Gazzelle, incredibile romantico
È per metà rockstar e per metà cantautore. E dice che tutte le sue canzoni, comprese quelle di ‘OK’ che sono nate dal caos e dalla rabbia, sono romantiche perché è innamorato della vita, anche dei suoi dolori. Niente smancerie per Gazzelle: «Van Gogh che si taglia un orecchio è romantico»
Foto: Alessandro Treves
Gazzelle, uno che in tempi in cui i concerti erano una possibilità inanellava un sold out dopo l’altro (Forum di Assago compreso), è un tipo simpatico, uno simpatico con ironia, sarcasmo, intelligenza, dotato cioè di una simpatia che non si sforza di essere tale, una simpatia sincera e non per tutti.
Ci incontriamo ai margini dell’ennesimo lockdown in uno studio fotografico nella periferia di Milano, seduti a un tavolo illuminato dal cielo azzurro a debita distanza con mascherine in un giorno di sole d’inverno pieno, bevendo ottima acqua naturale. Tra poche ore uscirà il suo terzo album OK (Maciste Dischi/Artist First), un pastiche dolceamaro di rabbia e malinconia, puro rock, ballate, romanticismi e code di chitarra glam (ascoltare Un po’ come noi per credere): un’eterogeneità sonora che restituisce un senso profondo di esigenza e di purezza.
A cavallo tra un cantautore e una popstar, Gazzelle è il musicista più quotato e amato dai giovanissimi, non fa rap ma ne è affascinato, non replica i padri della musica d’autore classica ma li ha studiati, ama Vasco Rossi e in quarantena immaginava di fare un disco grunge ma, specialmente, fa quello che fa perché non può farne a meno e qui ci spiega come mai.
Oggi la discografia è tornata ai singoli, la tua è una carriera fatta per la maggior parte di singoli di successo. In che cosa OK è un album?
OK è un album perché il mio approccio è legato a come ascoltavo la musica quando ero un ragazzino, era un modo di ascoltarla diverso da quello di oggi ed era un fare musica che forse aveva anche delle ambizioni diverse. Non è importante il disco in quanto oggetto fisico, potrei fare anche uscire i pezzi tutti separati, undici pezzi uno dopo l’altro e poi fare il disco, ma è importante il fatto di lavorare in un determinato periodo a un progetto, perché significa anche lavorare in un determinato mood, che poi diventa il mood di quel disco; non si tratta di fare un concept, ma un lavoro in cui tutto resta coerente con quella fase precisa in cui l’hai fatto. In questo modo il disco diventa la fotografia di un momento della tua vita. Questa è una cosa che poi si avverte ascoltando una canzone dopo l’altra.
E che cosa c’è in questa fotografia?
Il caos più totale. Ho scritto OK in un periodo della vita in cui ero abbastanza dissociato dalla realtà, molto disorientato per diversi motivi. L’ho scritto subito dopo la prima quarantena, non è in alcun modo un disco post traumatico da pandemia, ma quando sono uscito di casa dopo tre mesi l’essere stato in casa tanto tempo ha contato: sono uscito un po’ più arrabbiato e questo ha avuto peso nel sound, avevo voglia di spaccare a livello acustico, cose che puoi capire ascoltando un pezzo come Destri, c’era voglia di uno sfogo, pensa che all’inizio sono andato dal mio produttore e gli ho detto «Facciamo un disco grunge!».
Se con i lavori precedenti avevo più come riferimento un certo pop degli anni ’60 e ’70, qui guardo più ai ’90, un periodo al quale sono affezionato ovviamente per un fatto generazionale, anche se allora ero piccolo. A livello concettuale questo disco rappresenta comunque proprio un disordine che avevo nella testa sia per faccende private e sentimentali, sia per il preciso momento storico del mondo. Tutto sta insieme in quest’album: disagi personali e meno personali, in ogni caso posso dirti che è proprio un disco dei 30 anni, un passaggio che è tale per tutti ma che per uno che fa la vita che faccio io, col pensiero dell’arte, della carriera, è il disco fatto con una consapevolezza diversa.
Come tanti cantautori tuoi coetanei hai questa scrittura fatta di immagini molto dirette e molto brevi, a differenza di molti di loro però sei molto verboso, lo dico nell’accezione positiva del termine: tendi a non sottostare alle formulette facilmente decifrabili da hit, a non ripeterti troppo di verso in verso, hai molte cose da dire e le dici senza lesinare, questo mi fa pensare che tu sia molto prolifico.
Sì, e ogni volta che lavoro a un disco poi ci sono dei provini che restano fuori… e non a caso restano fuori, perché mi rendo conto che magari stavo cercando di fare un pezzo più standard, di quelli che senti alla radio e non ti piacciono, ma alla fine canticchi lo stesso. Quando ci sto cadendo mi dico «no, non mi piace» perché è chiaro che certe cose uno le canticchia, pure se mi fai sentire una qualsiasi hit estiva alla fine me la canto, ma non vuol dire che mi piaccia, quella è quasi una forma di ipnosi di cui sei vittima.
