Con le dovute proporzioni e differenze, la parabola di LowLow ricorda un po’ quella di tanti altri bambini e ragazzini precoci, in ogni ambito artistico. Quando ha cominciato a rappare – a 13 anni, oggi ne ha 27 – era considerato un vero talento del freestyle, in una città come Roma, oltretutto, dove le battle sono sempre state molto competitive e affollate. Alla prima ce lo aveva accompagnato la mamma, che era rimasta tra il pubblico e alla fine aveva anche rilasciato un’intervista, nel suo bizzarro ruolo di genitrice dello sfidante più piccolo (anche se ormai i rapper esordienti sono sempre più giovani, a metà anni ’00 vedere un rapper delle medie sul palco era un’anomalia).
«Ai tempi ero veramente inascoltabile, sparavo punchline fuori tempo con la voce di Lisa Simpson», scherza LowLow dalla finestra di Zoom in cui stiamo chiacchierando. «Essendo così giovane, però, ho avuto la fortuna di essere adottato dalla scena dell’epoca, giravo con ragazzi molto più grandi di me che mi hanno insegnato praticamente tutto».
La sua non è una storia di disagio e riscatto: è figlio di due rispettati e acculturati professionisti, entrambi da sempre molto presenti nella sua vita. «Vengo da una famiglia di contesto socio-economico molto tranquillo, ma ho sempre cercato un modo di esprimermi, di dimostrare qualcosa, e l’ho trovato nel rap». E il rap ha trovato in lui uno dei suoi enfant prodige, fino a quando non è cresciuto e qualcosa è andato storto. Non tanto in termini di vendite, non stellari ma comunque di tutto rispetto, quanto di vita e rapporti umani: correva voce che LowLow fosse intrattabile, che litigasse con tutti, dagli altri rapper ai suoi manager, discografici e uffici stampa, e che ci fosse qualcosa che non andava in lui e nel suo modo di rapportarsi al mondo esterno.
Avere i riflettori puntati addosso fin da quando sei giovanissimo ha i suoi pro e i suoi contro.
Ho capito molto presto quello che mi piaceva fare, e questo è stato un bene, ma ho aspettato un bel po’ prima di pubblicare il mio primo vero brano, 21 motivi: avevo 18 anni, ormai. Sentivo l’urgenza di arrivare, di farmi sentire: anche i ragazzini che vengono da una famiglia normalissima hanno tanta rabbia, tanta voglia di farsi valere. La mia battaglia, durante tutta l’adolescenza, è stata cercare di affermare proprio questo. Ho avuto anche molta paura, ma non è il tipo di emozione che puoi mostrare sul palco, in una battle di freestyle. Così tramutavo questo sentimento in benzina, e spesso in una spigolosità eccessiva che gli altri percepivano. Volevo essere un certo tipo di persona, e avrei fatto di tutto per diventarlo.
In che senso?
Sapevo di essere bravo a scrivere, ma avevo l’esigenza di mostrare la mia forza, i miei muscoli, liricamente parlando. Il che può dare adito a dei fraintendimenti, perché non tutti colgono l’insicurezza di adolescente che c’è dietro a questi atteggiamenti. Mi ero creato un modello da Superman antieroe, che è estremamente restrittivo, a tratti castrante. Se una cosa andava bene, era scontato che dovesse andare così; se andava male, era una tragedia. E nel mondo degli adulti, quello in cui mi sono ritrovato a fare musica molto presto, per forza di cose prima o poi inciampi, è normale che sia così. Accettare il fallimento è stato difficilissimo. Quando le cose hanno cominciato a prendere una piega meno trionfale, due anni fa, sono entrato in un periodo di grossa crisi. Non riuscivo a scindere me stesso dalle mie canzoni, e se le mie canzoni non erano comprese, non mi sentivo compreso neanche io come essere umano.
Sei riuscito a uscire da questo stallo?
È stato doloroso, ho dovuto a imparare a fare questo mestiere da adulto, e non da ragazzino. In quei momenti sentivo di non poter contare su nessun altro, ma di non essere in grado di aiutarmi. Quello del rapper e dell’artista in generale è un lavoro molto identitario, persona e personaggio spesso coincidono. Lavori con tanta gente, ma non sono loro ad essere sotto i riflettori: a prendersi oneri e onori sei tu. A volte, quello che per il resto del mondo è un semplice problema, per te è qualcosa di assolutamente insostenibile, una vera ingiustizia, ma non riesci a spiegarlo agli altri e non capisci perché non lo capiscano. Ho realizzato che collaborare con il tuo team non è una gara di freestyle: non è che se hai ragione puoi vomitare tutte le tue frustrazioni e tutta la tua rabbia sugli altri.
Tra gli addetti ai lavori in effetti è spesso girata voce che fosse molto complicato lavorare con te, perché sei iper-perfezionista e molto istintivo nelle tue reazioni, tanto che spesso cambi staff e direzione in maniera repentina. Quanto c’è di vero in tutto questo?
