Diamo a Cesare quel che è di Cesare: parte delle domande di questa intervista sono state elaborate da due super fan diciassettenni de Il Tre (a proposito, grazie Alessandro e Luca!) che, quando hanno saputo che avrei avuto la possibilità di scambiare quattro chiacchiere con il loro artista preferito, mi hanno entusiasticamente offerto la loro consulenza.
Dall’esterno questo ventiquattrenne dalla faccia pulita e dai modi pacati potrebbe sembrare uno dei tanti rapper emergenti che affollano il panorama discografico italiano, ma che sia fatto di un’altra pasta è evidente anche dal rapporto che ha con il suo pubblico, che lo considera più un amico o un fratello maggiore che un divo inarrivabile. «I ragazzi che mi ascoltano sono molto vicini a me, perché non mi atteggio a superstar, né lo farò mai. E il mezzo più potente che ho per fare capire che ho i piedi per terra sono i social», spiega il diretto interessato. «So quello che voglio diventare, ma ricordo quello che sono stato». Perfino il nome che si è scelto marca chiaramente la differenza tra lui e gli altri rapper: il numero 3, oltre a essere una cifra per lui ricorrente, è anche un omaggio alla sua famiglia, che è composta da tre persone, appunto. «Mi sono sempre appoggiato molto ai miei genitori per ogni cosa, ci tengo tantissimo a loro. All’inizio ho dovuto convincerli che ciò che facevo aveva un senso, e non li biasimo, perché la musica era una strada rischiosa e giustamente pensavano al mio bene. Ora però mi supportano al 100%».
È evidente che, rispetto a molti suoi colleghi, non ha paura di mostrare gli aspetti più intimi e fragili della sua personalità, quelli che di solito ti fanno perdere parecchi punti di street credibility, stando alla serrata logica della scena rap attuale. «Alcuni mostrano solo la parte più forte di sé e nascondono l’altro lato della medaglia, ma credo sia sbagliato, perché le tue paure ti rendono molto più vero e normale», riflette. «Non ho mai avuto un carattere forte, anche nelle relazioni sono sempre stato quello che soffriva di più, ma poi mi sono reso conto che, a furia di essere trattato male, in me era scattata una scintilla».
In passato aveva paura soprattutto del giudizio della gente, dice, ma oggi ha capito che fa parte del gioco e ti fa crescere: non è un caso che nei suoi testi non parli di fantomatici hater o nemici, ma che racconti che è stato “preso di mira”, usando esattamente queste parole. «Sono cresciuto in un paesino, Santa Maria delle Mole, in provincia di Roma, dove le persone che ambivano a qualcosa di più erano un po’ un bersaglio», spiega. «Oggi, forse anche grazie al mio esempio, per fortuna le cose sono un po’ cambiate. Quando ho iniziato, però ho avuto davvero tante difficoltà: quando a 13 o 14 anni ti senti seppellire dalle cattiverie è difficile rimanere in piedi, perché a quell’età sei molto fragile». A spingerlo a perseverare, anche con il rap, è stata la testardaggine: «Mi sono impuntato per dimostrare che avevano tutti torto su di me. E se anche all’inizio non ero capace di fare rap, a furia di provare e riprovare ho imparato». È rimasto una persona introversa, ancora oggi non ha molti amici: «Chi ha fatto un po’ di successo, come me, potrebbe avere tutti quelli che vuole, perché tutti vorrebbero starti vicino. Io invece mi ritengo fortunato ad averne pochi ancora oggi: sono socievole, ma distinguo sempre tra i conoscenti e gli amici veri».
Il Tre ha iniziato a rappare sui banchi di scuola, letteralmente; un luogo con cui, pur essendo un ragazzo molto intelligente e colto, ammette lui stesso di non avere avuto grandi affinità elettive (è stato bocciato due volte e poi non ammesso alla maturità al liceo scientifico, cosa che gli ha provocato un senso di inadeguatezza che esprime in Per chi non ha un posto in questo mondo). «Molti miei testi sono nati durante le ore di lezione: andavo in bagno, ascoltavo un beat con il telefono, lo interiorizzavo e poi tornavo in classe e scrivevo. Oggi sono abituato al lusso di stare in studio con il computer, chissà se ne sarei ancora capace!», ride. «C’erano dei professori che mi sminuivano e mi facevano “Yo, yo!” dietro le spalle. E dire che poi, anni dopo, è capitato che la preside mi chiamasse per tenere una sorta di conferenza per gli studenti. Mi fa un po’ specie, visto che ai tempi ero additato come l’esempio da non imitare. Ma alla fine sono soddisfazioni anche queste». Per la musica ha abbandonato l’altro suo grande amore giovanile, il calcio. «Non giocavo ad altissimi livelli, ma per quindici anni il campo è stato la mia seconda casa. A un certo punto, però, mi sono reso conto che se dovevo togliere tempo a qualcosa, lo levavo al pallone, così ho mollato. La passione ovviamente è rimasta».
Il suo album di debutto, che esce domani, si intitola Ali, segue una serie di uscite e mixtape più o meno ufficiali ed è una via di mezzo tra un ottimo disco pop e un ottimo disco rap: ha una vena intimista che però non è disperata e una vena combattiva che però non è aggressiva a tutti i costi. «Non è facile definire il mio genere, perché non voglio essere solo un rapper, ma neanche soltanto un artista pop. Purtroppo o per fortuna mi piace fondere questi due stili» spiega. Il titolo è un riferimento all’animale che ha eletto a suo simbolo, una farfalla, che dà anche il titolo a una delle tracce più riuscite dell’album. «L’ho scelta perché si dice sempre che ha vita breve, e se è così preferisco passarla a cercare di spiccare il volo, anziché rimanere inchiodato a terra. Mi butto, cercando di fare quello che mi piace fare e ciò che reputo giusto per me».
Anche per questo, forse, preferisce parlare di realizzare i propri sogni, piuttosto che di arrivare al successo: «Racconto il percorso che c’è stato dietro a quello che sono riuscito a ottenere. Parlare delle mie insicurezze può aiutare i ragazzi che mi seguono, credo. Ancora oggi i timori ci sono: ho una paura folle che tutto questo possa finire, prima o poi. Prima non avevo niente da perdere, ora sì» ammette candidamente. E all’idea del suo esordio discografico ufficiale, come ogni ragazzo normale, prova la giusta dose di strizza. «Mi sento teso, nessuna parola potrebbe esprimere meglio di così le mie sensazioni attuali» confessa. «È un progetto a cui lavoro da parecchi anni e ci tengo tanto, se così non fosse vorrebbe dire che non ci credo davvero. Però allo stesso tempo non vedo l’ora: è arrivato il momento di levarsi questo peso». E volare lontano.