Esistono alcuni dischi – sempre più rari, purtroppo – che amichevolmente vengono definiti “un viaggione”. Quelli dei Django Django appartengono di diritto a questa categoria. Nel loro caso si viaggia in una sorta di universo parallelo in cui, dopo l’inevitabile apocalisse zombie e il crollo della nostra civiltà, il mondo è tornato a una dimensione da selvaggio west, ma senza tutti gli aspetti negativi e violenti dell’epoca: le loro praterie 2.0 sono gioiosamente popolate da gente che fa festa in un saloon iper-tecnologico, o attorno a un bivacco glamping di cowboy e pionieri.
Negli anni si sono costruiti la fama di band di culto, andando ben oltre i confini britannici, grazie anche al fatto che diverse loro canzoni sono incluse nella colonna sonora di videogame come Fifa o Grand Theft Auto. Cosa ancora più importante, essendo una band che dà il meglio dal vivo, hanno suonato un po’ ovunque; ragion per cui i loro fan sono rimasti un po’ stupiti dal fatto che decidessero di pubblicare un album in un anno in cui, come tutti sappiamo, di suonare in giro proprio non se ne parla. Ma Glowing in the Dark, la loro ultima fatica uscita qualche giorno fa, dimostra che sono perfettamente in grado di trasmettere le stesse sensazioni anche su disco, in attesa di tempi migliori, che Vincent Neff (chitarrista e cantante) attende con ansia, come tutti noi.
Avete fondato il gruppo ormai una decina di anni fa. Cosa è cambiato e cosa è rimasto lo stesso?
Quando abbiamo scritto il primo album eravamo degli animali da party: andavamo a tutte le feste e ai concerti. Londra non era ancora così gentrificata e abitavamo in quartieri abbastanza disastrati. Era un periodo molto emozionante in cui vivere e fare musica e credo che le canzoni del nostro primo album catturino proprio quello spirito. Suonavamo ogni weekend e questo ci ha aiutato a capire cosa funzionava e cosa no. Quando il dj staccava e ci lasciava il posto c’era sempre un momento in cui guardavi il pubblico e capivi che tutti stavano pensando «Oh Gesù, chissà cosa faranno questi, non riusciranno mai a farci divertire quanto il dj set di prima» (ride). Da lì abbiamo imparato a intrattenerli e a non ammosciarli. Ovviamente nel frattempo siamo invecchiati, quindi in termini di vita sociale non riusciamo più a reggere quei ritmi, ma ci siamo costruiti un bagaglio musicale che resterà sempre con noi. Siamo una band nata con i live e pretendiamo ancora di divertirci e di divertire quando siamo sul palco.
I vostri dischi sembrano sempre la colonna sonora perfetta per un film western/steampunk e Glowing in the Dark non fa eccezione. È una scelta o un caso?
È una cosa naturale, più che altro. Io sono irlandese, la maggior parte degli altri Django Django sono scozzesi, ed entrambe le nostre tradizioni musicali hanno dato vita al genere americana, il progenitore di bluegrass e country, per via dell’emigrazione di tanti nostri connazionali nei secoli passati. E sì, effettivamente le nostre canzoni hanno sempre avuto un che di cinematografico: ogni nostro album si apre con una sorta di tema che idealmente accompagna i titoli di testa del progetto. Una specie di partenza lenta, che ti dà modo di entrare nell’atmosfera, e poi si avviluppa in una spirale discendente sempre più incalzante.
Il vostro è un processo creativo molto particolare…
Di solito cominciamo lavorando a un paio di canzoni che ci fanno da modello, e poi proseguiamo costruendoci attorno il resto dell’album, seguendo un po’ quella falsariga. Lavoriamo traccia per traccia, senza pensare alle parole, ma piuttosto a quali suoni sono in grado di trasportarci in un luogo diverso da quello in cui siamo. E quest’anno abbiamo avuto davvero un gran bisogno di essere trasportati altrove e scappare dalla realtà, tutti quanti. Non è che volessimo scrivere un disco che ignorava tutto quello che ci stava succedendo attorno, ma penso sia naturale.
Difficile darti torto, in effetti. Come avete vissuto quest’annus horribilis in cui avete lavorato all’album?
Per fortuna siamo delle persone abbastanza ottimiste e crediamo che anche dalle situazioni peggiori possa uscire del buono. Pensa alla Manchester degli anni ’80: disoccupazione, povertà, crisi, la Thatcher… E da quella desolazione è nata una delle scene musicali e culturali più rivoluzionarie degli ultimi cinquant’anni. Personalmente, poi, sono cresciuto nell’Irlanda del Nord degli anni ’90, in uno degli ambienti più cupi che esistessero, con una situazione politica di merda e la violenza che era all’ordine del giorno. Eppure tutti avevano conservato il loro senso dell’umorismo dark, e questo ci ha aiutato moltissimo, come popolo. Quando hai immaginazione e una mente fervida, puoi evadere dal tuo minuscolo appartamento fatiscente e creare nella tua mente qualcosa di fantastico, che ti aiuta a risolvere i tuoi problemi ed è di conforto anche agli altri. Penso che anche nel 2020 sia successa più o meno la stessa cosa: quando suonavamo, anche se eravamo confinati ciascuno a casa propria senza poter vedere famiglia e amici, creavamo comunque un mondo che ci apriva gli orizzonti e ci dava un po’ di gioia. Non a caso, molta della musica che è uscita negli ultimi mesi è molto poco pandemica, passami il termine: inconsciamente abbiamo cercato tutti di evitare quel mood.
