L’anno scorso dicevamo che Margherita Vicario andava presa sul serio come cantante. Nel senso: la musica non era più parte minore della sua vita fra fiction su Rai 1 e film, e lei non era semplice artista della domenica; stava diventando interessante, stava trovando una voce propria. Dodici mesi dopo, possiamo dire di averci visto giusto: ha pubblicato pezzi di successo tra cui l’ultimo Come va, è diventata un personaggio ancora più popolare, e la vita e gli studi da attrice non minano più la credibilità del suo progetto. Anzi, sono una risorsa: è istrionica e attenta all’immagine, fa canzoni in cui spesso “recita”, le scrive come fossero sceneggiature; e, soprattutto, lo fa solo lei, la riconosci.
Ne viene fuori un ibrido (da ascrivere nell’it-pop) fra cantautorato e pop con gli strass, zeppo di messaggi inclusivi, di femminismo, di ironia. Che oggi trova punto d’arrivo in questo Bingo, il suo nuovo album che raccoglie due anni di singoli e altri inediti. È il secondo disco della sua carriera, il primo da questo nuovo inizio con Davide DADE Pavanello come co-autore e produttore. Viene solo da chiederle, per un’artista che ha costruito e anche bene la propria identità con due anni di brani isolati, cosa se ne faccia di un lavoro di 14 tracce. «È comunque fondamentale da fare», mi dice. Ovvero, «avere il vinile fra le mani, con dentro tutta la tua musica, è sensazione impagabile. Così come sapere che rimarrà a casa di chi se lo compra. Esempio: il Kindle è meraviglioso, ma vuoi mettere una libreria piena?».
Ci sta. E poi?
E poi mi piace l’idea di album che corona più di due anni di lavoro. Infatti al momento ne sono contentissima.
Nel singolo che di fatto lo lancia, Come va, però ti descrivi piena di guai.
L’ho scritta in un momento in cui ero stanca e incazzata. Parla dell’ultimo anno, fra coprifuoco, pandemia, distanziamento. Relazioni sociali ridotte all’osso. L’aspetto terribile è che sono finite in secondo piano, al contrario del lavoro che non si è mai fermato. Ho una manciata di persone con cui mi sento al telefono, con cui chiediamo, appunto, come va. La canzone è un modo per snocciolare quel mio stato d’animo a me stessa. Lo stato d’animo di un momento difficile, dopo un anno di pandemia.
Come l’hai vissuta?
A livello professionale bene. In estate ho fatto 30 concerti, sono figlia dell’oca bianca in questo senso (ovvero una privilegiata, ndr). Però a livello personale perdo rapporti e mi spiace. O meglio: so che rimarranno, però sento che con la pandemia ci siamo allontanati. Resistono solo le amicizie più solide. Il lockdown del 2020 era stato paradossalmente un’occasione per ritrovarci seppur online. Ora ci ha stancato persino Zoom.
Rispetto all’anno scorso, quando in lockdown avevi presentato Pincio, direi che il tuo personaggio è cresciuto ancora, e tanto. Anche a livello di numeri.
Proprio perché ho continuato a lavorare coi singoli: far uscire un pezzo alla volta significa dedicare attenzione anche all’aspetto visivo, ai video, all’estetica; e questo tipo di lavoro ti fa crescere come progetto, ti permette di mostrare nel dettaglio tante parti diverse di te. Poi l’aver suonato parecchio in giro, in un’estate in cui sono stata una delle poche, mi ha permesso di instaurare un certo rapporto con gli altri. Sono stata una piccola consolazione. C’è chi ha visto solo il mio concerto (ride). E col pubblico ho vissuto ogni live come fosse l’ultimo.
Qual è il tuo pubblico?
Un pubblico da sempre trasversale. Già dai primi tempi avevo notato signori di settant’anni fra gli spettatori, e mi fa piacere. Recentemente, direi pure molti bambini. Soprattutto, però, credo di avere un target su cui vado davvero forte, cioè le studentesse universitarie del primo anno, quelle che si affacciano appena sulla vita adulta. Non ci sono statistiche di Instagram che lo dimostrano, ma in direct mi scrivono spesso per ringraziarmi.
Perché?
