In principio era Cosmo. In un mondo indie italiano che ha scoperto quanto è bello far cantare le canzoni in coro e c’abbracciamo, tenendo magari sì la parvenza da alternativi & indipendenti ma costruendo in realtà musica dagli stessi criteri di Antonacci, Nannini e Baglioni, l’unica reale anomalia in questi anni è arrivata da chi è partito indie, ma è approdato all’elettronica, l’elettronica vera però, quella dei dancefloor, non quella delle canzoni-con-ritornello. Appunto: Cosmo, e quasi nient’altro. Il confine col synth pop è apparentemente sottile (e di gente dal milieu indie reale o scopiazzato che si mette a fare synth pop pretendendo sia elettronica da dancefloor la scena italiana ne è piena); ci vogliono orecchie un minimo allenate per capire chi sta usando synth, plug in e drum machine per fare la solita cosa, e chi invece sta veramente percorrendo una via nuova – o comunque pochissimo battuta.
«Ho studiato, certo. Ho studiato attentamente per fare quello che faccio oggi. In questo mi ha aiutato il mio background jazz: quando arrivi da quella musica lì, sei abituato ad avere un ascolto molto più attento, molto più dettagliato, e quindi forse per questo riesci ad assorbire e recepire informazioni di un genere, anzi, proprio di una cultura musicale, molto più velocemente». Questo sorprende di Whitemary (abruzzese trapiantata da anni a Roma, Biancamaria Scoccia all’anagrafe): non tanto l’EP Alter Boy di un paio d’anni fa, interessante ma comunque prevedibile nel filone indie-alt-synth-cameretta, quanto il singolo appena uscito Credo che tra un po’, e in generale tutto il materiale a cui sta lavorando per l’album d’esordio, materiale che con un po’ di spionaggio industriale siamo andati a piratare.
Fa impressione, questo disco. Fa impressione soprattutto una cosa: è pieno di finezze. E intendiamo: quelle finezze che solo cultori intensi (e professionisti consolidati) della musica da dancefloor possono pensare, capire, mettere in campo. Tipo il modo in cui vengono tagliate le frasi musicali, o sviluppate le scelte di mixaggio, o evocate certe citazioni più o meno volontarie. È proprio un modo diverso di pensare la musica, ecco. È avere in testa i Disclosure e Jackson and His Computer Band, non Battisti. Anche se canti in italiano.
«Musicalmente sono figlia del mio fidanzato. Ci siamo conosciuti otto, nove anni fa: io ero tutta jazz, quello e solo quello, lui invece era fissato con l’elettronica francese, dopo un periodo da chitarrista shredder – quelle cose tipo Satriani, hai presente? Bene. Fissato con l’Ed Banger com’era, Alessandro un giorno si stufa e decide di farmi sentire i Justice: precisamente la traccia Stress. Come puoi immaginare, quel momento lì è stato un trauma – quel brano era esattamente l’opposto di quello che ascoltavo di solito. È stato terribile, credimi, lo stress era il mio! Piano piano però, insistendo, in quel tipo di musica ho iniziato ad entrarci: fino a quando mi sono accorta con l’elettronica sarei riuscita ad esprimere il massimo del mio potenziale creativo. Col jazz invece non sarebbe stato mai possibile. Perché nel jazz c’è bisogno di una quantità infinita di studio e di talento per fare qualcosa di veramente originale, tanto più che io ero una cantante: e la cantante nel jazz o è veramente geniale e stravolge le regole, o deve stare in un solco di scrittura, testi e armonizzazioni che – un giorno me ne sono resta conto – non era un linguaggio veramente mio, anche se fino a quel momento ero immersa solo in quello. L’elettronica invece ho capito che, almeno per me, è un campo ancora aperto: tutto da esplorare, tutto da conquistare, ma in cui per qualche motivo mi sentivo immediatamente a mio agio. E ho iniziato allora a studiarla attentamente».
