I morti sparati acriticamente in prima pagina, senza alcuna cornice statistica capace di distinguere l’eccezione dalla regola. I numeri del contagio strillati ora con la voce di un ottuso pessimismo ora con quella di un ottuso ottimismo. Le foto con i teleobiettivi, le categorie umane di volta in volta additate come untrici, i runner dei parchi e i bambini delle scuole e gli adolescenti degli aperitivi. L’alternativa vaccinazione di massa/lockdown eterno e poi, un bel giorno, eccoti il vaccino killer. Pochi morti su milioni di persone vaccinate, senza alcuna prova scientifica dell’effettiva correlazione tra causa (vaccino) ed effetto (morte). Forse arriveranno, queste prove, ma intanto i media hanno già condannato AstraZeneca, come un parlamentare qualunque (sarcasmo). Davighismo scientifico. Forse le prove arriveranno, forse no, ma una ponderata smentita avrà come sempre meno risonanza di un’accusa sommaria, e intanto avremo ridotto la psicologia collettiva a quella di una scimmia equidistante da due banane: morire di Covid o morire di AstraZeneca? – la scimmia muore di fame.
È troppo comodo immaginarci sempre vittime di un piano superiore. Non c’è nessuna loggia massonica che gode a vederci schiattare. Non c’è nessuna cupola di illuminati che ha pianificato la nostra trasformazione in cyberschiavi in attesa di notifiche e consegne di Amazon dentro appartamentini igienizzati. Ci sono le nostre decisioni in quanto esseri umani dotati di un minimo volontà, l’insieme di queste decisioni, i rapporti di forza che si compongono in base a queste decisioni. Sintesi: condividere o non condividere un pezzo senza avere riflettuto su quali conseguenze questa condivisione comporti?
Ci sono i mezzi di comunicazione, che stanno tirando le cuoia. E più agonizzano e più diventano pericolosi, tigri azzoppate che per campare attaccano gli esseri umani, così lenti. C’è un poveraccio sottopagato a click e a interazioni, un poveraccio che però sa una cosa: la paura costringe il nostro pollice, quasi magneticamente, ad aprire l’articolo che promette catastrofi più di quanto non lo costringa un articolo sfumato almeno quanto lo è la realtà di ogni cosa. C’è il titolista che tira avanti la carretta di un giornale in perdita da un buon decennio, che magari scorre i social e vede la sua frase in neretto riprodotta e screenshottata decine di volte e sospira e si dice “del resto, è per questo che mi pagano”. C’è un direttore che tenta di riguadagnare un po’ di rilevanza nascondendosi dietro alla lezioncina per cui le notizie vanno date, e finge di non sapere che il come equivale al cosa. Non c’è un’ideologia aperturista e una chiusurista codificata in un Capitale e in una Ricchezza delle nazioni, non ci sono due categorie antropologiche cristallizzate, vaccinisti e antivaccinisti, decise una volta per tutte, metafisicamente: hanno a che fare con una informe massa di utenti terrorizzati dalla schizofrenia dei media. Ci sono dei presunti vantaggi individuali a breve termine che si tramutano in svantaggi collettivi a medio termine.
Una delle tre prove scritte dell’esame per diventare giornalisti professionisti è il riassunto. Un esercizio scolastico, roba da sghignazzare, “e perché non le addizioni?” si sente sussurrare durante la prova. Eppure, il modo in cui vengono riportate le notizie comporta la scelta tra due sole alternative possibili: 1. L’incapacità di sintetizzare un concetto complesso in una frase. 2. La volontà di distruggere il tessuto socioeconomico di una nazione, il suo equilibrio psicologico, un’idea di futuro possibile, pur di aumentare il numero di interazioni, di click, di copie, di ospitate, di follower.
Si sta discutendo se sia il caso di vaccinare prima i giornalisti, in quanto categoria necessaria. Non potendo immaginare che l’ipotesi 2, qui sopra, sia quella corretta, per avere diritto al vaccino prioritario il candidato dovrebbe riassumere in un titolo da cento battute il bugiardino del paracetamolo: FEGATI ITALIANI A RISCHIO: TERRORE INSUFFICIENZA EPATICA ACUTA?