Probabilmente perché il mio materiale di scrittura le riguarda. Nelle canzoni mi travesto, recito, racconto situazioni. Ma quando scrivo parto sempre da me. Sono una cantautrice. L’input è sempre il mio stato d’animo, un pensiero, un momento che vivo o che vedo. E, in quanto donna giovane-adulta più grande di loro di dieci anni, mi percepiscono come una sorella maggiore. Perché ho i loro stessi problemi, ma comunque ci sono anche già passata.
Tra l’altro, finalmente tu e altre colleghe state sdoganando la figura della cantautrice nel pop. In Italia, a lungo siamo andati avanti con donne che erano solo interpreti, per di più di pezzi scritti da maschi.
Se penso al cantautore è maschio per definizione, sì. Di uomini che scrivono e cantano ne è pieno: sono più delle donne, l’immaginario collettivo è più legato a loro. Se guardo al passato, mi viene in mente Carmen Consoli, poi poco altro. La chiave per quelle come me credo sia stata Levante. La sua determinazione, la sua grinta. È andata a Sanremo con un pezzo scritto tutto da lei. E ciò non dovrebbe suonare come eccezionale, intendiamoci. Ma ammetto che forse l’industria musicale non era abituata a una cosa così. Per esempio in Come noi (una delle canzoni del disco, nda) mi ripeto, da sola, “il poeta sono io”. Nel senso: posso essere anch’io poeta, non esistono solo i grandi poeti uomini. Me lo “auto-affermo”, la canzone serve a quello.
Nell’ultimo anno hai fatto anche cinema?
La musica si è congelata, ma cinema e tv non si sono fermati. Pure perché Netflix, in lockdown, ce lo siamo visti tutti. E io sì, in questi mesi ho girato una serie con la Rai. Ma non ho mai considerato la musica un hobby. Anzi, ora che ho una squadra con cui lavoro bene, che mi valorizza, le ho dato persino la precedenza.
Te l’ho chiesto perché il lato di attrice sembra sia diventato ormai la cifra della tua musica, non più un limite.
E mi fa piacere. È questione di scrittura, credo. Dal punto di vista stilistico sono soddisfatta quando mi immagino una scena, un dialogo, un personaggio. Ma anche perché ho fatto l’Accademia europea di arte drammatica, studiato teatro, letto tantissimi testi in merito. E ora penso di aver trovato una voce. Che è fondamentale per andare avanti, per rendere questa passione un lavoro. Se ti scrivono una mega-hit e in un mese diventi famosissimo… secondo me non dura. Chiaro, tutti sogniamo i dischi di platino. Ma serve costruire con pazienza, mattone dopo mattone. E in ogni caso è diverso fare l’interprete di pezzi altrui dallo “scriversi” da sé il proprio percorso.
Quindi Margherita Vicario, nel pop di oggi, cosa rappresenta?
Mi sento coerente con me stessa. E, per questo, rappresento una libertà espressiva che sa adattarsi ai canoni. Ho sempre voluto fare pop, voglio fare pop. Con DADE abbiamo lavorato da subito a un sound nostro, che potesse trasformarsi di volta in volta e al tempo stesso mantenere continuità. Dal 2019, con Abaué (Morte di un trap boy), siamo andati a sperimentare. Mi piace far ballare le persone, mettere in scena quel tipo di concerto. Al tempo stesso, però, se devo dire una qualcosa, se devo mettere un mio pensiero in una canzone, lo faccio. È giusto che ci sia un messaggio.
Infatti in Bingo ritornano tanti temi ricorrenti: il primo, i soldi.
In realtà che ci fossero dei temi ricorrenti, e che fossero poi quelli, l’ho capito all’ultimo, ascoltando il disco finito. Sono finiti dentro in maniera spontanea, ma questo la dice lunga. E parlo spesso di soldi. Ma in generale, adesso se ne parla proprio tanto nelle canzoni. Per cui, chiaro, sicuramente c’è chi pensa di far musica solo per soldi. Ma anche il peggior ostentatore di macchine, per me, ha dentro l’esigenza di fare musica, se la fa. Il problema, semmai, è che i soldi sono diventati il principale punto di arrivo nella vita di molti, senza generalizzare. E per carità: non sto dicendo che si sta meglio senza. Il discorso è diverso.
