“Mi dai cinque minuti? Così prendo una birra e cominciamo”. È una consolazione: il maestro dell’ora brava, nonostante la pandemia, non ha perso il vizio. Seguiranno alcuni momenti di difficoltà “perché la tecnologia è una cosa da bambini, ma per quelli di oggi non come quelli di ieri come me” e poi finalmente un lungo dialogo con Tonino Carotone potrà finalmente concretizzarsi. Visto il periodo, sarebbe tautologico affermare che Antonio de la Cuesta – il vero nome all’anagrafe – è l’artista ideale con il quale confrontarsi rispetto a ciò che tutti oggi consideriamo “un mondo difficile”, solo che attraverso la sua sensibilità e il suo modo di affrontare la musica possiamo accorgerci di qualcosa in più. Non c’è infatti nessuno che rappresenti meglio i concerti live, il sudore sul palco, i piccoli club fumosi e quella simbiosi frontman-pubblico che dopo dodici mesi di distanziamento sociale ci sembrano quasi estinti. Quasi, appunto.
Per fortuna, c’è ancora chi come lui non vede l’ora di tornare alle buone vecchie abitudini. In vista di quel giorno, ha pronti ben due album: uno di inediti con collaborazioni internazionali e uno dedicato a Fred Buscaglione per celebrarne i 100 anni dalla nascita che cadono proprio nel 2021. Nel frattempo, ci ha raccontato tutta la sua vita ribelle: da quando a 16 anni è andato via di casa, dell’adolescenza passata in un quartiere popolare di Pamplona a rubare auto e motorini, passando per l’inaspettato successo in Italia “mentre in Spagna non capivano il mio itagnolo” (il suo mix di italiano e spagnolo), fino alla depressione durante quest’anno senza rapporti umani che per la prima volta lo ha fatto riflettere: “Adesso penso al futuro, che per me è tornare al passato che amavo”.
Tonino, prima di tutto come stai vivendo questa assenza di musica live?
È davvero un momento di merda. Sto perdendo anche un po’ la confidenza con l’italiano, perché chiamo poche persone. Non sono con la mente positiva, parlo poco, non mi sento bene. E poi non c’è tanto da dire, visto che è un periodo in cui sembra che si sia fermato il tempo, è un problema immaginarsi di andare avanti. Una cosa bruttissima, avendo un disco nuovo pronto da un anno e un altro dedicato a Fred Buscaglione che lo sarà a breve.
Facciamo un balzo indietro alle tue origini. Sei nato a Burgos e cresciuto a Pamplona, nei Paesi Baschi, terra dalla lunga storia di conflitti sociali. Che rapporto hai con le tue radici?
Sono nato a Burgos perché mio papà in quel periodo era in galera proprio là, all’epoca dell’omonimo processo, perché era fra i primi renitenti alla leva al servizio militare. La mia famiglia è ancora a Burgos, ma poi io sono cresciuto a Pamplona, una città con tanta storia e anche tanti problemi sociali.
La renitenza alla leva è la stessa strada che hai seguito anche tu, con conseguente carcere di un anno. Siete una famiglia di ribelli.
Si può dire così, anche se guardandomi indietro l’ho notato solo molto dopo. Certo, queste rivendicazioni di libertà sono un nostro tratto comune. La mia era una famiglia cristiana ma che non frequentava la chiesa e i miei genitori mi hanno insegnato prima di tutto a dire la verità, a esprimere quello che penso. Non ci piace mentire, noi siamo sinceri. Io ero un figlio davvero molto ribelle, per loro non è stato facile. Ma prima di perderli entrambi, siamo riusciti a conoscerci meglio, a capirci in tutto. Sono fortunato che sia accaduto, perché la vita è così, non è mai semplice.
Come ti descriveresti a 20 anni?
Una macchina senza freni! Mi dicevo spesso che arrivare ai 30 anni era una fantasia. Non comprendevo un futuro. Succedeva tutto molto velocemente, vivevo alla giornata. Nello stesso tempo, però, avevo dei princìpi e sapevo cosa era bene e cosa male. Ho cominciato troppo giovane a vivere e questo mi ha fatto diventare maturo molto presto.
