Fino a un mese fa credevo che il peggio che potesse capitarmi nella vita fossero gli agrumi. Io li detesto, gli agrumi, ma proprio che fatico a immaginare qualcosa di più terribile di un succo di pompelmo o di una fetta d’arancia. Poi sono entrata nella fitta e appiccicosa tela della regione Lombardia, e ora non temo manco il Carnevale di Ivrea.
La mia odissea – perdonami, Omero – ha inizio il 10 marzo scorso, quando la scuola privata presso la quale insegno a Milano (più che insegnare, ogni anno prendo atto che i ragazzini oggi vivono davanti a internet, eppure non sanno un cazzo) mi ha inserita tra la categorie prioritarie che possono aderire alla campagna vaccinale anti COVID-19 della regione Lombardia (sì, ora molti di voi diranno: c’è gente che merita il vaccino più e prima di te – lo so, grazie). La società incaricata di gestire le prenotazioni è (o meglio, era) Aria, l’Azienda Regionale per l’Innovazione e gli Acquisti «soggetta a direzione e coordinamento da parte della regione Lombardia». Aria nasce per volere del presidente Attilio Fontana e del suo braccio destro Davide Carlo Caparini, per assolvere a un compito apparentemente semplice: occuparsi degli acquisti per conto di regione Lombardia, che ne sceglie i manager e gli esponenti di spicco. Tradotto: io allevo polli, fondo un’azienda produttrice di mangimi per polli da cui approvvigionarmi – che è sempre mia – e ci metto a capo un paio d’amici imbecilli e facilmente manovrabili.
Torniamo a noi: l’iter prevede che la suddetta scuola privata trasmetta le liste complete dei docenti al MIUR (il Ministero dell’Istruzione); il MIUR le vaglia e le trasferisce alla regione Lombardia, che a sua volta le manda ad Aria per l’inserimento dei nominativi nel portale appositamente messo a punto (da Aria, ossia dalla regione: insomma, avete capito). Io docente, infine, immetto i miei dati – nome, cognome, indirizzo, numero di telefono, codice fiscale –, ottengo una conferma e attendo la fatidica chiamata o l’agognato sms con le coordinate dell’appuntamento per la prima iniezione.
Facile, no? Macché. Per circa tre settimane, a ogni tentativo di adesione, il sito mi sbatteva in faccia una risposta che non dava adito a fraintendimenti: «Il codice fiscale inserito non risulta associato a un soggetto appartenente alle categorie prioritarie». Significava che non c’ero, che il mio nome non era stato incluso, che non avrei visto nessuna chiamata e nessun sms. Se avessi guadagnato dieci centesimi per ogni minuto trascorso in attesa o a discutere con gli operatori di uno dei mille call center della regione Lombardia, ora potrei regalarmi l’adorata Gucci Horsebit in vitello nero spazzolato.
La selezione degli operatori dei mille e più call center della regione Lombardia segue tre regole basilari: la prima, non parlare mai della regione Lombardia. La seconda: non dover parlare mai della regione Lombardia. La terza: comportarsi come qualsiasi individuo con un funzionamento intellettivo significativamente al di sotto della media di almeno due deviazioni standard. Gli operatori dei mille e più call center della regione Lombardia sembrano – ci sono, ci fanno, va’ a sapere – degli scemi parcheggiati lì un po’ per caso, che se te ne esci con un «voi della regione m’avete assicurato che bla bla bla», replicano puntualmente «io non sono della regione». E se insisti – ma com’è possibile? Per chi lavorate? Chi vi paga gli stipendi? Questa sigaretta qui, chi ve l’ha data? – loro o tacciono, o ti sbattono il telefono in faccia.
La soluzione a tutti i mali, per gli operatori dei mille e più call center della regione Lombardia (andate sul sito istituzionale e provateci, ad addentrarvi in quella selva oscura di numeri che cominciano con “800”), è «bisogna aspettare». Il che, a ben vedere, è la replica standard d’un buon rabbino agli assilli dei fedeli sulla venuta del Messia: quando arriverà, rabbi? Bisogna aspettare. Quanto, rabbi? È un’eternità, che aspettiamo. Appunto, che cambierà mai qualche giorno in più?
Avanti veloce fino al 30 marzo: conscia d’aver atteso abbastanza senza che nulla mutasse – situazione azzarderei gattopardiana, «tutto cambia perché nulla cambi» – decido che basta, ne ho piene le scatole. È il momento di passare alle maniere forti, ché a furia di parlare con un branco di idioti rischio d’istupidirmi pure io: mo’ vi renderete conto che non ci si prende gioco di me, del mio tempo e della mia pazienza, adesso sì che tremerete, adesso vi mando una bella PEC. Il mio entusiasmo nei confronti della PEC meriterebbe un capitolo a parte, ma onde evitare d’aprire un’ulteriore parentesi non mi dilungherò: vi basti sapere che, grazie alla PEC, ho recentemente risolto un paio di situazioni spinose e stagnanti, dunque le aspettative riposte nel mezzo sono oltre la soglia massima accettabile.
Invio la PEC alla Direzione Welfare (la sanità, per intenderci) della regione Lombardia e in copia ci piazzo pure la Presidenza (Attilio? Pronto? Mi senti?), descrivendo nei minimi dettagli l’impasse: sono docente; la scuola ha mandato le liste; sì, i miei dati sono corretti; sì, li ho riverificati cinquanta volte; sì, ho atteso tre settimane; no, nessuno è stato in grado di spiegarmi dove accidenti sta l’inghippo. Stacco. Nove giorni e sei PEC dopo, la mia speranza inizia a vacillare. L’avevo forse mal riposta? Sono obbligati per legge a rispondermi, perdinci! Come osano ignorarmi! Con un piglio del tipo Chiara Ferragni meets Tom Ponzi, risalgo al nuovo Direttore Generale Welfare – Giovanni Pavesi – e m’accorgo che sul sito della regione hanno commesso il classico errore che manda in brodo di giuggiole le rompicoglioni come me: è stato lasciato il numero di telefono diretto della sua segreteria.