Cioè?
Credo che questi valori siano un riflesso del mondo che viviamo. Come ti dicevo: hanno chiuso le scuole ma non le fabbriche; di che parliamo? Siamo dentro una società neoliberista, consumista. E di conseguenza i soldi sono un valore fondamentale. Anche nei brani che ascolto, che mi piacciono. Il “disco d’oro”, il “fare soldi”, il “cash”. E in parte ossessionano anche me, in quanto giovane donna che vuole la propria indipendenza. Per non parlare del tiolo: Bingo, come quel luogo in cui si scommette, si cerca fortuna; e dove però la gente si ammala. L’ultimo anno ci ha insegnato questo, che il sistema è all’apice. Se penso a Cosmo agli Stati popolari… ero lì, sono d’accordo al 100%.
Poi c’è la religione. Un pezzo si intitola Troppi preti troppe suore.
So che è un parolone, ma è una canzone sulla secolarizzazione. Trovo assurdo, per un Paese laico, che la fede appartenga alla sfera pubblica e non a quella privata. Siamo pieni di preti e di suore, ma non mi riferisco ai sacerdoti o alle suorine, piuttosto a chiunque imponga un giudizio morale sulla vita degli altri. C’è una continua invadenza del pensiero religioso sulle nostre vite, quando in realtà a casa propria ognuno dovrebbe essere libero di fare ciò che vuole. Invece no, ciò comporta molti problemi. Per dirtene uno: bisogna addirittura lottare, per far sì che il ddl Zan venga approvato.
Un altro tema del disco è il femminismo, che non va d’accordo con la religione.
In Troppi preti troppe suore faccio recitare a un coro di bambini “lasciate in pace mia madre”. Con tutta la storia del peccato originale… Dai. È il mio modo di parlare, in maniera leggera, di cose che influiscono sulla vita di tutti. Perché anch’io, a 16 anni, ho passato la notte a girare tutte le farmacie per cercare la pillola del giorno dopo. Non è essere politici a priori, è un punto di vista personale; ma questi retaggi influiscono sul quotidiano di tutti.
Nel dubbio, in Orango tango dici di voler organizzare un Family day “senza preti e massoni”.
Piuttosto “pieno di trans e di gay che cantano Happy day“, sì (ride). Che dire: la pandemia avrebbe dovuto mettere in moto le parti più dinamiche della nostra società, aprendo a investimenti sulla scuola, sul futuro, invece siamo ancora fermi a manifestazioni del genere.
Che Paese vedi?
Un Paese diviso. Ci sono i sentinelli, e chi scende in piazza per il saluto fascista – per fortuna molti meno, il problema è che ci stanno. C’è chi guarda Barbara D’Urso, e chi non la può vedere. Anche se i social stanno facendo un po’ un mischione, rendendocela digeribile con la chiave trash. Però dall’altro lato, sempre i social, hanno anche polarizzato le nostre opinioni. E sono tossici. Perché in parte sono una realtà virtuale, quindi piena di troll; ma dall’altra anche un qualcosa di strettamente connesso alla nostra vita, con persone che esistono realmente e credono di essere lì per odiare senza conseguenze. A volte leggo cose deliranti: sotto il video di Giubbottino, per esempio, uno aveva scritto che da quando noi donne parliamo di sesso “facciamo tutte schifo”. Poi però ci sono cose che fanno male anche a me che ho spalle larghe; immagino chi non ha strumenti, che brutta fine possa fare.
Per chiudere, estate in arrivo: tour?
Doppio. Porto in giro Bingo, con la formazione dell’anno scorso. E poi suonerò, come già al Primo Maggio, con l’Orchestra Multietnica di Arezzo in uno spettacolo in cui sarò sia attrice che cantante. Recuperiamo un po’ di biografie da Storie della buonanotte per bambine ribelli: 100 vite di donne straordinarie e le musichiamo. Dentro quel libro ci sono storie pazzesche. Una su tutte: una ragazza etiope, del 1984, che per prima ha sviluppato un sistema di riconoscimento facciale per persone coi lineamenti non caucasici. Stiamo entrando nell’era dell’inclusione. Ci sono tante diverse realtà. E un palco, almeno per me, serve anche per raccontarle.