L’immagine dell’India che gira di più in queste ore, sui notiziari come sui giornali, è quella delle migliaia di pire funerarie improvvisate, sia in provincia che nelle grandi città come Nuova Delhi, per far fronte al crescente numero di morti. Lunghissime file di fuochi, tutti uguali. È la rappresentazione più evidente della crisi sanitaria che sta attraversando lo stato asiatico, che fino a metà marzo sembrava avere la situazione sotto controllo: il numero di morti giornaliero infatti, fino a un mese fa, era sotto i cento. Un dato ottimo se si considera che l’India ha ben 1,4 miliardi di abitanti. Oltre 23 volte quelli italiani.
Dalla fine di marzo, però, la situazione è peggiorata velocemente, fino a raggiungere i 3285 morti in un giorno come è successo ieri, martedì 27 aprile. Lo scenario è ancora più grave se consideriamo che i contagi giornalieri lo stesso giorno sono stati oltre 360 mila, un record assoluto per un singolo stato dall’inizio della pandemia. E visto che l’onda dei morti, di solito, segue temporalmente quella dei contagi, purtroppo, è lecito aspettarsi che i morti aumenteranno ancora.
Il peggioramento della situazione in India ha fatto crescere la preoccupazione che ci sia una nuova variante, più contagiosa e letale, e che questa possa arrivare anche in Europa. In un certo senso è una preoccupazione legittima, ma per ora senza delle vere basi scientifiche. Chiariamo tutti i punti. Innanzitutto la “variante indiana” (il nome scientifico è B.1.617) esiste già e la si conosce da diversi mesi, non è una novità: fu identificata già a ottobre 2020, pochi giorni dopo la “variante inglese”, ma tra le due quella a essersi diffusa maggiormente (e quindi a dimostrarsi più contagiosa) è stata la seconda.
Passiamo al “pericolo” che la variante indiana arrivi in Europa: semplicemente c’è già. Dallo scorso ottobre si è diffusa in tutto il nostro continente, Italia inclusa. Veniamo all’ultimo punto: B.1.617 è più contagiosa e/o più letale delle altre? Al momento non ci sono dati per affermarlo.
C’è un dato importante che va tenuto in considerazione quando si parla di varianti: i virus mutano continuamente, e questo accade soprattutto se sono molto diffusi, ma la maggior parte delle volte queste mutazioni non corrispondono a un aumento della pericolosità. Allo stesso tempo, però, è vero che le varianti del Sars-Cov-2 si identificano solo con la procedura detta “sequenziamento”, cioè con l’analisi di laboratorio con cui si analizzano i campioni prelevati dalle persone positive per trovare e analizzare il materiale genetico del coronavirus. In India il sequenziamento si fa molto poco e il virus circola moltissimo, e quindi il rischio di nuove varianti effettivamente è molto alto. Ma è solo una possibilità, una nuova variante – dove con “nuova” si intende appena sequenziata – non è stata scoperta.
L’aumento vertiginoso delle infezioni, e dei morti, in India non dipende necessariamente da una nuova variante. È una possibilità che non possiamo escludere, certo, ma di cause ce ne potrebbero essere molte altre, come i grandi assembramenti dovuti a eventi sportivi che hanno coinvolto decine di migliaia di spettatori in varie parti del paese, oppure alcune celebrazioni religiose che ne hanno coinvolte altrettante, quasi sempre svolte senza il rispetto del distanziamento sociale e dell’uso delle mascherine. Durante il Kumbh Mela, per esempio, milioni di credenti hindu si sono affollati sulle rive del fiume Gange.
Per ora, purtroppo, sulle cause della crisi sanitaria indiana ci sono diverse ipotesi, ma poche certezze. Stesso discorso vale per i vaccini. In questi giorni spesso abbiamo sentito dire che il vaccino potrebbe non funzionare con la “variante indiana”, ma non c’è nessuno studio che lo prova o che ci dà qualche indicazione in merito.
Sappiamo con certezza che in passato è accaduto qualcosa di molto simile con la variante inglese: è stata scoperta solo dopo lo sviluppo dei vaccini, si è temuto (e titolato sui giornali in modo allarmista) che potesse resistere al vaccino, ma poi i fatti hanno dimostrato che i vaccini attualmente in uso funzionano anche con la “variante inglese”, oggi molto diffusa. Lo stesso è successo con le altre varianti più diffuse e preoccupanti, quella sudafricana e quella brasiliana, anche in questi casi i vaccini sembrano essere efficaci, anche se in misura minimamente inferiore.
Gli studi su B.1.617 sono attualmente in corso, e servirà del tempo – verosimilmente alcuni mesi – per avere informazioni un po’ più precise sull’andamento della variante. Al momento ci sono due indizi: uno che ci fa propendere per l’ottimismo e uno per il pessimismo. Il primo è il fatto che la variante indiana non si sia diffusa più di tanto e che quindi non sembra avere una contagiosità particolare; il secondo è il fatto che in India la crisi sanitaria sembra essere fuori controllo.