Quando Rhiannon Giddens e Francesco Turrisi hanno iniziato a pensare alle canzoni da suonare nelle tante dirette streaming casalinghe che hanno organizzato dall’inizio del lockdown, si sono ritrovati per le mani brani che non cantavano da anni. Ad alcuni non avevano neanche mai pensato. Per Giddens si trattava di composizioni old time per violino come Black as Crow (nota anche come Dearest Dear o The Blackest Crow), che aveva imparato a 20 anni in North Carolina. Per Turrisi erano canzoni tradizionali italiane, come Nenna Nenna, una filastrocca che cantava alla figlia.
«Ascoltarle era il nostro modo per trovare conforto», dice Giddens, «e abbiamo pensato di farci qualcosa». Mentre passavano il lockdown in Irlanda, lontano dagli Stati Uniti e dall’Italia, hanno trasformato quelle storie nelle fondamenta di They’re Calling Me Home, il loro nuovo album in uscita ad aprile. «Abbiamo creato un piccolo spazio per riempire il vuoto che ci separava da casa», dice Turrisi del disco, che contiene tanti arrangiamenti inaspettati – Giddens alla viola e Turrisi al cello-banjo – di brani tradizionali come Amazing Grace e O Death.
L’album è il seguito di There Is No Other, prima collaborazione che risale al 2019, in cui si confrontavano con strumenti, arrangiamenti e materiale della tradizione nordafricana, europea, mediorientale e americana. «Tutto quello che facciamo ha a che fare con il superamento di un qualche confine, è nella nostra natura», dice Giddens, che considera questo disco più interiore, emozionante e meno centrato sull’idea di scambio culturale.
Tra i brani più interessanti c’è Waterbound (con Niwel Tsumbu alla chitarra), una composizione per violino registrata negli anni ’20 con un ritornello che dà voce alla nostalgia da lockdown della Giddens: “Bloccata in mare e non posso tornare a casa / Laggiù in North Caroina”.
La title track, Calling Me Home, è un inedito relativamente recente, scritto dalla pioniera della musica roots Alice Gerrard. L’autrice, che è innamorata del nuovo arrangiamento di Giddens, ha scritto il pezzo in stile old time, senza accompagnamento dopo aver studiato con il maestro Luther Davis a Galax, in Virginia, negli anni ’80. «È un omaggio ai maestri che mi hanno raccontato le loro storie e cantato le loro canzoni, consapevoli e orgogliosi che qualuno avrebbe raccolto la loro eredità», dice Gerrard, 86 anni, al telefono. «Rhiannon, in particolare, apprezza l’idea di imparare la musica degli anziani».
In collegamento delle loro case in Irlanda, Giddens e Turrisi ci hanno raccontato il progetto.
Com’è nato They’re Calling Me Home?
Giddens: Da quando abbiamo lavorato a There Is No Other, due anni fa, abbiamo sempre pensato di tornare a collaborare. Questa volta però volevamo fare qualcosa di diverso. Non registravo un disco con un ensemble da tanto tempo, e l’idea era di andare in California. Ovviamente non è successo, ma siamo riusciti a lavorare e a fare musica che avesse un senso durante il lockdown. Quelle canzoni sono arrivate da sole.
Turrisi: Abbiamo iniziato a lavorare alle dirette streaming e ci ritrovavamo nel mio salotto, che è molto piccolo, cercando di mettere insieme il materiale. L’approccio è sempre rimasto minimale, noi due seduti attorno al microfono… quindi ne è venuto fuori un disco ancora più scarno del precedente. Quando le canzoni sono iniziate ad arrivare, inconsciamente ci siamo ritrovati a pensare a materiale dei nostri Paesi natali dove, ovviamente, non siamo riusciti a tornare per tutto quel tempo.
Giddens: Cantare canzoni tristi ti fa sentire meglio, non credi? In quelle canzoni temi come la morte, la nostalgia di casa, la perdita e il lutto sono espressi splendidamente e in maniera semplice. Tante generazioni diverse hanno affrontato difficoltà, è successo per tanti, tanti, tanti anni, e queste canzoni ci collegano a loro. Questo ci dà conforto, perché non siamo soli. Siamo solo i nuovi arrivati nel quartiere dei tristoni.
Cosa avete imparato da questo scambio di tradizioni tra paesi e culture diverse?
Giddens: Più che la tradizione, abbiamo esplorato il nostro stato emotivo. Waterbound, per esempio: non la cantavo da anni, non ci pensavo nemmeno. L’ho imparata tantissimo tempo fa, ed è venuta fuori da sola. Mi chiedevo: e questa da dove arriva? Sentivo una connessione profonda a radici antiche e importanti.
Turrisi: Nel disco ci sono due canzoni italiane. Nenna Nenna l’ho scoperta tanti anni fa. Non fa parte della mia infanzia, ma la cantavo a mia figlia quando era piccola. Abbiamo iniziato a suonarla per divertimento. Non avrei mai pensato che sarei finito a cantarla su un disco. È il mio debutto da cantante.
Giddens: Questo è un disco che parla di famiglia, di cosa significa essere un espatriato, di cosa si prova ad avere due case e allo stesso tempo nessuna. Parlavamo spesso di queste cose. Nessuno dei due è irlandese. Vivevamo in Irlanda, isolati, e quelle canzoni erano un modo per unirci.
Rhiannon, in che momento della tua vita e della tua carriera hai imparato canzoni tradizionali come Waterbound?
Giddens: Io vengo dal North Carolina, è il primo valzer che ho studiato. Avevo 24 anni ed ero andata a vedere un gruppo, una band della scena old time di Greensboro. Non suonavo quel pezzo da anni. Mi ha portato indietro nel tempo. Molte di quelle canzoni sono legate a quel periodo di scoperte.
Anche Gillian Welch ha registrato un disco di cover di vecchi brani folk durante la quarantena. Ha detto che lavorare su brani che parlavano di momenti difficili l’ha aiutata a trovare un po’ di conforto. Vi è successa la stessa cosa?
Giddens: Esistono proprio per questo. Un tempo, quelle storie erano la quotidianità delle persone. Prima della pandemia, tante persone vivevano in situazioni di guerra, fame, disagio, tutte cose che in America ed Europa non possiamo capire. Anche ora, durante il lockdown, siamo al sicuro nelle nostre case, non possiamo capire come vivono certe persone.
Quelle canzoni sono come un piccolo indizio. Ti danno anche conforto, perché siamo tutti parte del grande esperimento chiamato umanità. Ci dicono anche che possiamo farcela. Che potrebbe andare molto peggio di così. Dobbiamo solo mettere le cose in prospettiva, pensare: «ok, la situazione è difficile, ma c’è chi se la passa peggio di noi». È sempre stato così. Quindi, come possiamo usare queste emozioni per confortarci, così da poter fare lo stesso con gli altri? In fondo, l’obiettivo è migliorare la vita degli altri. Per riuscirci dobbiamo smettere di pensare solo a noi stessi.
Questo articolo è stato tradotto da Rolling Stone US.