Totti vox populi: «Speravo de morì prima? No, speravo de nasce prima» | Rolling Stone Italia
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Totti vox populi: «Speravo de morì prima? No, speravo de nasce prima»

Indagine semiseria nella Roma orfana del campione ma non dell’icona. Dai Fratelli D’Innocenzo ai Måneskin, dalle radio a Campo de’ Fiori, il sentimento della Capitale nei confronti della serie Sky dedicata al Pupone

Totti vox populi: «Speravo de morì prima? No, speravo de nasce prima»

Pietro Castellitto è Francesco Totti nella serie ‘Speravo de morì prima’

Foto: Sky

«Io speravo de nasce prima, no de morì prima». Fabio D’Innocenzo, che con il fratello Damiano da Roma sta conquistando il mondo nel cinema come Totti ha fatto nel calcio, esordisce così per commentare la serie sul numero 10, il Capitano, quella Speravo de morì prima che ogni venerdì da Sky sta occupando militarmente le televisioni e i salotti di tutta Italia, ma di Roma un po’ di più. «Come uomo mi è mancato vederlo iniziare a giocare a calcio, non l’ho mai visto raccattapalle, giovane panchinaro all’esordio in Serie A, non ho potuto scorgere in quel signor nessuno il suo futuro, che sicuro era già scritto in quel volto che richiama grandezza. E la serie mi ha portato in quel mondo di ricordi mancati». La nostalgia per ciò che non ha vissuto è forte in questo cineasta che parla del campione come di un familiare, come del fratello di Roma tutta. E di un fratello mica è facile parlare. Chi scrive ha raccolto pareri di politici su Il Divo di Sorrentino, ma non ha avuto tanti problemi nel trovare qualcuno che “parlasse” allora come questa volta è invece successo. Perché Totti è sacro, è mito, è icona, ma anche quel ragazzo fragile e ironico che si è fatto amare come uno di noi, uno di casa. Francesco a Roma è uno da proteggere, non solo da amare e idolatrare, è uno che “nun me lo devi toccà”.

Dei tanti grandi nomi contattati, molti hanno detto (fingendo, sicuro) di non averla “ancora vista”, uno ha risposto “non scherziamo”, perché Totti non si discute in pubblico, ma si ama in privato, però il migliore è stato l’ex compagno di squadra che cita Giovanni Storti in Tre uomini e una gamba e risponde solo: «Non ce la faccio, troppi ricordi». Una sorta di sciopero bianco del commento – anche social, fateci caso – perché Roma sa essere sfacciata e chiacchierona, ma non quando si parla dei sentimenti veri, di un figlio, un fratello, di un mito fondativo. Che loro non lo sanno ancora se quello scanzonato e talentuoso attore poteva permettersi di impersonare una divinità. «Sì, per me Totti è una divinità», confessa Galeffi, ottimo cantautore e uno degli alfieri dell’indie che a lui ha dedicato una canzone, Tottigol. Otto lettere, per dire che Totti è un sostantivo, che tottiano è un aggettivo ma anche un segno d’appartenenza e di fede, ma Tottigol è un’emozione, è l’estasi dell’amore e solo chi è speciale ti può far sentire così. «Totti è un universo di iperboli», riprende D’Innocenzo, «è Aristotele ma anche sano cazzeggio romano. Sono sincero, quando si è iniziato a vociferare di questa serie ho pensato: “È infattibile”. Totti è sempre attuale, significa troppe cose per troppe persone, Totti è un aggettivo, e come lo metti in scena un aggettivo? Serviva una grande intelligenza, la capacità di scegliere il linguaggio giusto, quello dell’ironia applicato all’epica, che poi riassume perfettamente lo spirito di una bandiera unica, il Capitano». Grammatica epica e ironica che è in assoluto il punto di forza della serie, capace di costruire un fumettone entusiasmante su quello che è tutt’ora un supereroe scanzonato di una città grandiosa e depressa, una sorta di Peter Parker di Porta Metronia che per quello in cui crede darebbe la vita, ma allo stesso tempo non rinuncerebbe mai a una battuta. «Quell’ironia», continua il regista, «fa parte del gioco del pallone e di un uomo che ha capito che giocando e non prendendosi sul serio tirava fuori il meglio di sé, quell’imprevedibilità e quella screanzata meraviglia che solo il Capitano riusciva, riesce a darci. E a restituirla ci poteva riuscire solo un altro mito, in un altro campo e su un altro livello, Pietro Castellitto. Nessun altro attore poteva riuscirci, ma lui conosce l’importanza di quest’essenza, benissimo».

