Efficacissima dose di metadone per tutti gli spettatori in astinenza dalle produzioni Merchant-Ivory (la società del produttore Ismail Merchant e del regista James Ivory che ha generato successi come Camera con vista e Casa Howard, ndt), La nave sepolta, disponibile su Netflix, è un ritorno a quell’era gloriosa per più di un motivo. L’anno è il 1939, l’ambientazione la campagna inglese, il labbro superiore dei personaggi quasi sempre serrato. Il Regno Unito è sull’orlo della guerra, come testimoniano i RAF che rombano costantemente nel cielo. Sul retro di una grande tenuta nel Suffolk, una serie di strane protuberanze pare segnalare la presenza di antichi manufatti sepolti. Edith Pretty (Carey Mulligan), vedova di gran gusto e fama, ha ingaggiato un conterraneo di nome Basil Brown (Ralph Fiennes) per aiutarla a scovare i presunti reperti. L’uomo non è un archeologo, ma è molto abile nel suo lavoro. Si definisce uno “scavatore” non professionista, ha un’ottima conoscenza della Storia, è di maniere umili e possiede un ragguardevole guardaroba fatto di giacche di tweed pronte da sporcare nel fango.
Edith pensa che la sua terra possa nascondere una tomba vichinga; Basil crede invece che lì sotto potrebbe risposare qualcosa di ancora più antico. Nel loro incrocio di accenti posh e working class, scopriranno una serie di resti tale da sollevare l’attenzione del British Museum, nientemeno. La scoperta passerà alla Storia con il nome di Tesoro di Sutton Hoo e, se questa vicenda non fosse ispirata a fatti reali, v’immaginereste che, insieme ai manufatti antichi, dalla terra riemergano anche vecchi spiriti pronti ad infestare la gotica magione di Edith. Ma gli unici spettri da queste parti sono i Fantasmi dei Film Miramax Passati.
La nave sepolta sembra davvero un film fuori dal suo tempo, come se gli ultimi vent’anni di cinema non fossero mai esistiti, come se per le star del grande schermo fosse ancora del tutto normale gironzolare stancamente con indosso eleganti abiti d’inizio ’900, come se non fosse arrivata Downton Abbey a fare piazza pulita di tutti i vecchi drammi British in costume. Questo film farebbe l’effetto del classico progetto “boutique” anni ’90 anche se non ci fosse di mezzo il protagonista del Paziente inglese. Episodi di ogni tipo si susseguono come gli strati delle rocce sedimentarie: c’è il crollo di una caverna, poi l’esplosione di un aereo, un personaggio ha problemi cardiologici (maledetti postumi della febbre reumatica!), ci si scambia sguardi furtivi durante le feste, spunta una relazione clandestina o forse due. I personaggi di contorno entrano ed escono casualmente dallo schermo, dal figlio di Edith alla moglie trascurata ma amorevole di Basil. L’arrivo del funzionario del museo (il Ken Stott dello Hobbit) e di una coppia di archeologi (Ben Chaplin e Lily James), insieme a quello dell’affascinante cugino fotografo di Edith (Johnny Flynn, già giovane David Bowie nel biopic Stardust), complica ulteriormente le cose. Succede di tutto, ma curiosamente ciò che suscita l’interesse di chi guarda è ben poco. Il film sembra suggerirci che c’è qualcosa oltre i raffinatissimi dettagli perfettamente ricreati da scenografo e costumista; che c’è un’anima sotto la classica superficie da polpettone “tratto da una storia vera”.
Il regista Simon Stone e il direttore della fotografia Mike Eley confezionano un film visivamente dalle parti di Terrence Malick, lasciando che la macchina da presa volteggi attorno alle persone e per i campi e che l’immagine si allarghi a dismisura, a volte con un effetto parecchio stonato. Moltissimi “quadri” realizzati con luce naturale, lenti deformate o effetto “negativo” – si veda l’inquadratura di Fiennes che fuma la pipa in un angolo, col cielo azzurro che domina su tutto il fotogramma – tolgono il fiato. La scena in cui sempre Fiennes è seduto sulla riva di una palude e osserva passare lentamente davanti ai suoi occhi una nave che sembra il riflesso di quella che sta disseppellendo è da pelle d’oca.
Ma non è chiaro se questi tocchi estetizzanti servano a dare un peso maggiore a quello che, da un punto di vista strettamente narrativo, rimane un racconto piuttosto monotono. Dovrebbero simboleggiare il fatto che il passato è uno stato in costante mutamento, un’età che continua a condizionare il presente e che permette ogni volta alla Storia di realizzarsi, come afferma Churchill in un discorso alla radio. Potrebbero stare a significare che anche l’uomo più semplice, se compie atti di pura devozione, può trovarsi al cospetto del divino, anch’esso svelato a poco a poco, strato dopo strato. Potrebbero essere dei semplici “malickismi” fini a sé stessi, oppure omaggi e citazioni disseminati qua e là dal regista. Ma chi può dirlo: siamo tutti troppo impegnati a osservare finestre e cappottini vintage, e a star dietro alle inutili svolte narrative,
Non c’è un solo elemento sbagliato in questi drammi inglesi “red-carpet-friendly”, anzi: La nave sepolta vi ricorda quant’è piacevole, ogni tanto, sedersi di fronte a tutto questo décor mentre si riflette su quel che resta del giorno. È solo che quel che importa davvero di questa storia arriva nei soliti cartelli finali (quelli che spiegano come ci siano voluti decenni perché a Brown fosse riconosciuto il merito di aver scoperto quei resti antichi), dopo due ore passate a sorbirsi tè piuttosto annacquato. Persino Fiennes e Mulligan, entrambi attori di classe, sembrano annoiarsi, davanti a questo polveroso surrogato della vita vera.