E il fatto di non poter suonare, per una band che era perennemente in tour come la vostra?
Scrivere un album è estenuante, perché passi un anno intero a rifinire ossessivamente le tue canzoni in ogni minimo dettaglio. Per me andare in tour rappresentava proprio il momento in cui staccavo la spina al cervello e pensavo solo a suonare e a viaggiare. Dopo un anno on the road, però, arriva il rovescio della medaglia: non ne puoi più di stare in giro e fare quella vita, e vorresti solo tornare in studio per scrivere nuova musica in tranquillità. È tipo lo ying e lo yang ed è il bilanciamento di queste due forze opposte che ci tiene attivi: ho sempre pensato che il momento migliore per scrivere un album fosse dopo un lungo tour. Stavolta abbiamo scritto senza avere potuto fare concerti prima ed è stato strano: non eravamo nemmeno troppo sicuri di farcela, a dirla tutta.
Per aggiungere stranezza a stranezza, il video per la title track è stato girato durante il lockdown, con la regia in remoto. In pratica come funzionava?
Il regista, Bráulio Amado, vive a New York e lo conoscevamo di fama come artista e grafico: sapevamo di essere in ottime mani. In realtà ci ha indicato la posizione in cui piazzare le telecamere e poi mi ha dato delle indicazioni molto vaghe, roba tipo «ok, ora mettiti le mani in faccia», oppure «cerca di esprimere questo o quel sentimento mentre ti muovi», e quello è stato abbastanza strano. In più le condizioni erano abbastanza proibitive: la notte prima ero stato sveglio fino all’alba per cazzeggiare su Zoom con gli amici, e fuori c’erano 32 gradi, che è un caldo infernale per Londra. Nonostante tutto, però, il risultato è straordinario. È bellissimo quando musica e immagini riescono a fondersi così, soprattutto se non sai esattamente cosa aspettarti, come in questo caso.
Tra le tracce più belle c’è senz’altro l’altro singolo, Free from Gravity, che si allontana un po’ dalle atmosfere western e ci spara direttamente nello spazio. Com’è nato?
È stata una delle prime canzoni a cui abbiamo lavorato: in una mattina ne avevamo già pronta metà, ma poi, anche se eravamo convinti che fosse fortissima, non eravamo sicuri di riuscire a terminarla in una maniera decente, così ci siamo fermati. Ci siamo detti «non sforziamoci troppo, se non è destino pazienza, lasciamola decantare e alla peggio la scarteremo». L’abbiamo abbandonata per un po’, e avrebbe potuto rimanere in un angolo a prendere polvere per l’eternità, ma questo ci ha aiutato a levarci la pressione di dosso e a lavorarci senza pregiudizi, e ora tutti potete ascoltare il risultato. In un certo senso, Free from Gravity esprime proprio quella sensazione di quando inizi qualcosa, ma hai paura di quello che potresti perdere e di ciò che succederà se vai avanti.
Un’altra canzone molto riuscita e atipica per voi è The World Will Turn, una ballata essenziale basata su voce e chitarra che è una specie di ninna nanna…
L’ha scritta Jimmy (Dixon, bassista del gruppo, nda). In effetti non ne abbiamo molte, di canzoni così, ma in ogni film e album che si rispetti c’è sempre bisogno di qualcosa che controbilanci l’energia e spezzi il ritmo, che rallenti il passo prima di arrivare a una conclusione epica. Gli archi della canzone, tra l’altro, sono stati realizzati da Raven Bush, il nipote di Kate Bush.
Nella speranza che possiate tornare a fare concerti a breve, per le band del Regno Unito adesso c’è un’ulteriore difficoltà: la Brexit potrebbe rendere più complicati i vostri tour europei, in termini di visti e permessi. Ci avete già pensato?
Essendo io cittadino irlandese, sto seriamente pensando di far ottenere il passaporto dell’Irlanda anche ai ragazzi: sono sicuro che da qualche parte tutti loro hanno un bisnonno o una trisnonna di Dublino o giù di lì (ride). Scherzi a parte, quando finalmente ricominceremo a suonare spero che qualcuno tiri fuori un po’ di ragionevolezza e decida di non complicarci ulteriormente la vita. Oltretutto, le difficoltà in questione varrebbero anche per le band europee che verranno a suonare in Inghilterra. È tutto incredibilmente stupido, non si può incasellare la gente così, ma che ci vuoi fare, ormai la situazione è questa. Speriamo solo che la pandemia abbia dato il tempo a chi di dovere di ragionare.