E se al posto di discutere appassionatamente circa la natura dell’Ariston nei giorni del festival, se è più teatro o più studio televisivo, se al posto di dividerci in tifoserie che parteggiano per i canzonettari o per i teatranti, se al posto di raccoglier firme su Change o parlare di rispetto per morti e disoccupati, se al posto di fare queste cose cogliessimo l’occasione per trasformare Sanremo 2021 in una sperimentazione da cui tutti traggono vantaggio?
Sanremo rischia di essere cancellato nell’anno in cui potrebbe funzionare da volano per tante band emerse dal basso oppure di essere trattato nel secondo anno del Covid come un programma televisivo qualunque. Ne ho parlato con Alberto “Bebo” Guidetti dello Stato Sociale ed è venuta fuori l’idea di trasformare Sanremo 2021 in un laboratorio dove succedono almeno due cose: si sperimenta la possibilità di tornare a far musica di fronte a un pubblico, per poi estendere il modello ai club e ai teatri di tutta Italia; si porta su un palco enorme il vissuto dell’ultimo anno di musicisti e maestranze, dirottando il festival lontano dalla retorica e verso cause molto concrete.
Alla conversazione ha partecipato Emiliano Colasanti, co-fondatore di 42 Records (Cosmo, I Cani, Andrea Laszo De Simone, la coppia Colapesce e Dimartino), qui in veste di membro del collettivo La Musica che Gira, che da quasi un anno lavora per far rientrare il mondo della musica nella narrazione sulla crisi da cui era escluso per pregiudizio, ostilità, abitudine. Bebo premette una cosa: risponde a titolo personale, non a nome della band. Dentro Lo Stato Sociale ci sono voci e opinioni diverse. Questa è la sua.
Sanremo sì, Sanremo no, Sanremo col pubblico, Sanremo senza. Qual è la qualità della conversazione pubblica attorno al festival, a tuo modo di vedere?
Bebo: Il momento è complesso, difficile dare una lettura univoca. Sanremo non è separato dalla realtà. Spesso ne contiene degli spaccati. Sarebbe bello che accadesse anche quest’anno. Teatri e club sono fermi, il festival non può far finta di niente. Specie con un cast di questo tipo: non band costruite per andare a Sanremo, ma abituate a fare concerti in locali dove c’è bisogno del pubblico per esistere.
E quindi?
Bebo: E quindi si stilino dei protocolli col Comitato tecnico scientifico e si usi Sanremo come un laboratorio dove si dimostra che è possibile fare spettacoli in sicurezza davanti a un pubblico. Esibirsi col pubblico davanti e basta sarebbe un po’ una presa in giro. Bisogna farlo con lo scopo di riaprire tutto il resto, anche con calma, magari dopo due mesi.
Servirebbe un cambio di prospettiva. In dicembre, l’uso di test rapidi in una sala concerto in Spagna ha dato risultati apparentemente buoni. Non sarebbe grandioso se Sanremo diventasse il luogo in cui si trova la chiave per fare concerti?
Bebo: Mi guardo attorno e mi chiedo: che differenza c’è fra un teatro dove lavora tanta gente e che è chiuso da mesi e una fabbrica con mille lavoratori che è aperta e che nessuno controlla? Io non vedo differenze: sono due posti di lavoro e meritano lo stesso rispetto. Non è che dietro c’è l’idea che chissenefrega di quelli della cultura e dello spettacolo perché, citando Toti, non sono indispensabili allo sforzo produttivo del Paese? Di farmi trattare ingiustamente non mi va bene. E penso di dirlo a nome di tutti: non ci va bene.
Ma t’immagini, Sanremo che diventa un modello per la riapertura de club in crisi, che proprio ieri hanno lanciato la campagna social #UltimoConcerto…
Bebo: Quando siamo stati convocati alla finale di Sanremo Giovani ci hanno fatti entrare a scaglioni, siamo stati tamponati, poi sempre a scaglioni siamo stati portati giù. Nel retropalco erano tutti tamponati. Mettere in piedi una produzione si può. La domanda è: perché investire soldi per 300 persone all’Ariston e non usare quell’investimento per stilare un protocollo? Tutto questo casino succede perché parliamo di Rai, è la rete pubblica. Nessuno si è stracciato le vesti per X Factor o per le produzioni Mediaset, che sono private. Nel momento in cui tu, pubblico, trovi un modo per mettere della gente in platea, crei un precedente. E quando uno Stato crea un precedente, noi cittadini possiamo replicarlo. A me dispiace che Amadeus venga tirato per la giacchetta, io non penso che sia lui a dover decidere. È un professionista dello spettacolo, non della sanità o della sicurezza sul lavoro. Non lo conosco personalmente, ma mi sembra uno che davvero ci sta mettendo l’anima. Ma è anche vero che Sanremo lo guardano tutti, potrebbe diventare uno strumento di speranza.
