Alla fine dell’anno scorso VV si faceva domande pesanti sul suo futuro. Dopo avere autoprodotto una serie di pezzi incisi a casa e pubblicati in streaming, aveva esordito in piena pandemia per Maciste Dischi con una canzone intitolata Il giusto. Era stata apprezzata, lodata, intervistata, ascoltata. Con la pandemia là fuori, che cosa sarebbe stato di lei? Pubblicava musica, ma chi l’ascoltava? Gli arrivavano sì messaggi da fan e colleghi, ma l’immobilità rischiava di diventare paralisi. Chiusa in casa, seduta alla postazione di lavoro dove nascono gran parte delle sue canzoni, si chiedeva: la gente mi capirà? Privata della possibilità di fare concerti e di pubblicare il suo album, piena di domande per la testa, si sentiva sola e in preda alla paranoia. «Mi sembrava di gridare davanti a un muro».
VV ha reagito scrivendo una canzone. Si chiama Paranoie e rappresenta bene la dualità della sua musica: il ritmo è allegro, il testo racconta una crisi profonda. È una storia tipica per VV, nome d’arte di Viviana Colombo (trovate qui la sua storia), trentenne. Lei è una che pensa tanto, qualcuno particolarmente istintivo direbbe che pensa troppo. «Sono fatta così. Voglio scoprire delle cose e buttarle fuori». Il risultato di questa ricerca sono canzoni a volte laceranti, altre volte buffe e autoironiche. «Sono i due modi che uso per affrontare il malessere». Una volta mi ha detto: «Sono una drama girl che scrive per ridimensionare le cose». Direi anche per capirsi, per conoscere se stessa e il mondo.
La musica di VV ha a che fare con la costruzione dell’identità. Vale per le sette canzoni che ha pubblicato dall’autunno 2019 alla primavera 2020. Abbinate a un numero progressivo, da Moschino_01 a La distanza_07, erano il documento senza filtri del tentativo di una giovane autrice di trovare un proprio linguaggio e una propria voce seduta di fronte a una stazione di lavoro, nel salotto di casa a Milano. Il discorso sull’identità vale anche per il nuovo EP digitale Verso che esce oggi e raccoglie le quattro canzoni pubblicate nell’ultimo anno più due inedite. Pur essendo molto diverse fra di loro, hanno a che fare con la necessità di trovare uno spazio nel mondo, di affrontare i conflitti, in definitiva di stare bene.
Ho chiesto a Viviana di VV-sezionare Verso canzone per canzone. L’EP è prodotto dal team composto dal fratello della cantante, Giordano Colombo, e da Federico Nardelli, produttori tra le altre cose di Musica leggerissima di Colapesce e Dimartino. «Verso è il titolo di una canzone che poi non è entrata nell’EP. Mi piace perché è una parola che ha tanti significati: verso come direzione, voce del verbo versare, il verso di una canzone, il verso da cui puoi vedere le cose, il verso come smorfia». Come quella ritratta in copertina, col viso di VV deformato da un vetro. «È liberatorio mostrarmi così, essendo donna e quindi giudicata in base all’aspetto più degli uomini. Voglio che mi vediate non abbellita dal trucco: presa a sberle dalla vita, come nelle mie canzoni».
Ecco, in un mondo di aspiranti popstar instagrammabili, VV canta la vita che la prende a schiaffi. Anche lei sarebbe instagrammabile e in un’altra vita, sette anni fa, ha cercato di adeguarsi a un modello ideato da altri partecipando a due edizioni di The Voice. Ora ha smesso di compiacere gli altri. Di utilizzare i social in modo intensivo non le va e difatti il suo profilo Instagram è pieno di foto buffe e tranci di pizza. «C’è tanta musica che strizza l’occhio alle mode del momento e cerca di inserirsi nel flusso incessante di canzoni che si consumano nel giro di pochi giorni. L’imperativo è continuare a postare e mettere qualcosa di te nei social. Lo trovo alienante. Io ho fatto una scelta. Mi sono detta: sii sincera, sii fedele a te stessa. Se sei così, se sei un po’ esistenziale, tiralo fuori».
Ecco come l’ha fatto.
Oh no!
