Il procuratore Serge Brammertz è rientrato nel suo ufficio a L’Aia da due settimane. Il processo a Félicien Kabuga, fondatore di Radio Milles Collines (meglio nota come Radio Machete) inizierà probabilmente dopo l’estate. A gennaio l’ufficio del procuratore ha inviato all’attenzione dei giudici del Tribunale ONU per il Ruanda il primo atto d’accusa adattato. Si leggono i sei capi di accusa confermati a carico di Kabuga: genocidio, incitamento diretto e pubblico al genocidio, cospirazione per la commissione del genocidio, persecuzione motivata da ragioni politiche, sterminio, omicidio. Félicien Kabuga era tra i sei fuggitivi ricercati dal Meccanismo ONU per i Tribunali penali, il tribunale responsabile delle ultime indagini e processi a carico dei criminali accusati del genocidio in Ruanda, sfuggiti alla giustizia internazionale.
Tra il 6 aprile del 1994 e il 17 luglio dello stesso anno, in Ruanda la popolazione civile tutsi, identificata in base all’etnia o per ragioni politiche, è stata soggetto di sterminio e genocidio. Si stima che da 800mila a un milione di donne, bambini, e uomini tutsi siano stati uccisi in quei 100 giorni di guerra e follia dal gruppo hutu, che in quel periodo governava il ‘Paese delle mille colline’. Il nome di Kabuga è associato a due aspetti fondamentali del genocidio: il finanziamento degli interhamwe, le milizie che armate di machete hanno compiuto centinaia di migliaia di assassinii motivati dall’odio etnico, e la creazione di Radio Milles Collines.
Nell’ufficio di Brammertz si intravede un po’ di Italia, sono i quadri realizzati dal pittore palermitano Arrigo Musti per un’asta di beneficienza nel 2008 che raffigurano le vittime del conflitto in Sierra Leone. “Chiunque entri in questo ufficio vede il contrasto tra la scelta dei colori vivi e accesi, e la constatazione tragica che queste vittime sono cieche, senza occhi”, spiega il procuratore. L’assenza della vista, quindi la separazione dal mondo esterno, sembra riferirsi alle situazioni di impunità, cioè alla mancanza di giustizia per le vittime, la missione che i Tribunali ad hoc creati dopo le tragedie di Srebrenica e Kigali cercano di campiere. “Quando ho iniziato a lavorare per il Meccanismo residuo per il Ruanda, ho avuto la stessa impressione di urgenza e necessità rispetto ai casi dell’ex Yugoslavia. Quando ho incontrato per la prima volta le organizzazioni delle vittime a Kigali, che hanno perso membri della loro famiglia, e sono stati rifugiati, ho visto una situazione molto simile quando ho incontrato le madri di Srebrenica”, racconta Brammertz.
Kabuga, 84 anni, è stato arrestato dalla polizia francese il 16 maggio 2020, dopo 26 anni di latitanza. La cattura è stata possibile solo grazie a un cambiamento di metodo nelle indagini, che Brammertz ha contribuito a rivoluzionare. Un approccio investigativo basato sui dati e sulla cooperazione tra le polizie di differenti paesi: “Quando inizi una nuova indagine, hai il vantaggio di portare con te un nuovo sguardo. Metti tutto in discussione: le informazioni, le fonti. Prima che arrivassi qui, il Tribunale faceva molto affidamento su fonti e informatori che ci parlavano di posti molto diversi tra loro, come il Gabon e il Burundi, dove Kabuga si potesse nascondere. Avevano decine di fonti ma poche informazioni analitiche. Ho deciso di ridurle perché ci stavano mandando in direzioni troppo distanti”. Dal 2007 Félicien Kabuga aveva fatto perdere le sue tracce, per l’ultima volta, in Germania. L’ultima segnalazione lo voleva in Belgio. A inizio 2020 la svolta nelle indagini è arrivata grazie alla cooperazione con la polizia francese e alla localizzazione degli spostamenti sospetti della famiglia Kabuga attraverso le celle telefoniche: l’ex uomo di affari ruandese si trovava in un piccolo appartamento alla periferia di Parigi, a Asnières-sur-Seine, coperto dai familiari residenti in Francia.