Spesso mi capita di pensare a chi non avrei mai voluto essere. James Comey quando ha dovuto stringere la mano a Donald Trump. Oscar Giannino quando gli è toccato ammettere d’aver mentito sulla propria istruzione. La signora E., impiegata della Direzione Welfare della regione Lombardia, alle prese con me medesima dall’altro capo del telefono. La poverina viene travolta dal fiume in piena della mia frustrazione, e non si limita a darmi il suo nome, cognome, nonché contatto telefonico diretto: si prende la briga di «venirne a capo». Primo step: la scuola, i dati, la lista. Ha controllato il suo codice fiscale? Ma certo. È corretto? Ehi E., mi pigli per il culo? Ok, mi perdoni. La scuola, quindi, ha mandato le liste? Ovvio. Nei tempi prestabiliti? Chiaro. I suoi colleghi sono riusciti a vaccinarsi? Che io sappia, la maggioranza sì. Ah, dunque il problema è solo suo? Toh guarda: non avete letto le mie PEC? Ehm, no. Esiste per caso qualcuno preposto alla lettura delle PEC inviate all’attenzione della Direzione Welfare? Guardi, non ne ho idea. Beh dai, siamo a cavallo.
«Allora è necessario sentire Aria». Vai E., le dico, hai carta bianca, basta che me ne tiri fuori. Il controllo incrociato non dà però i suoi frutti: qualche ora dopo E. mi richiama, confermandomi che Aria non ha il mio nominativo, e che la famosa lista mandata dalla scuola non si trova. Puf, sparita. Chiudi gli occhi, ed è subito David Copperfield. «Guardi», mi consola E., che intanto stava maledicendo la sua iniziale disponibilità, «proviamo a seguire l’iter per i docenti che lavorano in una regione diversa da quella di residenza». Ma come, io vivo e lavoro in Lombardia: «Sì, ha ragione, è per fare un tentativo». Un tentativo. Lo ripeto, lo riscrivo: un tentativo. Un tentativo per conquistare il vaccino che mi spetta di diritto, annamo bene.
E. scrive una mail alla segreteria della scuola, invitando l’istituto a segnalare il cul de sac in cui mi trovavo da ormai un mese alla Direzione Generale Istruzione di Regione Lombardia. Le cose ovviamente non sono (e a quanto pare non possono nemmeno) essere semplici, immediate e veloci: l’istituto replica picche, ché lato suo l’iter è stato rispettato, «il Dottor Z. di Ats (l’Agenzia di Tutela della Salute, che è all’interno del Sistema Welfare lombardo, quindi della regione, Ndr.) ha confermato di aver inviato ad Aria la lista completa dei nostri docenti». Chi è il Dottor Z., domando: «Sarà di Ats», chiarisce E. (maddai), «provi a sentirlo per capire quando esattamente ha mandato le liste». A nulla valgono i miei sforzi di convincere E. che lei e il Dottor Z. giocano nella stessa squadra, che sarebbe un suo compito, che «tra di voi fingete di non conoscervi, siete un’associazione a delinquere, siete!». La sopportazione di E. è agli sgoccioli, e io torno in versione Chiara Ferragni meets Tom Ponzi.
Dato che tramite il centralino ottengo soltanto un pugno di mosche, scandaglio il web fino a recuperare un interno di Ats; chiamo, e con una scusa abbastanza credibile riesco a estorcere il numero diretto del Dottor Z.. Mi dà occupato, per almeno quarantacinque minuti. Sempre. Occupato. Sempre. Ed è proprio mentre sto per lasciar perdere, per mandare tutti affanculo, per mettermi l’anima in pace e scendere a un compromesso con l’idea di non rivedere i miei (che si vaccineranno la prossima settimana: regione Emilia-Romagna, ti si vuol bene) per chissà quanti altri mesi, che squilla il telefono. È E.: «Riprovi adesso a inserire i suoi dati, Aria mi ha comunicato che il suo nominativo risulta». Perdindirindina, sei seria? Il mio cervello già parecchio affaticato compie una serie di rapide associazioni: vuoi vedere che il Dottor Z. non aveva mai girato la lista ad Aria e s’è svegliato oggi, perché gli hanno messo il pepe al culo? Oppure il Dottor Z. aveva girato la lista ad Aria, e Aria aveva scelto a caso i nomi da includere? Marianna, che nome di merda, io mica la voglio insieme a Francesca e Riccardo!
E. alla fine aveva ragione: dopo un mese e mezzo di attese, vene gonfie e bestemmie, sono riuscita ad aderire alla campagna vaccinale anti COVID-19 della regione Lombardia. Ho un appuntamento confermato, un codice di prenotazione, un giorno e un luogo ove recarmi. Vorrei scrivere che ne è valsa la pena, che alla luce del quadro generale dovrei comunque baciarmi i gomiti; dovrei essere felice che, dopo quasi otto mesi, finalmente da qui a breve rivedrò i miei genitori e potremo stare abbastanza tranquilli. La verità è che sono stremata e stento a trovare la morale di questa storia. O magari no, la morale è che dobbiamo smetterla di dare una chance ad amici e conoscenti che riteniamo essere degli idioti: è un attimo che ce li ritroviamo in regione Lombardia – o a capo dell’azienda produttrice di mangimi per polli – e, una volta lì, liberarsene diventa un gran casino.