Piccolo momento mitomania: ho scoperto Shtisel prima che diventasse cool, anzi, molto prima che diventasse cool, durante un sonnacchioso, pallosissimo e piuttosto dimenticabile Natale trascorso a Milano. La serie israeliana creata da Ori Elon e Yehonatan Indursky si nascondeva lì, tra le infinite pieghe di Netflix, e costituì uno degli apici delle mie (non) vacanze, meritandosi un entusiastico post su Facebook dove accusavo la maggioranza della critica televisiva nostrana di recensire sempre gli stessi titoli e partecipare sempre alle stesse discussioni, senza mai sbattersi per trovare qualcosa di nuovo meritevole d’attenzione. Il tempo mi diede ragione: di lì a poco in parecchi s’accorsero di quel piccolo gioiello che racconta uno dei tanti risvolti dell’ortodossia ebraica, e che insieme ai più recenti One of Us e Unorthodox completa il viaggio intrapreso dalla piattaforma all’interno della comunità chassidica.
In principio furono gli adattamenti: In Treatment, sviluppata e prodotta per HBO da Rodrigo García, basata sulla serie tv israeliana BeTipul creata da Hagai Levi; Homeland, firmata Howard Gordon e Alex Gansa per Showtime, tratta da Prisoners of War di Gideon Raff; Hostages, infelice remake andato in onda su CBS dell’omonimo (e in patria fortunatissimo) format di Alon Aranya e Omri Givon. Ma ci sono anche Euphoria di Sam Levinson (produzione HBO, in Italia su Sky Atlantic), tratta dall’omonima miniserie ideata da Ron Leshem e Daphna Levin, ed è in arrivo il 24 febbraio – ancora su Sky Atlantic – Your Honor, thrillerone sviluppato da Peter Moffat per Showtime (adattamento di Kvodo, di Ron Ninio e Shlomo Mashiach) con un Bryan Cranston tornato ai vecchi splendori.
La lista è ben lungi dall’essere completa (tra un attimo c’arriviamo), ma prima occorre puntualizzare ciò che – forse, per alcuni – è ovvio: da più d’un decennio Hollywood si è rivolta a Israele per cercare nuovi contenuti che fossero adattabili a un pubblico di lingua inglese. Agli americani mancavano buone idee e chi sapesse scriverle (non storcete il naso, succede pure nelle migliori famiglie); gli israeliani, dal canto loro, non potevano contare grossi budget: il matrimonio perfetto. Ci sono poi un paio di ragioni un po’ “antropologiche” per spiegare la vivacità cinematografica ebraica: per un popolo abituato sin dalla notte dei tempi a far di necessità virtù, l’insufficienza di fondi destinati a grandi produzioni è stata una manna per sceneggiatori, attori e giovani registi. I primi hanno affinato le loro capacità di scrittura, plasmando personaggi incredibilmente ricchi e sfaccettati; i secondi hanno cominciato a regalare performance indimenticabili, dando prova di capacità interpretative da Actors Studio; i terzi non si sono lasciati scoraggiare dai pochi soldi sul piatto, ostinandosi a voler dimostrare il proprio talento dietro la macchina da presa.
Infine, se vogliamo chiudere il cerchio, c’è l’imprescindibilità – nella cultura e nella religione ebraica – dell’alfabetizzazione, sin dall’epopea tardoantica: ogni bambino era tenuto a frequentare la scuola dai tre ai tredici anni, perché doveva imparare a leggere, a scrivere, a capire. «La nostra continuità si fonda da sempre su parole dette e scritte, su un labirinto di interpretazioni, dibattiti e dissensi in continua espansione. (…) La nostra è una linea non di sangue, ma di testo», puntualizzano Amos Oz e Fania Oz-Salzberger nel bellissimo, fondamentale, Gli ebrei e le parole. E questa padronanza, questo allenamento, quest’uso sapiente, intimo e intenso della scrittura, oltre a non essersi mai perso, oggi tratteggia con maestria il tema comune, trasversale ai diversi titoli: il conflitto – interiore ed esteriore – affrontato quotidianamente da chi vive nel Vicino Oriente.