Io mi sforzo di non ricadere nella facilità dell’orecchiabilità, farlo mi farebbe quasi vergognare: so che quella cosa posso farla. Se tu ora fossi una produttrice io e te ci metteremmo qua e usciremmo da questa stanza con un pezzo fatto a tavolino, ma io non voglio diventare quella cosa, non voglio fare quella cosa. Prima di tutto perché ho nella mia testa dei riferimenti culturali, dei maestri diciamo, che non c’entrano nulla con le formule, e poi perché se devo rimanere, se il mio nome deve restare non voglio che resti come «quello che ha fatto due hit nel 2020 e nel 2021». Ho delle altre ambizioni, anche più grandi e difficili da ottenere, e nessuna di queste è fare la hit. Voglio fare belle canzoni che durino per sempre, questa è la mia ambizione.
E come si modella questa ambizione nella tua scrittura?
Io mi sento a metà tra una potenziale popstar o rockstar e un cantautore. Da un lato ho un riferimento come Noel Gallagher dall’altro uno come Lucio Dalla, alla fine insomma vince in qualche modo Vasco Rossi, una rockstar ma anche un autore. Penso che la mia scrittura non debba inseguire ad esempio quella di De Gregori o di altri grandi nomi del passato, magari non ho nemmeno il talento, sia chiaro, ma comunque se io scrivessi come loro oggi sarebbe ridicolo, sono passati decenni, non parlerei al presente. Ci tengo a mantenere una certa freschezza, De Gregori o De André erano moderni per loro epoca storica, io voglio esserlo per la mia. La stessa frase può essere scritta in molti modi, io scelgo spesso di scriverla nel presente, senza avere l’ossessione del futuro ma stando nel mio tempo pur con con un orecchio prestato all’ascolto del passato.
C’è una naturalezza espressiva nei tuoi testi e nel modo di cantarli che mi ricorda proprio Vasco Rossi. Come lui quando ha iniziato hai una evidente capacità, anche numerica diciamo, di intercettare le masse più giovani, di fare grandi numeri e aggiungiamo che, come lui, sul palco ricevi un sacco di reggiseni… che rapporto hai col grande cantautorato, quello dei “padri”?
Ho un vissuto abbastanza conflittuale, a me di base… non piacciono i padri! Il padre è qualcosa con cui ho sempre avuto un vissuto complesso: che fosse il professore, il preside, mio papà… – ora mio padre mi piace eh, ma a 18 anni mi piaceva molto meno. Mi dà fastidio chi mi dice quello cosa devo fare e come devo farlo e questo incide anche nella musica ovviamente. I cantautori sono stati tra i miei ascolti, mia madre era fan di Battisti e De Gregori, mio padre di Battiato e Fossati, ho assorbito tanto in macchina andando in vacanza e poi a 14 anni naturalmente mi sono ribellato, ho cambiato i miei ascolti, mi sono buttato nel punk e in roba diversa: dai NOFX ai Rancid, dai Sex Pistols, ai Nirvana; poi verso i 17 e 18 anni ci sono tornato sopra, volevo capire perché quelle cose erano così forti, importanti, perché questi cantautori piacessero così tanto ai miei genitori, li ascoltavo per notti intere, discografia per discografia: mi sono innamorato specialmente di Rino Gaetano, mi guardavo tutti i video con le interviste. Poi dalle mie zie, un po’ più giovani dei miei, ho scoperto proprio Vasco Rossi e Ligabue…
Anche Ligabue?
Alla fine io poi parlo sempre di Vasco perché è il mio numero uno, però sai cosa? Pure Ligabue è stato importante e a volte io nei miei pezzi ce lo sento anche, per esempio in Destri io lo sento decisamente, qualcosa è arrivato. Quando ho imparato a suonare la chitarra, Buon compleanno Elvis è stato un disco centrale. Pensa, ho conosciuto il Liga qualche tempo fa e gli ho detto, come fossi davanti a un mito: «ammazza che roba Certe notti». Lui mi ha detto che non la voleva nemmeno mettere nel disco, alla fine lo hanno convinto. Pazzesco come vanno le cose poi…
L’ennesima riprova di una legge che riguarda tutti, anche McCartney per esempio: i musicisti non sono mai abbastanza a fuoco nella scelta della scaletta dei loro album… ma i cantautori romani invece, li hai ascoltati molto?
