Ce n’è una delicata e malinconica in cui si fa il caffè e contempla in solitudine il resto della sua vita andare in fumo. In un’altra, su un’aria dolce-amara, ammette che la sua carriera è finita e cerca disperatamente di ricordare com’era “la vita prima della guerra”. Ce n’è una in cui cerca Dio nel frigorifero e un’altra in cui dice che l’analista non risponde ai suoi messaggi. E poi c’è quella in cui è talmente debole che non riesce nemmeno a scavarsi la fossa e allora affitta un Cessna e sorvola il Triangolo delle Bermuda, ma non succede niente, neanche la morte lo vuole.
Sono le canzoni da 60 secondi o meno che Ryan Adams sta pubblicando sul suo profilo Instagram. Ha cominciato quattro giorni fa, le chiama Diary Songs, ne ha già tirate fuori una decina. Non sono canzoni commerciali, sono pochi versi che però fotografano in modo nitido quel che sta passando il suo autore. Non hanno bisogno d’altro: il loro carattere laconico rende il loro oggetto ancora più miserabile. Ci sono dolore, ironia, tanta autocommiserazione, un po’ di quieta disperazione, ma non è detto che suscitino empatia in chi le ascolta. Per una semplice ragione: da due anni oramai Ryan Adams è il più grande reietto del cantautorato americano, l’archetipo del maschio rock tossico.
La guerra di cui canta Ryan Adams è cominciata nel febbraio 2019 quando l’articolo del New York Times intitolato “Ryan Adams Dangled Success. Women Say They Paid a Price” l’ha descritto come un manipolatore mezzo sessuomane che seguiva uno schema. Avvicinava cantautrici molto giovani, di cui una minorenne (l’FBI ha acquisito 3000 messaggi spediti alla ragazza e ha chiuso il caso), ne lodava in modo esagerato il talento, le faceva sentire importanti, si offriva di lanciarne la carriera grazie alla sua fama e ai suoi contatti. A quel punto le tormentava con richieste sessuali, arrivando in alcuni casi a vendicarsi quando veniva respinto.
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«Tutta un mitologia lo circondava», raccontava in quell’inchiesta Phoebe Bridgers, che aveva 20 anni quando nel 2014 è stata invitata da Adams nel suo studio. «Pareva avesse il potere di spingere la carriera della gente». I due hanno intrecciato una relazione sentimentale e ben presto l’uomo è diventato ossessivo ed emotivamente violento. Iniziò a tempestarla di messaggi, esigeva che lei dimostrasse dov’era o che lasciasse le persone con cui stava in quel momento per fare sesso telefonico, arrivando a minacciare di suicidarsi se lei non avesse risposto immediatamente.
Bridgers è solo uno dei sette casi citati dall’articolo, che è uno dei più celebri dell’era #MeToo in ambito musicale. In un primo momento Adams ha criticato l’inchiesta dicendo che non era accurata e ha scritto alla sua manager di non essere interessato «in quelle cagate sulla guarigione» e che una carriera non può essere riassunta in quel modo. Si è poi scusato per avere «maltrattato le persone nel corso della mia vita e della mia carriera» e ha promesso di mettere ordine nella sua vita incasinata, ad esempio facendola finita una volta per tutte con l’alcol, «questa volta con l’aiuto di professionisti». Oggi Phoebe Bridgers scherza sul passato e twitta che «la prossima volta che vi sentite di merda, sappiate che un tempo ho lasciato che mi facesse del male un uomo il cui successo più grande è una cover acustica di Wonderwall». Lui invece non ha niente da ridere.
Ryan Adams ha aspettato a lungo prima di pubblicare un album. L’ha fatto nel dicembre 2020. Il disco si intitola Wednesdays ed era stato annunciato prima dello scandalo come parte di una trilogia. È il suono della tristezza e del senso di colpa, ma è anche un disco sull’amore. È una raccolta di canzoni di un uomo che sa di avere fatto del male a una donna e ancora le dice “mi spiace e ti amo”. Dopo l’articolo del New York Times ha assunto un nuovo significato. È un album favoloso, ma ha un problema: è di Ryan Adams. Pochi media negli Stati Uniti ne hanno scritto, non si sa se impauriti dalla reazione del pubblico dei social o più semplicemente disturbati dal soggetto. Del precedente lavoro di Adams Prisoner ci sono una trentina di recensioni online di testate più o meno importanti. Nessun grande media ha recensito Wednesdays. Chi l’ha fatto in Italia, dove Adams gode di una certa popolarità fra chi scrive di musica americana, è stato piuttosto tiepido, raccontando in buona sostanza l’impossibilità di ascoltarlo in modo sereno.
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Le Diary Songs di poche decine di secondi che Ryan Adams sta pubblicando su Instagram sono un modo ancora più diretto e senza filtri di raccontare il suo fallimento. Al posto d’ignorare il tema e far passare altro tempo prima di esprimersi, Adams fa quello che ogni songwriter dovrebbe fare: guarda in faccia il suo dolore e anche un po’ la sua vergogna e li canta senza girarci attorno. L’autore non ha accompagnato le canzoni con uno scritto che le collega alla vicenda, ma è evidente che di quella parlano. Non del male che il musicista ha fatto agli altri e nemmeno del suo pentimento, almeno finora, ma di come la sua vita faccia schifo da quando le sue miserie personali sono diventate di dominio pubblico.
Le canzoni da 60 secondi sono adatte a questi mesi di concerti fermi (che te ne fai di un album nuovo che tanto non puoi portare in giro?) e alla soglia dell’attenzione del pubblico ridotta al minimo. Non sono estratti di canzoni, sono miniature, sono abstract. Hanno un inizio, a volte anche una breve introduzione musicale, uno svolgimento, un finale. Musicalmente si rifanno alle tradizioni folk e blues americane e quindi a cento e passa anni di storia, ma nella loro estrema asciuttezza veicolano un solo semplice messaggio e questo le rende estremamente contemporanee. Potete considerarle un altro tentativo di manipolazione o la confessione autentica di un reietto, o entrambe le cose. In ogni caso, queste miniature sono una delle cose più tristi e desolanti che possiate ascoltare in questi giorni.
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Viene in mente una canzone che Lucinda Williams ha incluso nel suo ultimo album. S’intitola Shadows & Doubts e nel testo Williams, che è amica di Adams, cerca di capire che cosa passa per la testa incasinata del rocker che ha lasciato dietro di sé una carneficina e che allontana gli amici quando è troppo fatto. Queste canzoni sembrano la risposta alla domanda di Williams. In una delle Diary Songs Adams va in un banco dei pegni per vendere l’anima. Neanche lì la vogliono e indicano col dito un punto fuori dal negozio, in un parcheggio. L’anima la deve buttare lì, gli fanno capire, la deve buttare in quel cestino.