Man mano che l’industria cinematografica israeliana cresceva, piattaforme ed emittenti statunitensi hanno visto confermato il loro iniziale sospetto: le serie tv israeliane hanno una peculiarità che la maggioranza dei prodotti televisivi non possiede, ossia la chutzpah. Che è traducibile con sfrontatezza, faccia tosta, impudenza: non hanno paura di superare i limiti e arrivare dove devono (guardare per credere: se vi sembrava “eccessivo” l’Euphoria americano, provate a dare un’occhiata all’originale andato in onda nel 2012), così come non hanno paura di essere critiche nei confronti del proprio Paese, se non – a volte – addirittura controverse. Dunque, per quale motivo rifarle, quando ormai camminano benissimo sulle loro gambe, e basta solo aggiungere dei sottotitoli?
C’è chi ha avuto l’occhio lungo fin dal principio: vedi alla voce Netflix (con Fauda, Quando volano gli eroi e il già menzionato “filone chassidico”); Fox con False Flag (un cult, tanto che Apple TV+ s’è aggiudicata un remake con Uma Thurman dal titolo Suspicion) e HBO con Our Boys, prima serie in lingua ebraica e araba per l’emittente, co-produzione tra la stessa HBO e il canale Keshet 12. Se la questione israelo-palestinese resta comunque centrale, nel caso di Our Boys si parte da un evento realmente accaduto: il rapimento e l’omicidio di tre adolescenti israeliani in Cisgiordania, che portò allo scoppio del sanguinoso conflitto contro i palestinesi di Hamas e altri gruppi terroristici nella Striscia di Gaza nell’estate del 2014.
Mentre il Covid costringeva i set di tutto il mondo alla chiusura, network e piattaforme di streaming statunitensi hanno riempito i vuoti cercando all’estero contenuti appetibili, e Israele in tal senso s’è rivelato una miniera d’oro. Da Teheran, spy story creata da Moshe Zonder per il canale Kan 11 e distribuita da Apple TV+, con una stupenda Niv Sultan; passando per No Man’s Land, su StarzPlay, racconto della guerra civile siriana che annovera tra creatori e produttori i rodatissimi Maria Feldman (Fauda, False Flag) e Ron Leshem (Euphoria); arrivando a Valley of Tears, la serie israeliana a più alto budget mai prodotta, scritta da Ron Leshem (di nuovo lui!), ispirata agli eventi della guerra dello Yom Kippur del 1973 e subito acquistata da HBO Max.
L’ultima arrivata in Italia è Losing Alice di Sigal Avin, thriller noir andato in onda su Hot 3 nel 2019, da fine gennaio su Apple TV+. Ritroviamo la magnetica, stupenda Ayelet Zurer (Munich, Shtisel), regista cinquantenne in crisi che si lascia trascinare da un’ossessione ai limiti del morboso per la giovane, misteriosa e a tratti inquietante autrice Sophie (Lihi Kornowski), la cui folle e disturbante sceneggiatura è «scritta troppo bene per essere inventata». Non ci sono guerre, non ci sono attentati, non c’è il Mossad e nemmeno lo Shin Bet: c’è però sempre il conflitto, stavolta interiore, di una donna che si sente schiacciata da una vita apparentemente perfetta che l’ha pian piano anestetizzata, togliendole qualsiasi entusiasmo e ambizione.
Fun fact: esiste una popolarissima espressione ebraica, Lichyot B’Seret, che significa letteralmente «vivere dentro a un film», ed è più o meno l’equivalente del nostro «avere la testa tra le nuvole». Da quando l’ho imparato, non riesco a non pensare che non sia un caso, che il cinema in Israele sia finito anche nei proverbi: non credo di sbagliarmi troppo a dire che tutti i titoli che ho citato non siano che l’inizio. Lo sottoscrive una che aveva scoperto Shtisel molto prima che diventasse cool, conviene fidarsi.