Inutile chiederti una follia che hai fatto nella vita, visto che ne avrai un vasto campionario.
Eh sì, ne ho fatte talmente tante che è difficile sceglierne una. La prima è sicuramente essere uscito di casa a 16 anni, volevo essere libero, avevo problemi a stare in famiglia come tutti i giovani. Ho litigato e me ne sono andato. Ma forse non è così folle, dovrebbe essere sempre così. Oggi purtroppo è tutto il contrario, a 40 anni sono ancora a casa dei genitori, per me è più quella la follia. Poi mi sono negato al servizio militare, ma neanche quello non lo considero una follia perché è una cosa che ritenevo ingiusta. Abitavo in un quartiere popolare, per cui eravamo tutti “delinquenti giovanili”. Rubavamo le macchine e i motorini per avere quello che ci mancava. C’era povertà ed eravamo tutti così, meno male che avevo anche dei valori che mi hanno aiutato a uscirne.
Si può dire che la musica ti ha salvato?
Sicuramente, già dai 15 anni andavo a tutti i concerti di rock and roll e dai 16 suonavo in una band e facevamo i Ramones i Clash e tanti altri. Suonavo la batteria e cantavo. A livello professionale a circa 22 anni ho iniziato a fare sul serio e non mi sono più fermato. Sentivo il bisogno della musica e lo sento ancora.
Oltre alla musica, sono famose le tue nottate lunghe. Non a caso sei considerato Il maestro dell’ora brava, titolo di un libro che hai scritto a quattro mani con Federico Traversa. Insomma, diciamo che hai sempre fatto fatica ad andare a letto presto.
Appena è scattata la pandemia abbiamo iniziato la seconda parte di questo libro in stile Bukowski. Con Federico ho vissuto tante “ore brave”, anche se prima ero più giovane. Però ho da sempre un rapporto particolare con la notte. Non ho più venti o trent’anni, adesso non si può uscire per via del Covid, però vado ancora a dormire tardi. Prima delle 5 è difficile che mi addormenti. Ma attenzione, dobbiamo stare a casa senza fare gli stronzi per far finire questa merda il prima possibile. Meno male che, insieme alla notte, mi fa compagnia anche l’alcol.
Per te cosa rappresenta l’alcol, che sembra quasi un compagno di viaggio irrinunciabile.
Oggi viviamo in una società alcolica. È vero che si beve troppo, in particolare i giovani. Ma per me è un fatto culturale, ho sempre bevuto insieme agli altri ascoltando o facendo musica per sentirmi parte di un gruppo. Io sono cresciuto al bar, parlando con la gente e prendendo l’ispirazione da quelle situazioni. Così anche con il fumo, ma il tutto in senso creativo. Adesso la sensibilità è cambiata, per questo mi sento come una specie in via di estinzione. Oggi sono tutti salutisti. La gente della mia età ha vissuto un tempo differente. Mi sento distante dall’attualità su come si vive, come si beve, come si usa la droga, rispetto alle illusioni che avevamo e ai valori politici in cui credevamo. Sono piuttosto nostalgico di quel periodo.
E insieme all’alcol e al fumo, spesso le tue notti erano ricche anche di compagnia femminile. Che rapporto hai con le donne?
Che non si basa solo sull’erotismo, che comunque è importante. Ricordati: la prima persona che hai visto quando sei nato è la tua mamma. Come uomini dobbiamo ancora imparare tantissimo dalle donne. Molto è stato fatto, ma tanto c’è ancora da fare in questa strada verso una piena uguaglianza.
E il rapporto con la musica italiana com’è nato?