Se fossimo alla fine degli anni ’70 o all’inizio degli ’80, un periodo a cui musicalmente VV un po’ si rifà, Verso sarebbe un 12 pollici diviso in due lati: sul lato B tre «ballatone lacrimone», sul lato A tre canzoni leggere e ritmate, storie di disavventure sentimentali e domande esistenziali rese buffe da suoni giocosi e immagini sorprendenti. «In Oh no! c’è proprio una gag. Racconto di volermi allontanare dalle persone che non sento più vicine facendo il moonwalk di Michael Jackson. È un modo per dire a me stessa: allontanati dalle persone con cui non sei in sintonia. A volte la sofferenza diventa una scusa per non stare bene, per restare lì a galleggiare. E invece bisogna fare delle scelte. In queste canzoni lo dico a me stessa: sii coraggiosa, non struggerti nel dolore, vai avanti. Dalla sofferenza si può uscire». È in lavorazione un video: ci sarà il moonwalk? «No, ma giuro che lo so fare».
Paranoie (feat. Memento)
Quelle di VV sono canzoni col doppio fondo. Quella dai suoni più vividi e funkeggianti nasconde forse la storia più cupa. «Una giornataccia. C’era il lockdown. Non si potevano fare concerti. Non si poteva fare uscire il disco. Per liberarmi da quell’angoscia ho pensato di scrivere un pezzo ritmato e allegro, come quando esci con gli amici per tirarti su. Ma non ce l’ho fatta fino in fondo, non sarei stata sincera. Il groove è funky, ma il testo up proprio non mi veniva. Mi sono detta: oggi ho le paranoie, lo voglio mettere nella canzone. A fine giornata ero felicissima: la frustrazione si era trasformata in qualcosa di buono».
Pizzaboy
Il gusto per il dettaglio preso dalla quotidianità: il pizzaboy che suona alla porta e interrompe un litigio. «Questo è un po’ l’inno alla quotidianità, ma sogno di riuscire un giorno a fare una canzone più larga, universale». Pizzaboy è un tre quarti pieno di suoni giocosi, un po’ instabili, pulsanti. «L’idea che sta dietro a molte di queste canzoni è usare strumenti analogici e trattarli facendoli sembrare digitali. Anche se oggi puoi fare tutto con i plug-in, c’è un calore diverso anche solo nel girare una manopola. Magari trovi una piccola oscillazione che la macchina non riprodurrebbe, oppure vai lievemente fiori dalla griglia tipica della programmazione digitale. Provo il bisogno di avere un rapporto fisico con gli strumenti, anche di stare un po’ scomoda a scrivere e suonare. I limiti possono diventare opportunità».
Collirio
«Se riesci ad arrivare a metà, nel finale ti uccido», ride VV a proposito delle canzoni della seconda parte dell’EP. In Collirio lo struggimento diventa addirittura cosmico, con echi di Radiohead. Si canta la fine di un amore tossico. Perché l’acquario citato nel testo? «Perché il mio ex era un nuotatore. La musica trasfigura vicende piccole, banali, quotidiane e le trasforma in storie universali. Io poi sono tormentata, sento il peso del vivere, mi faccio tante domande. O ci rido su o mi struggo». Qui si strugge. Certe canzoni sono più grandi delle storie che le hanno ispirate.
Il giusto
Dove si capisce che VV s’è formata ascoltando certe voci. «Di Loredana Bertè, Gianna Nannini e Mia Martini ho sempre amato il graffio nella voce. Esce una delicatezza, una dolcezza legata alla sofferenza che hanno vissuto. Sono taglienti e dirette. Le ho ascoltate tanto. Forse nasce da lì l’idea di trovare nella mia voce una verità». La canzone parla dell’accettazione di sé e della ricerca dell’equilibrio che ci fa stare bene, che a pensarci bene è il tema di tutto l’EP. Nel ritornello c’è un’immagine incomprensibile e bella: “Mi sento come una città in un bosco, al verde”. È uno dei tanti episodi di scrittura automatica di VV. «Mi capita di continuo di improvvisare i testi. Non mi metto freni. Non cerco la linearità. Quando mi accorgo che sto diventando didascalica, lascio stare. Le espressioni spontanee sono quelle vere. Sono immagini che stupiscono anche a me. Mi aiutano a capire come sto. Forse è per questo che scrivo canzoni».
Non ti vedo più
«Accoltellami che fa meno male» è uno dei commenti sotto un breve video Instagram di VV che canta Non ti vedo più, una ballata per chitarra acustica e… interferenze spaziali. È un dialogo fra la VV trentenne e la VV suppergiù tredicenne. Il ricordo della ragazzina che è stata svanisce ed è naturale ed è triste. «Avevo il bisogno di dire addio a una parte di me. Oggi faccio la vita che sognavo, ma un po’ provo nostalgia per l’adolescente che ero. La sento svanire e le dico: aspetta un attimo, non andare via subito».