Con Lo Stato Sociale hai fatto concerto d’ogni tipo. Pensi sia fattibile pensare a un club che prende le medesime precauzioni dell’Ariston o di uno studio televisivo? Parlo di mezzi economici, di personale, di tutto.
Bebo: Ci sono professionisti che non vedono l’ora di dimostrare che sono bravi e capaci, e che lo sono anche nell’organizzare concerti che tengano conto della tutela igienico-sanitaria di tutti. Certo, ci vogliono soldi, non tutti se lo possono permettere, ma ci sta che se suoni chessò al Locomotiv Club di Bologna paghi 5 euro in più per i tamponi. Si possono trovare accordi con la Siae, tagliare l’Iva, si possono fare tante cose. Conta la volontà di farle. Se ne poteva parlare quattro mesi fa e invece Franceschini arriva e dice: no pubblico. Ma chi sei, il re?
Colasanti: C’è un Dpcm che detta le regole dei programmi televisivi col pubblico («alle trasmissioni televisive non si applica il divieto previsto per gli spettacoli, perché la presenza di pubblico in studio rappresenta soltanto un elemento “coreografico” o comunque strettamente funzionale alla trasmissione», nda), il suo intervento sarebbe stato inopportuno anche solo per questo. Ma soprattutto penso che sia stato commesso un errore di narrazione da parte di Sanremo concentrandosi su pubblico sì o pubblico no, l’Italia normale contro l’Italia dei privilegiati. Del resto Sanremo è come il calcio e la politica, genera discussioni polarizzate. E invece si poteva lanciare un segnale spiegando l’importanza della presenza del pubblico. Dire: proviamo a rendere Sanremo un modello virtuoso di sperimentazione. Dopo undici mesi di pandemia non si può più dire: state fermi e se non state fermi siete irrispettosi nei confronti di chi non lavora. Troviamo una strada per ripartire. È un’opportunità per tutti.
Il legame coi club vale tanto più in questa edizione. Gran parte di chi partecipa al festival 2021 campa di concerti in quei posti lì e va a Sanremo anche per aumentare ingaggi e cachet.
Bebo: Credo sia il Sanremo il cui cast, sommato assieme, ha fatto più live. È un cast generazionale. Siamo tutti in giro da una decina d’anni, chi più chi meno. È una fotografia di com’è cambiata la musica. Un motivo in più per capire quanto c’è bisogno del mondo dei club e del live. Non c’è un artista che ti dice: è bello fare i dischi, e basta. Ti dicono tutti: è bello fare i dischi e poi andare a suonarli live. Arriviamo tutti al festival con un pubblico, c’è una rappresentazione più sincera di quello che è il mercato dei live. Per Sanremo è un’operazione win-win: portiamo tutti un pubblico creato in dieci anni di attività. E mi auguro che l’anno prossimo ci saranno tre o quattro ragazzi o ragazze che fanno trap. Già quest’anno c’è Madame che per me che ho 35 anni sembra venire dal 2050.
Colasanti: Dobbiamo smettere di pensare a Sanremo come un ecosistema svincolato dal mondo reale. Sanremo è la festa della grande discografia, ma quest’anno non c’è solo quello. È un’opportunità e non in quanto vetrina. Parlo della possibilità di far passare l’idea che un altro modo di fare le cose è possibile. Il sistema musica non funzionava bene prima della pandemia. La pandemia piò essere l’occasione per ripartire in un altro modo riformando il settore, facendo lavorare la gente sempre di più in sicurezza, eliminando il nero. Nei concerti dell’estate 2020 avevamo gli puntati addosso da chi pensava: ora vediamo le cazzate che fanno quelli del rock’n’roll. E invece cazzate non ce ne sono state. Ecco, usiamo Sanremo per far vedere che siamo in grado di fare le cose sul serio, di rispettare le regole, di far stare bene tutti.
Leggo spesso sui social: ci sono la crisi di governo, il Covid, l’economia a pezzi e questi pensano a Sanremo.