Kabuga è detenuto nelle carceri del Tribunale a L’Aia, nei Paesi Bassi, centro della giustizia internazionale mondiale. L’11 novembre 2020 è apparso per la prima volta nella fase pre processuale e ha dichiarato di essere innocente. Il Tribunale si occupa di indagare e processare solo i responsabili politici e militari di alto rango, ma gran parte degli esecutori materiali del genocidio ruandese appartenevano alla popolazione comune. Erano vicini di casa, spesso amici e conoscenti della porta accanto manipolati e trasformati in armi di sterminio, armati di machete. Radio Milles Collines ha avuto un ruolo fondamentale nell’incitamento al genocidio e nella divulgazione dei messaggi d’odio per fomentare gli hutu contro i tutsi: “sterminate gli scarafaggi”, era uno dei messaggi più trasmessi dalla radio. Gli appelli della radio identificavano anche I luoghi dove i tutsi si nascondevano, tra questi chiese e moschee, scuole e ospedali. “Il modo in cui il Ruanda si è approcciato ai crimini del genocidio è l’unico possibile e sicuramente migliaia di esecutori sono stati reintegrati in società. La giustizia è solo una parte della soluzione, deve essere integrata in un piano coerente di giustizia riparativa, di risarcimento per le vittime e continuare come società e comunità. Questa formula si è concretizzata di più in Ruanda che in Bosnia Erzegovina, dove l’astio tra gruppi etnici non è migliorato”, afferma il procuratore.
Serge Brammertz è stato procuratore per il Tribunale dell’ex Yugoslavia dal 2008 al 2017. Ratko Mladic e Radovan Karadzic, i principali responsabili del genocidio di Srebrenica, sono stati arrestati proprio in quegli anni. Karadzic, ex presidente della Repubblica Srpska, è stato condannato in via definitiva a 40 anni di prigione per genocidio, crimini contro l’umanità e violazione delle leggi internazionali sulla guerra. Gli ultimi casi rimasti in attesa di giudizio definitivo sono il processo a Mladic, il comandante dell’esercito della Republica Srpska, e Jovica Stanišić e Franko Simatović, entrambi dignitari della Repubblica serba ai tempi della guerra in Bosnia. “Sia il Tribunale per l’ex Yugoslavia, che la Corte internazionale di Giustizia hanno stabilito che a Srebrenica si è trattato di genocidio, ma c’è chi ancora lo nega”. In particolare, secondo il procuratore, “un aspetto che è ancora problematico è la glorificazione dei criminali di guerra, una battaglia che anche a Kigali stanno combattendo. È molto difficile per le società accettare che le persone che seguivano come leaders, si sono approfittate della loro fiducia”.
Il Meccanismo Onu per il Ruanda sta lavorando in contemporanea per arrestare gli ultimi 4 fuggitivi. In particolare Protais Mpiranya, l’ex comandante della guardia presidenziale dell’esercito ruandese, si nasconderebbe in Zimbabwe, secondo gli investigatori Onu. Secondo l’accusa, Mpiranya avrebbe ordinato anche l’assassinio della prima ministra moderata hutu Agathe Uwilingiyimana e di 10 soldati belgi. Si sospetta che la fuga del ricercato sia coperta da Zimbabwe e Sud Africa in virtù della sua storica carica militare. In particolare il Sud Africa si è rifiutato di cooperare con l’ONU per la sua cattura.
“Negli anni ’90 c’era molto più supporto per la giustizia internazionale”, afferma Brammertz. La giustizia internazionale e il multilateralismo basato sulla cooperazione sono in crisi, ma ci sono anche aspetti positivi da considerare: “Oggi l’impunità è molto di più la regola se guardiamo a Siria, Yemen o Myanmar. Ma l’arresto di Kabuga ha fatto vedere che queste persone vivono tra noi e non in case extra lusso. Karadzic viveva sotto falso nome, come dottor Dabic, viveva pubblicamente ma sotto falso nome. Il generale Mladic viveva in campagna e Kabuga viveva in una appartamento di 75 metri quadri nella periferia di Parigi. Diciamo spesso che la giustizia rimandata è giustizia negata, ma a livello internazionale c’è bisogno di avere pazienza”.
La fine del genocidio in Ruanda viene fatta coincidere con l’ Opération turquoise, l’intervento delle truppe francesi sotto l’egida ONU, il 15 luglio 1994. Il 6 aprile 2021, nel giorno del 27esimo anniversario del genocidio, il governo francese ha pubblicato un rapporto riservato che stabilisce il fallimento della politica francese di Francois Mitterrand in Ruanda. Secondo la Commissione voluta da Emmanuel Macron, la Francia non ha fatto abbastanza per evitare il genocidio di un milione di persone.