lampada a forma di scimmia)?
Come orrenda?!? Io e mia moglie adoriamo quella scimmia! Ci prendiamo cura di lei e ormai è a tutti gli effetti un membro della nostra famiglia! Pensa che adesso che fa freddo le mettiamo addirittura dei vestiti pesanti. Quanto al successo di Calvino, se fai una proposta di qualità, magari non la vedrà proprio tutto il mondo ma può comunque ottenere un riscontro superiore alle aspettative: ci sono desideri degli spettatori che noi nemmeno conosciamo. La miopia semmai sta nel puntiamo sempre e solo sui desideri che inoculiamo noi al pubblico. Se una storia è bella, vale. Sempre.