Speravo de morì prima | La prova del 10 | Sky Italia

La paura di Fabio era quella di tutti. Di Marco Esposito, per esempio, romano e romanista, già direttore di Giornalettismo e responsabile del sito di Leggo, un osservatorio privilegiato su Roma. «Da tifoso della Roma temevo che da questa serie in qualche modo potesse uscirne ammaccata la figura di Totti. Invece mi è piaciuta molto, Castellitto è bravissimo a interpretare il capitano esattamente per come è nel nostro immaginario. A un certo punto non sapevo se stavo vedendo il Totti vero o quello finto. Ma tutti gli interpreti sono bravissimi, da Greta Scarano a Gian Marco Tognazzi, per non parlare di Monica Guerritore, splendida mamma Fiorella. Hanno trovato il tono giusto per raccontare gli ultimi due anni del Totti calciatore: quello della commedia leggera, scanzonata. Un quadro perfetto, con un piccolo neo: il De Rossi della serie sembra uscito direttamente da un campo di guerra vichingo». Quel DDR peraltro “dimenticato” anche dal documentario di Alex Infascelli, o almeno così Roma ha sentenziato. A Campo de’ Fiori, ad esempio, dove al mercato si parla della serie fin dalla mattina presto. Il migliore è uno che, mentre dà un chilo di fagiolini a una signora bene, al vicino di banco dice: «A me non sta bene che quello che fa Spalletti è così bravo, a Checco non je devi rubà la scena. E l’unico che poteva, De Rossi, che abita pure qua vicino, l’hanno fatto diventà ‘na figurina. Comunque me so piaciute le prime du’ puntate, ma lo devono capì tutti che Totti è Totti e l’artri nun so’ ’n cazzo».

Quello che Galeffi chiama «il momento Marchese del Grillo, nella seconda puntata, in cui vediamo i gol, i momenti più importanti della carriera e lui fuori campo dice “sono l’ottavo re di Roma e la corona me la so’ conquistata sul campo”, quello è un momento hit, spacca. Lui è un eroe romantico, ha sposato i colori di una squadra poco più che media che non se lo poteva permettere e l’ha resa grande, fino a essere fastidiosa. La serie è pura commedia alla Virzì, hanno maneggiato del cristallo fragilissimo e ne sono usciti bene. Il segreto di Totti è che non si è mai davvero reso conto di chi fosse. Senza di lui io mi avveleno di meno per il calcio, la passione è diventata più abitudine, con lui era amore puro, ora siamo diventati grandi, il calcio di ora non è più quello di Totti». Su Pietro Castellitto si unisce al plebiscito. «Totti è un monumento dell’ultimo quarto di secolo, un’icona pop, volente o nolente forse il personaggio più importante dell’Italia degli ultimi decenni. Poteva uscirne a pezzi e invece ne esce alla grande, anche grazie a un’ottima sceneggiatura. E funziona l’idea, che non mi aspettavo, di puntare solo sull’ultimo anno e mezzo. Insomma anche qualche passaggio oggettivamente trash a Speravo de morì prima glielo perdoniamo».