Mai stato troppo in fissa con loro, mai troppo con Baglioni o Venditti, però va beh, chiaro, Venditti ha fatto alcune cose che sono incredibili, per me soprattutto negli anni ’80, nella fase più pop della sua carriera. Poi non impazzisco per come canta, ecco, e una volta l’ho beccato per strada tanti anni fa, gli ho chiesto una foto e mi ha detto no malamente, mi sa che mi ha proprio mandato affanculo, così ci sono rimasto male e va beh…
Insomma, mi pare di capire che hai ucciso i padri e dunque ci hai fatto pace.
Ma sì, quello che ti posso dire è che penso che non si debba avere paura dei padri, ecco, dei grandi cantautori non bisogna avere paura, magari tra trent’anni qualcuno di me e di un po’ di amici dirà che i padri siamo noi e a qualcuno di giovane o giovanissimo che farà delle canzoni – brutte eh, probabilmente – dirà che non vale quanto valevamo noi e la ruota gira così, è una cosa ciclica. Poi certo, negli anni ’60 e ’70 è chiaro che sia successo qualcosa, è la storia quella, non è sempre così, non ci sono sempre momenti così fertili. Un giorno i cantautori classici però saranno come per noi i cantanti degli anni ’20. Tra cent’anni De André sarà preistoria e magari tha Supreme sarà De André.
Tu ti sei portato avanti e ci hai fatto anche un featuring in Coltellata.
Quando ho sentito il suo pezzo con Marracash sono impazzito, ho passato una notte in cui questa melodia non mi faceva dormire, non mi era mai successa una cosa del genere. Il giorno dopo gli ho scritto su Instagram: «spacchi» e pensavo che magari neppure mi conoscesse, lui invece mi ha risposto dicendo di essere onorato e poi aggiungendo che comunque la sua cantante preferita è Amy Winehouse, come a dire che una cultura musicale extra rap e trap ce l’ha eccome. A quel punto gli ho buttato lì la possibilità di fare qualcosa insieme, in modo molto ipotetico, lui era entusiasta, ci siamo scambiati dei provini e io nello specifico gli ho mandato il provino piano e voce di Coltellata che, a differenza di come mi accade di solito, era un pezzo che non avevo finito ma che comunque non avevo eliminato perché mi piaceva. Lui mi ha risposto che il mood gli piaceva da pazzi e che avrebbe scritto delle sue barre che poi mi ha mandato.
Non ci siamo mai visti, è giovanissimo e assai riservato. La sua parte di pezzo comunque è bellissima e alla fine è uscita una cosa di cui sono molto felice, un bel cortocircuito in cui lui si è davvero messo a disposizione del mio mondo sonoro, qualcosa di davvero non scontato specie se sei uno forte come lui, un enfant prodige. Ho capito che a differenza di come accade spesso coi trapper non se la tira affatto e non è per nulla chiuso, è anzi un artista che ama profondamente la musica e non è limitato alla trap, ma ha una cultura musicale davvero ampia, profonda. Io stesso non faccio molti featuring perché non faccio entrare facilmente nel mio universo e con lui è andata davvero bene.
Anche in OK, quando non sono d’amore, le tue canzoni hanno comunque a vedere con la sfera romantica, sono legate a forme di nostalgia, ai ricordi, alla malinconia.
Sì, infatti l’amore è sempre il motore, ma più che canzoni d’amore io scrivo proprio canzoni romantiche.
E come dev’essere per te una grande canzone romantica, una canzone romantica riuscita?
Una canzone in cui esce fuori che l’artista è innamorato della vita, che non equivale a essere felice, una canzone in cui emerge che chi scrive quella canzone ama anche i dolori della vita, ama proprio l’esistenza in ogni sua forma, questa è l’essenza del romanticismo. A livello artistico si trova l’ispirazione nel malessere mica nel benessere, o almeno io è nel malessere che trovo la chiave per scrivere: Van Gogh che si taglia un orecchio è romantico, il rock è romantico.
Umberto Saba, in versi molto noti che senz’altro conosci, scriveva: “M’incantò la rima fiore / amore, / la più antica difficile del mondo”. Tu quanto ricerchi e quanto facilmente trovi la semplicità espressiva?
La verità è che non ricerco la semplicità ma riesco ad accorgermi, e credo che questo sia positivo, quando una cosa che scrivo è troppo complicata. La semplicità esce così, di getto; non voglio essere mai manierista e a volte mi capita di mettere in dubbio semmai l’eccessiva semplicità di un’espressione ma credo che in alcuni casi quella semplicità sia proprio la chiave: evitare la metafora per dire una cosa così com’è, nuda, sincera. La nudità, anche lei, è romantica, spoglia l’artista di fronte a tutti, come quando si parla e in una conversazione con qualcuno si sceglie di essere completamente onesti. Se in un testo scrivo “sono una merda, ok” non è sciatteria, ma è la scelta di non ricorrere a giri di parole, a censure che toglierebbero forza a quello che voglio raccontare.
Quando pensi al tuo percorso, alla tua scrittura, non pensi mai che a un certo punto vorrai intercettare anche persone più adulte?