Ci vuole insomma l’animo da secchiona. Whitemary nasce (anche) da lì. «Assolutamente sì. Io la musica elettronica l’ho scoperta solo due, tre anni fa. Ma ho ascoltato tanto, tantissimo, e come dicevo con un ascolto molto tecnico, molto particolare. È stato poi fondamentale incappare nella playlist Women of Electronic su Spotify: elettronica prodotta solo da donne. Mi ha affascinato. Anche perché ho avuto subito l’impressione che esista un modo di fare elettronica che è peculiarmente femminile». Ovvero? «L’approccio compositivo. E la scelta dei suoni. C’è, come dire?, più introspezione. O almeno io la riconosco di più e e meglio». E in tutto questo, il fidanzato? «Avevamo e anzi abbiamo un gruppo assieme, i Concerto. Progetto che in realtà lui aveva iniziato da solo sull’onda della passione per gli anni ’80 e il French Touch; poi però io ero sempre più coinvolta nello scrivere i pezzi e allora ci siamo detti “ok dai, trasformiamolo in duo!”. Abbiamo fatto un primo disco molto vario, cantato in inglese. Un disco però molto immaturo. Ed allora, tanto per provare a fare qualcosa di nuovo che ci alzasse il livello, abbiamo abbracciato la sfida dell’italiano. Quel che è venuto fuori è stato qualcosa di molto più pop. Quel tipo di pop che poi è diventato la matrice dominante di quel che si intende per indie in questi anni. E ti assicuro: non era questa la nostra intenzione. Non volevamo finire per forza in quel calderone lì. Qualcosa di utile c’è stato però, in questa svolta: ho capito che scrivere e cantare in italiano era la mia strada, la nostra lingua ha una ritmica che è perfetta per me, mi stimola tanto. Ma tornando a noi: no, non volevo e non volevamo fare un disco indie. Proprio no. Anche se stavano inziando ad arrivare i primi risultati, le prime attenzioni, anche oltre le nostre previsioni».
E allora? «Allora, ci siamo messi a preparare un disco di elettronica pazzerella. Sullo slancio ho iniziato a fare anche molte cose da sola, di questo filone pazzerello, ed Alessandro dopo aver sentito questi miei esperimenti mi ha incoraggiato tantissimo ad andare avanti. Ecco: Whitemary nasce così, Alter Boy nasce così». Un lavoro interessante ma grezzo e imperfetto, con un’insistenza nell’effettare la voce che, mah, sinceramente funziona fino a un certo punto. «In questa nuova avventura artistica da solista avevo smesso di cantare tradizionalmente, anzi, spesso il mio era solo un parlato, un recitato. Ma la voce messa lì da sola non mi pareva funzionare abbastanza, quindi ho iniziato a mettere questo effetto chorus – da cui il nome del disco – pitchando la voce. Bello eh, mi piaceva e mi piace ancora adesso, ma dopo un po’ rischiava di diventare una gabbia. E quindi ho ripreso a mettere solo e unicamente la mia voce. Al massimo armonizzando un po’. Il risultato però è che qualcuno ha iniziato a dire che assomiglio a Myss Keta». Il che è una cazzata. «Eh, ma che ci vuoi fare. Credo che tra me e lei ci sia una differenza enorme: lei è un progetto a tutto tondo, crea un mondo, un immaginario. Io sono solo una che canta, e fa musica».
Ok. Ma questa storia che bastano due, tre anni di ascolto di playlist di Spotify per fare subito una musica così competente rispetto all’immaginario del clubbing non mi torna, non mi torna del tutto. «Io nei club ci vado anche – vabbé, ci andavo, fino a quando era possibile farlo – ma a modo mio. Vado in pista, faccio del balletti stupidi – eh sì, perché non sono di certo una gran ballerina – ma gli annessi e connessi non mi interessano, non so se ci siamo capiti. Il mio primo approccio col clubbing è stato peraltro abbastanza bizzarro. Sai, io arrivavo dall’Aquila e lì come discoteche c’è poco, e quel poco che c’è beh… era davvero poco interessante. Arrivata a Roma, uno dei primi posti che ho preso a frequentare era il Big Bang, al Testaccio. Lì, regolarmente, tenevano regolarmente delle feste goa trance. Ti rendi conto? Dal nulla mi sono ritrovata in questi rave sotterranei, assurdi, con la musica a 180 bpm, le installazioni psichedeliche, la gente presa benissimo. Mi piaceva un sacco! Anche se arrivavo così stanca, dopo le giornate a studiare in conservatorio, che spesso mi addormentavo… Te la immagini una ragazzetta abruzzese appena arrivata a Roma che si addormenta davanti alla cassa che lancia techno-trance a 180 bpm? Bene: quella ero io».