Gian Marco Tognazzi alias Luciano Spalletti. Foto: Sky

Sul Totti come elemento fondante dell’essere romani e romanisti è illuminante Damiano David, leader dei Måneskin che, mentre vinceva Sanremo, nelle pause vedeva i giallorossi sul tablet. «La mia passione per la Roma nasce da piccolissimo, me l’ha tramandata mio padre con il quale andavo sempre allo stadio. Da grande tifoso sono felice che sia stata fatta una serie su Totti, il capitano che rimarrà sempre il capitano. Già i trailer fanno ridere parecchio». E a chi, visto la giovane età e il talento, prova a paragonarlo a lui, risponde schernendosi: «Io il Totti della musica italiana? Ad averceli quei piedi». Su musica e cinema dice la sua anche Piotta. Tommaso Zanello sorride mentre confessa: «Speravo de morì prima? No, speravo de vince l’Emmy con Totti. Per quanto sia stato stupendo fare la colonna sonora di una serie internazionale Netflix come Suburra (e con grandi riconoscimenti di critica e pubblico, nda), il trio di Dio, mi perdoni Nicola Tescari che ha fatto uno splendido lavoro, per me sarebbe stato andare agli Emmy facendo la colonna sonora della serie. Totti, la musica e il sogno di una vittoria così insieme». A proposito di battute, molto riuscita è quella di Giordano Giusti. Giovane speaker radiofonico – agli inizi proprio nell’etere romanista – ora (anche) giornalista di La7, maliziosamente ammette «avrei voluto essere a casa di Spalletti la sera della messa in onda della prima puntata». Chissà, magari Luciano avrà sbattuto la testa contro il tavolo come un tempo fece in conferenza stampa, ma in fondo per la favola del nostro supereroe romano serviva un supercattivo. E Tognazzi dà a Spalletti lo spessore dell’antagonista shakespeariano, riuscendo nel miracolo di renderlo grottesco ma non ridicolo, squallido ma carismatico. E un tecnico che ha lavorato sul set che vuole rimanere anonimo ha riassunto in poche parole la migliore recensione sulla performance dell’ottimo Gimbo: «Aò, è stato così bravo che alla fine se stava sur cazzo pure da solo. Io stavo pe’ menaje, come avrei voluto fà quel giorno allo stadio». Giusti come molti temeva «l’effetto Bagaglino. Neutralizzato sul nascere, nonostante fosse un esperimento rischiosissimo. La serie funziona un po’ perché la storia era un bestseller prima ancora che uscisse il bellissimo libro firmato da Paolo Condò, un po’ perché è indovinata la chiave narrativa, autoironica (Totti promuovendola ci ha detto che la sente sua) e sfacciatamente sopra le righe come il Francesco a cui tutti siamo affezionati, tifosi e non. Ho trovato incredibile Monica Guerritore, una strepitosa mamma Fiorella».

Monica Guerritore è Fiorella Totti. Foto: Sky

E se Emilio Pappagallo, direttore di Radio Rock e conduttore del Rock Show, morning show tra i più ascoltati a Roma (e che nonostante non parli di calcio il giorno dopo il ritiro di Totti fu uno dei centri dei commenti e della commozione cittadina), dice che «è più rock il documentario di Alex Infascelli, persino nella scelta di Baglioni nella scena clou, ma la serie ha una forza narrativa e di impatto sull’immaginario che aiuterà forse a far capire Roma e i romani al resto d’Italia più di qualsiasi altro evento e uomo prima», la verità rimane che l’occhio del regista Ribuoli, la penna felicissima di Stefano Bises e Michele Astori (gli sceneggiatori, bravissimi: il rischio più grande se lo sono presi loro, hanno fatto ‘er cucchiaio in semifinale e hanno segnato), il talento cristallino e spudorato di Pietro Castellitto hanno restituito a tutti noi quello che in passato forse solo Sordi e Verdone hanno saputo dare all’immaginario comune.

Ma qui c’è pure il thriller, il western, il duello rusticano. Totti è Rugantino, è Peter Parker, è il Marchese del Grillo, è Manuel Fantoni. Lui è il re, ma anche il ribelle, il capitano coraggioso ma pure l’uomo fragile, il padre un po’ goffo, il guascone. Totti è la sfrontatezza del cucchiaio ma anche la dolcezza di chi c’è sempre stato, in questa città, per chi soffriva. E non puoi dire quanto e come, perché ha sempre minacciato chi l’avesse rivelato, ma che passava ore a settimana a firmare autografi, maglie, palloni per centinaia di bambini, malati, amici degli amici, quello si sa. Ed era il meno. Totti è uno e centomila, ma di sicuro non sarà mai nessuno. Per capire chi è, per una città e per un popolo, basta ricordare l’aneddoto straordinario che Speravo de morì prima ha già reso leggenda. Un suo tifoso si fece dieci giorni di carcere in più solo per conoscerlo. Appunto.