È stata una scoperta incredibile. Ascoltavo musica da tutto il mondo, come quella francese con Serge Gainsbourg, il rock americano e inglese. Però con la musica italiana, pur non capendo tutto, riusciva con quel ritmo a farmi vibrare in una maniera diversa. Mi divertivo tanto ascoltando Modugno, Buscaglione, Carosone. Ho imparato tanto dall’Italia, del modo con cui univano il proprio folklore con le nuove tendenze musicali e a vedere la musica in modo più divertente.
Proprio in Italia è esploso il tuo primo grande successo con Me cago en el amor e quella frase: “è un mondo difficile” che ormai è entrata nei nostri modi di dire. Com’è stato quel salto?
Prima di tutto non ho pensato ai soldi, per me non sono mai stati importanti. In Spagna volevo cantare in italiano o in itagnolo, solo che non era ancora di moda e quindi mi dicevano “ma che stai facendo?” e rispondevo “quello che mi piace”. Non pensavo che avrei avuto successo, mi bastava cantare in piccoli club piedi di fumo ed essere vicino al mio pubblico. È stata una sorpresa, non potevo crederci. Da un girono all’altro mi capivano più in Italia che in Spagna. Ancora non conoscevo bene l’italiano, ma gli italiani capivano me. E ancora continuiamo a capirci sempre di più. Fortunatamente non avevo 18 anni, per cui il successo non mi ha travolto.
Ormai il rapporto con l’Italia è stabile, tanto che nel 2017 sei stato addirittura battezzato “cittadino romagnolo nel Mondo” proprio dalla famiglia Casadei per l’interpretazione in spagnolo del celebre successo Romagna Mia.
È stato bellissimo conoscere anche quel genere musicale nato in Romagna. L’importante per me è condividere con tutte le culture la mia musica, la mia voce e il mio pensiero. Ho un genere personale, musicalmente parlando, che si può sposare con tutti, non ho pregiudizi verso nessuno. È bello farsi capire attraverso culture diverse.
Sei uscito con diversi singoli in questi anni, ma un disco di inediti non lo presentavi dal 2008. Immagino sarai impaziente di portarlo anche dal vivo.
È tutto in stand-by da febbraio scorso per questa merda di pandemia! È difficile accettarlo, perché i dischi non si vendono più, ma sono utili per fare concerti e girare i vari paesi. Non vedo l’ora di tornare a farlo, sarà importante soprattutto per la mia salute mentale.
Mi sembri molto colpito dalla mancanza di live e quindi di contatto umano.
Purtroppo, vedo tutto lontano. Non vengo in Italia da più di un anno, non vedo tanti amici e per me è difficilissimo sopportarlo. Era un po’ che non avevo un nuovo disco e proprio adesso le cose sono andate così male. Io amo il contatto diretto con il pubblico e ora sembra una cosa maledetta. È un anno che sono a casa, non faccio niente, ma è giusto così, non bisogna fare feste clandestine sennò non finirà mai questa pandemia. Però ho difficoltà a comunicare con tutti, non voglio sentire nessuno perché non sto bene. Di solito ero sempre positivo, ma ora non è così. Ho visto tutto il mio mondo cadere e non è solo una perdita economica, quanto una sofferenza psicologica. Ho avuto problemi di depressione, sono depresso un giorno più e un giorno meno. Non trovo l’equilibrio quindi e soffro molto.
Riesci a pensare al futuro?
Io non avevo mai pensato al futuro, ho sempre vissuto il momento. Ma devo ammettere che durante il 2020 ho iniziato a pensarci, perché mi sembra tutto finito. Stanno cambiando moltissime cose e si dice che bisogna pensare giorno per giorno. Anch’io ero d’accordo, solo che ultimamente penso al futuro come non ci avevo mai pensato prima. Pensare al futuro per me è come tornare a rinascere, perché adesso siamo morti. Una morte in vita. In pratica il mio futuro è tornare come eravamo prima e ricominciare a suonare. Guardo avanti e vedo il mio passato. Solo quello vorrei, e basta.
Ci hai mai pensato a come vorresti morire?
Quando la morte arriva non si può prevederla, ma ho sempre pensato che vorrei morire senza paura come ho vissuto fino ad ora.