Non nego che ci sia del vero. Questo refrain, «è bravo ma è matto», lo sento da sempre, ma penso che sia stata l’ambizione a trasformarmi in matto. Fare la mia musica con la massima serietà e con spirito competitivo per me è imprescindibile. Sono maturato, però: ho capito che c’era qualcosa di insano nel modo in cui facevo le cose, e da lì è diminuita anche la mia paura nei confronti degli altri. Adesso mi è più facile relazionarmi al resto del mondo, senza pretendere che le cose vadano per forza come voglio io. E sono anche in grado di raccontarmi senza il timore di essere frainteso: sono una persona appassionatissima, in costante guerra con se stessa per migliorare. Non voglio mancare di rispetto a nessuno, voglio solo sfidare i miei limiti, sono la persona più insoddisfatta del pianeta.
C’è stato un momento in cui hai capito che qualcosa doveva cambiare?
Oltre che una sensazione di cuore e di pancia, è stata soprattutto una questione di testa. C’è stato una sorta di crack del sistema, due anni fa: mi sentivo indegno ed estremamente solo davanti a qualunque imprevisto, anche piccolo. Un instore che non andava come mi aspettavo, ad esempio. Un giorno ero a Bari per incontrare i fan e fare un firmacopie, e all’improvviso mi è mancata la terra sotto i piedi. Pensavo a cose brutte, bruttissime. Non è che volessi ammazzarmi, perché ho una famiglia fantastica e il solo pensiero di farli soffrire mi fa stare malissimo, ma non ce la facevo più: mi dava fastidio l’idea di continuare a vivere. Sarà che mi sono sempre immaginato già morto, a quest’età: pensavo che avrei fatto un casino e poi me ne sarei andato crivellato di colpi come Scarface. E non ti nascondo che mi sentivo morto dentro, sono stato male per tantissimo tempo. Non ho ancora trovato una risposta o un punto di equilibrio, ma nel frattempo le cose sono andate avanti e ho capito che scrivere mi aiutava.
In che modo?
Non mi era mai capitato di farlo mentre stavo sotto a un treno, metaforicamente parlando. Quando ho capito che riuscivo a scrivere un testo di getto anche in quelle condizioni, in maniera molto naturale, ho ricominciato a sentirmi vivo. Non mi sento ancora bene, e ho ancora una visione molto negativa del mondo, ma sono molto più sereno.
Questi alti e bassi – molto alti e molto bassi – descritti così sembrano quasi una sindrome bipolare (e tra l’altro, Bipolare è proprio il titolo di un tuo vecchio pezzo). Ne hai mai parlato con qualcuno?
Sì, parlo con qualcuno. Vado dallo psicologo e ho un bel rapporto con la psicanalisi in generale, sono figlio di due strizzacervelli, oltretutto (ride). Ci sono dei momenti in cui riesco ad essere estremamente razionale, ed è il motivo per cui non baratterei mai la mia testa con quella di un altro, ma ci sono anche dei momenti in cui devo forzarmi a non iper-analizzare le cose, ad aprirmi, a lasciare andare tutto e vedere cosa succede. La domanda comunque è giusta, perché a questa mia visione del mondo ci penso tanto, e la vera difficoltà non è legata solo agli sbalzi d’umore. Prima di iniziare questa intervista, per dire, ero agitatissimo. Sono talmente fissato con il voler dare sempre il meglio, con il piacere per forza agli altri, che tutto diventa emotivamente molto intenso e tosto da gestire. Non sono molti gli artisti che lo ammettono, ma scommetto di non essere il solo a cercare approvazione e riscontri positivi anche a livelli eccessivi.
Ecco, a proposito: da quando a 18 anni eri la sicura promessa del rap italiano, è cambiato quasi tutto. Il sound, le mode… E tra l’altro, la tua carriera ha avuto una parabola un po’ calante rispetto a quella che tutti si aspettavano da te. Come l’hai vissuta?
Nonostante io abbia fatto il mio cursus honorum da ragazzino, seguendo l’esempio di Eminem con il freestyle e le punchline, a un certo punto ho capito che a me piace soprattutto scrivere, non solo in rima, ma in generale. Forse mi è servito passare attraverso a dei casini, altrimenti tutto questo non lo avrei capito. Non mi infastidisce il fatto che adesso vada di moda un sound diverso dal mio, perché il rap è un genere in costante evoluzione, e l’evoluzione è la cosa più importante.
Che rapporto hai con le certificazioni, in un periodo storico in cui sembra che tutti i rapper debbano debuttare primi in classifica, altrimenti è un fallimento?
Non ragiono in termini di numeri, proprio perché non ragiono con orizzonti temporali limitati. Soprattutto, non ragiono in termini di dischi rap, ma di progetti di Giulio (il suo nome di battesimo, nda). Sto cercando di guardare al quadro generale, e anche per quello ho scelto di pubblicare un album, Dogma 93, in un periodo particolare come quello del lockdown: era importante affermare che c’ero e stavo iniziando un percorso.
E con i tuoi colleghi, invece, com’è il rapporto?
Sto lavorando anche su questo, e il mio prossimo pezzo che uscirà lo dimostrerà. Sto cercando di abbassare le barriere e le paure, per entrare in contatto con artisti che stimo. Mi piace stare sullo stesso beat con altri rapper; non ti nascondo che sicuramente c’è un po’ di spirito competitivo, ma c’è anche tanto rispetto. Diciamo che sono arrivato alla conclusione che, se riuscirò a farmi capire dagli altri in generale, arriveranno a capirmi anche gli altri artisti. Sono fiducioso che saranno le canzoni a parlare per me, e a tirare fuori gli aspetti migliori di me, lasciando fuori quelli detestabili.