La verità è che io non voglio intercettare nessuno, cioè, chiaro, voglio intercettare tutti potenzialmente, sarebbe bello, ma in realtà quando scrivo mica ci penso, quando scrivo sono da solo, ecco, parlo a me stesso, in pratica sono uno che parla un sacco da solo (ride).
Fai numeri pazzeschi, sold out, hai un sacco di gente che ti segue, sei voce piena di una precisa generazione… ci pensi mai a come sarai in questo lavoro tra dieci, venti, trent’anni?
Sì, ci penso un sacco e mi deprime, mi deprime sia dovere invecchiare sia il fatto che invecchierà il mio modo di scrivere probabilmente, sono terrorizzato dall’idea di diventare patetico come quelli che hanno cinquant’anni e si sforzano di scrivere canzoni per piacere ai sedicenni, è una roba proprio ingiusta quella, forzata, io spero di non arrivare mai a quel livello perché le cose funzionano in un modo per cui ci arrivi e magari manco te ne accorgi: nessuno vuole invecchiare, ma spero di accorgermi se sto diventando patetico e di mollare in quel momento. Questa cosa potrebbe capitare tra molti anni, ma pure tra quattro, cinque: se succede preferisco lasciare e aprire un ristorante. Preferisco essere uno che ha fatto pochi dischi bellissimi e non moltissimi mediocri. Spero solo che la mia ambizione resti sempre più forte delle mie necessità.
Quanto libertà e quanta legge di mercato c’è in quello che scrivi, ora che hai questo grande successo?
Io mi sento libero, sono solo preoccupato del fatto che il mercato mi categorizzi, non voglio diventare uno incasellato in una cosa, voglio svegliarmi domani e poter fare quello che voglio, non voglio diventare la parodia di me stesso, se domani mi venisse voglia di scrivere canzoni felici voglio poterlo fare. Il mercato tende a inserirti in una specie di griglia in cui o sei in un modo o in un altro, io voglio poter fare quello che sento perché uso la musica in modo egoistico, per me è catartica, mi serve per stare meglio, quindi voglio usarla come voglio io e non essere usato dalla musica in base a come va il mercato. Faccio dischi molto eterogenei specialmente nel sound perché voglio tenermi ogni livello e possibilità liberi, se voglio fare un pezzo come Belva, oggi, posso, e poi fare anche Destri lì vicino, senza che qualcuno pensi che non posso fare una cosa o l’altra perché io sono una cosa o l’altra. Queste sono cose che in qualche modo ti puoi permettere quando sei pop.
Che cos’è per te il pop?
Il pop per me è musica popolare, spazio di libertà per tutti e non coincide in alcun modo con l’essere commerciale. Se sei Manuel Agnelli, Michael Bublé o Travis Scott hai una scrittura e non puoi scappare troppo da quella cosa lì, non puoi andarci troppo lontano. Invece il pop è la possibilità di fare quello che vuoi, è il genere della libertà, non è un fatto di orecchiabilità in sé e per sé, ma di linguaggio: il pop usa un linguaggio che non pone l’artista su un piano superiore rispetto a chi ascolta. A me piace pensare che le mie canzoni possano parlare a un diciottenne, a un vecchietto così come a un matematico e a un analfabeta.
Leggi libri e giornali? Pensi mai di scrivere cose che riguardano il mondo esterno e non il tuo?
Leggo poco, molto poco, e no, non penso mai di scrivere di altro, per come sono le cose ora mi sentirei superbo e mi sentirei di parlare di cose che non conosco e come a Nanni Moretti neppure a me va di parlare di cose che non conosco.
Perché piaci tanto?
Penso per diversi motivi che non ho analizzato per non diventare schiavo di me stesso. A livello musicale ho capito cosa può funzionare di più di me, ma per quello bastano i dati. Poi penso che piaccia l’attitudine a questo mestiere: non ostentare, non essermi montato la testa, restare quello di prima che vuol dire che chiunque mi ascolta si sente vicino a me, e sente me vicino a lui, siamo sulla stessa barca. Credo che la chiave sia quella, non faccio le canzoni tanto per farle e fare successo. Forse il pubblico si accorge quando un artista non fa quello che fa per cercare l’orecchio altrui, ma lo fa con naturalezza, esigenza, il pubblico sente quando le canzoni escono e basta.
Chiunque ascoltando le mie canzoni, apprezzandole o meno, capirebbe la mia sincerità, una sincerità che può anche non piacere, è chiaro, ma che è reale. Credo che si senta quando se uno fa canzoni per scelta o perché non ha altra via, perché quelle canzoni devono uscire per forza, ecco: io non ho scelta, non sono uno che un giorno s’è svegliato e ha detto “voglio fare il cantante”. Devo farlo perché ne ho bisogno.