L’altro giorno la timeline di Facebook ha deciso di rovinarmi la serata facendomi imbattere in un articolo intitolato Perché Carrie Bradshaw, in realtà, ha rovinato un’intera generazione di donne. Ora, non starei tanto a soffermarmi sulla questione che, se ti fai rovinare da un personaggio di finzione – per di più protagonista di una serie che ha fatto della leggerezza la sua ragion d’essere – forse il problema è tuo e non del personaggio di finzione in questione, ma comunque. Il primo pensiero stranamente non è stato «Ma che accidenti state blaterando?», bensì «Dove ho già sentito una sciocchezza simile?».
La mia memoria raramente fa cilecca, e anche stavolta mi ha dato ragione: tre anni fa, la stessa testata online aveva pubblicato uno scritto molto simile, Perché Amélie è stata la rovina di una generazione di ragazze. Virgoletto per trasferire senza fraintendimenti quanto postulato dall’autrice: «Velleità pseudo artistiche, passività sessuale, vacuità e conversazioni con sconosciuti fondate su pregiudizi e antipatie istintive: questo è il retaggio de Il favoloso mondo di Amélie nella mia generazione». Anche meno, no? Buttata giù così, mi viene quasi da simpatizzare con Amélie Poulain (Audrey Tautou con fossette in bella mostra) giusto per non assecondare la suscettibilità delle attiviste postmoderne, poi ci ripenso un attimo e mi dico: «No, dai».
Il film di Jean-Pierre Jeunet, per festeggiare i vent’anni dal suo fortunato debutto, ritorna sul grande schermo per due giorni, l’11 e il 12 maggio: un’occasione perfetta per andare al cinema, per ricordare che pure i buoni film possono avere protagonisti odiosi e per esercitare l’antica e perduta arte della distinzione. Distinguere un film a livello complessivo dal suo protagonista principale – questo l’ho già detto – ma pure distinguere le epoche e i contesti. Amélie Poulain è stata creata nel 2001, vive nel 2001, si rivolgeva a spettatori calati nella realtà del 2001, il mondo era quello del 2001: mi rendo conto per alcuni sia uno sforzo immaginifico enorme, ma leggere una qualsiasi opera con gli occhi dell’adesso non è solo fuorviante, è profondamente e fastidiosamente sbagliato.
Il favoloso mondo di Amélie è un film bizzarro e spesso divertente; Parigi è splendida con le sue atmosfere un po’ fiabesche e un po’ in stile videoclip; i colori sono saturi al punto giusto, con quella patina leggermente giallognola che fa tanto nostalgia, malinconia, fisarmonica, Parigi (daje), amore, eleganza, vive la France! E su questo non ci piove. Poi c’è lei, Amélie Poulain, taglio di capelli a scodella con frangetta basca incorporata capace di ammazzare chiunque tranne Audrey Tautou (non gliene faccio una colpa, devo ancora perdonare la Winona Ryder di Giovani, carini e disoccupati) e una grande passione per la crème brûlée. Noi comuni mortali, dal canto nostro, la chiamiamo crema catalana, rompiamo la sua crosta con la punta del cucchiaino come lei c’ha insegnato e al terzo boccone siamo puntualmente stomacati.
Ecco, Amélie Poulain forse è proprio come la crème brûlée: l’idea è appetitosa, confezionata in maniera divina, eppure una volta assaggiata risulta indigesta quasi subito, stomachevole da quanto è stucchevole. In una parola: insopportabile. Per noi ragazze ai tempi – intendo nel 2001 – ventenni, che ambivamo ad apparire più navigate di quello che effettivamente eravamo, sessualmente disinibite, risolute e con la cazzimma, Amélie Poulain era la classica gattamorta. Anzi, una gattina-morta. L’acqua cheta rovina i ponti. Tutto ciò che, insomma, noi non volevamo essere: ecco perché la odiavamo. Siamo state “rovinate” da Amélie Poulain? Ma fatemi il piacere, suvvia.
Non sono diventata la donna che sono oggi né grazie ad Amélie Poulain né a causa di Amélie Poulain; allo stesso modo, non sono diventata la donna che sono oggi né grazie a Carrie Bradshaw né a causa di Carrie Bradshaw. Continuo a nutrire per entrambe la medesima antipatia che nutrivo vent’anni fa – crescendo, ehm, invecchiando, pure voi avete incominciato ad apprezzare Charlotte? O sono soltanto io? – che probabilmente a lungo andare s’è affievolita, ché di fantasia si tratta, e prendersela con la fantasia è uno spreco d’energie.
La mamma devota di Amélie che fuori dalla chiesa muore schiacciata da una suicida; il nano da giardino del padre che gira il mondo in vacanza; tuffare la mano in un sacco di legumi; il pesciolino rosso con tendenze suicide. Dall’altro lato, la collezione di Manolo Blahnik a fronte di una rubrichetta sul New York Star; le gambe nude e gli outfit scollacciati quando il termometro segna meno quindici gradi; l’appartamento ad affitto bloccato a New York; lo zoo maschile di uomini che viene collezionato lungo sei stagioni. Nulla è vero, tutto è finzione, e nessun essere umano dotato di senno può rimanerci sotto: se tanto mi dà tanto, allora la massima aspirazione delle ragazze a cui nel 1990 toccò in sorte Pretty Woman avrebbe dovuto essere trasformarsi in prostitute in attesa di un milionario che le raccattasse dalla strada.
Non la difendo, Amélie Poulain, sia chiaro: insopportabile era ed insopportabile è rimasta, ma lo sguardo più distaccato che il tempo m’ha regalato si sta rivelando un toccasana: riesco a rivedere anche film che in passato ho detestato, incazzandomi di meno, non facendone per forza a una questione di principio e godendomeli un po’ di più. Lo scrivo sottovoce: non è una cosa meravigliosa, la vecchiaia?