Bebo: È giusto preoccuparsi di Sanremo perché è la punta dell’iceberg. Sotto ci sono decine di migliaia di famiglie e milioni di fatturato. Una fetta di Pil.
Forse dietro a quelle frasi c’è l’idea che la musica non sia un settore produttivo vero.
Bebo: Noi siamo quelli che la prendono nel culo, eppure siamo gente simpatica e rispettosa. Se non lo fossimo, scenderemmo in piazza o apriremmo i teatri come hanno fatto quelli che per un giorno hanno aperto i ristoranti – che poi, cos’hanno dimostrato, che sono degli scemi? Siamo l’amico buono che si fa andare bene tutto. Però come diceva Max Collini, citando un altro, la pazienza è finita. O sta per finire.
E che cosa succede quando la pazienza dei musicisti finisce?
Bebo: Quando saremo a Sanremo – e ancora non sappiamo quando, gli artisti sono gli ultimi a saperlo – un cast intero dirà che bisogna ripartire coi live. Va capito come dirlo. Alcune cose vanno dette davanti a tante persone: abbiamo una possibilità e non dobbiamo farcela scappare. L’obiettivo a Sanremo non è piazzarsi bene o vendere un camion di dischi. L’obiettivo è andare là e dire: oh ragazzi, belli i lustrini e le luci, ma la faccenda non sta funzionando per niente per noi, qui c’è un problema bello grosso. Quando sono intelligenti, e in questo cast ce ne sono tanti di intelligenti, gli artisti fanno paura. Far l’artista in un anno come questo è una responsabilità civile. Quelli si mettono in casa gente che sa parlare, che partecipa alle attività di Musica che Gira. Mi vengono i brividi a pensare che saremo in tanti a raccontare la stessa cosa. Sarà una grande occasione e non ce la faremo scappare. Non voglio dire che andremo lì a sbraitare, eh?
Colasanti: All’inizio della pandemia il settore musica si è trovato di fronte all’esigenza non di urlare, ma di spiegare alle persone che facevano un mestiere, che il nostro è un lavoro, che paghiamo le tasse come gli altri. Ricordi quando Tiziano Ferro è andato da Fabio Fazio a sollecitare una indicazione dal governo circa l’annullamento dei concerti? È stato aggredito, al pubblico è arrivata l’idea del cantante milionario che vuole fare il suo concertino. Ma non è così. Non dobbiamo spaventare la gente e passare per quelli che vogliono fare musica mentre la gente muore. Dobbiamo dire: qui c’è un sistema che crolla ed è fatto di individui, di persone, di famiglie. Come Musica che Gira, ma anche come Scena Unita, ci piacerebbe provare a fare di Sanremo il luogo dove confluiscono tutte le azioni fatte durante l’anno. Possiamo parlare dei tecnici su quel palco. Ci sono band che dividono con loro i tour sui furgoni, non è che li vedono la sera quando arrivano al palasport. Condividono lo spazio, conoscono i loro problemi. Questa è la battaglia dei soggetti più piccoli dell’ecosistema musica.
Il fatto che Lo Stato Sociale porti un pezzo chiamo Combat Pop non è quindi una coincidenza?
Bebo: Non posso dire niente perché c’è un embargo. Però, nomen omen, nulla è per caso.
Qual è la cosa che più vi ha colpito o sorpreso di Musica che Gira e delle iniziative dell’ultimo anno?
Colasanti: Abbiamo sempre pensato che ce l’avremmo fatta da soli, perché abbiamo tutti raggiunto dei risultati insperati. Ci siamo resi conto che messi insieme facciamo molto più rumore, che siamo più forti. Siamo i non rappresentati dalla grande discografia, e parlo di artisti e strutture. Abbiamo capito che non eravamo rappresentati perché non ci si parlava tra di noi, oppure se lo si faceva era con le birrette nel backstage e non seriamente.
Bebo: Per me è stato il momento in cui a inizio pandemia c’è stata l’idea di aprire un gruppo WhatsApp, di quelli che pensi: non succederà mai un cazzo, siamo troppi. E invece è stata una scintilla che ha acceso un fuoco che arde ancora. È stato un momento catartico. Abbiamo scoperto che siamo un sistema, che siamo solidali, che siamo capaci di leggere il presente e prevedere il futuro. Abbiamo scoperto che possiamo stare insieme oltre individualismi e rosicate. E adesso andiamo a fargli il culo, porca puttana.