Non so di preciso quando è cominciato. Se a otto anni, nella solitudine di un confessionale – in vista della prima comunione – invitata dal prete a confessare i miei peccati. A otto anni. I miei peccati. Dato che non avevo insultato, prevaricato, ferito o ucciso nessuno, m’inventai una balla: m’inventai che avevo detto delle bugie a mia madre, il che a ben pensarci è una matrioska di balle, una meta-balla. Ero piccola, eppure avanguardista.
O forse a undici, durante il catechismo pre-cresima, il giorno che domandai alla suora con che logica i primi sarebbero stati gli ultimi e gli ultimi sarebbero stati i primi. Mi spiego meglio: e se gli ultimi fossero ultimi perché fannulloni, mentre i primi fossero primi perché persone in gamba che si sono rimboccate le maniche? Qual è il senso? Mi rispose che non funziona così, e che avrei capito col tempo. Sono passati quasi quarant’anni, ma non ho ancora capito.
Probabilmente è stata la questione del pentimento, la volta che chiesi alla stessa suora se – Barabba docet – uno può comportarsi malissimo tutta la vita, fingere di pentirsi in punto di morte e andare in paradiso. Cioè, se fino a ieri sei stato una merda umana, come faccio a essere sicuro che adesso tu sia sincero? Non dovremmo preoccuparci meno del paradiso, della vita eterna, e più di quella terrena? La risposta fu identica alla precedente: non funziona così, col tempo capirai. Anche in questo caso, non ho ancora capito.
Non so di preciso quando è cominciato, insomma, ma so che non capire m’innervosisce. E mi pone di fronte a una specie di dilemma etico: non capisco in quanto scema, o non capisco in quanto ciò che sto cercando di capire è la cosa più distante da me che esista? Esempio banale: la matematica. I numeri non li capisco, non li capirò mai: io sono qui, e i numeri stanno a milioni, miliardi di chilometri. Con la religione cattolica è il medesimo copione: non la capisco, non ci credo, non sono d’accordo. E non si tratta solo di una totale avversione all’istituzione: sono avversa a qualsiasi cosa riguardi il cattolicesimo, fatta eccezione per alcune chiese – tipo Santa Maria dei Servi a Bologna – che architettonicamente mi piacciono moltissimo.
Il battesimo è stato, come per un buon novantanove per cento dei cattolici, una scelta non mia. Le vie dell’inferno sono lastricate di buone intenzioni, e non ho dubbi che agli occhi dei miei genitori un po’ d’acqua non avrebbe costituito un grosso problema. Peccato che, con l’andare degli anni, per me lo è diventato: il battesimo decreta la mia, la nostra appartenenza alla Chiesa cattolica, e la Chiesa cattolica è l’ultimo club a cui vorrei appartenere. M’infastidisce anche soltanto l’idea di farne – formalmente – parte: per una questione di coerenza, di libertà personale, d’emancipazione. «Ma che ti frega?», commentavano i miei amici, e per un po’ ho dato retta a loro: già, che mi frega?
La mia contestazione nei confronti della religione cattolica l’ho espressa rifiutandomi di andare a messa; di seguire l’ora di religione a scuola; non donando mai l’otto per mille alla Chiesa cattolica; sostenendo la scienza, la netta e reale separazione tra Stato e Chiesa, i diritti inalienabili – aborto, divorzio, eutanasia, maternità surrogata, ricerca sulle staminali, matrimoni gay eccetera eccetera – contro i quali i cattolici combattono.
Non di rado ho accarezzato l’ipotesi di sbattezzarmi, ma il mostro della pigrizia aveva sempre avuto la meglio. Almeno finché, galeotto un pranzo da amici e una conversazione a tema religioso, uno dei padroni di casa mi inoltra una mail dall’oggetto inequivocabile – “Sbattezzo” – assicurandomi che «è più semplice di ciò pensassi». Apro una parentesi: nel 1995 l’Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti ha intrapreso un’iniziativa per il riconoscimento legale della volontà di non essere più considerati cattolici, che nel 1999 ha avuto parziale successo grazie alla normativa sulla privacy.
Scrivo “parziale” non a caso: non è possibile richiedere la cancellazione della registrazione dell’avvenuto battesimo poiché l’evento si è verificato; è però possibile richiedere che sia annotato, sul registro dei battesimi, che non s’intende più aderire alla Chiesa cattolica (e dunque non “dare” alla Chiesa cattolica i 5 euro annui circa che corrispondono a ciascun battezzato). In soldoni, basta conoscere la parrocchia presso cui si è stati battezzati, inviare una raccomandata con una comunicazione standard scaricabile sul sito dell’UAAR, allegare una copia fronte retro del proprio documento d’identità e munirsi di pazienza. L’apostasia è un diritto (leggi: nessuno può rifiutarsi di sbattezzarvi) ma anche un peccato mortale, e la Chiesa non rinuncia alle sue pecorelle a cuor leggero.
Diversi giorni dopo la spedizione della raccomandata, mi chiama un numero sconosciuto: con la testa da un’altra parte, non m’accorgo che il prefisso non è di Milano, bensì di Bologna. Per i primi minuti sono convinta si tratti di uno scherzo, e invece no: è il parroco della chiesa dove sono stata battezzata, che vuole indagare le motivazioni della mia decisione. Si sente che è anziano, è gentile, non voglio infierire ulteriormente: «Guardi, non sono tenuta a dare chiarimenti», taglio corto. Lui soffre, mi confessa, ogni volta che si trova di fronte a una situazione simile: «Lo capisco, sa? Voi mi spiegate che eravate troppo piccoli, che non è stata una vostra scelta, ma che significa: lei da piccola ha accettato il latte materno, poi non è che da grande l’ha disconosciuto». Ma che c’entra, replico, «se non prendevo il latte materno morivo, scusi tanto, che razza di paragone è?».
Sia fatta la mia volontà: del cielo non m’interessa, della terra sì. Lui promette e non mantiene, passano le settimane e non ho più notizie, lo chiamo e si giustifica adducendo a una presunta perdita della raccomandata. «Non la trovo più, mi dispiace». Sapesse a me. Decido di investire 9 euro e 90 centesimi in una raccomandata a/r urgente, con prova di consegna e qualsiasi rassicurazione acquistabile con quasi 10 euro: ricevo indietro il talloncino firmato, stavolta non esistono scuse. Prendo a controllare la buchetta della posta ogni sera, nella speranza di ricevere l’agognata conferma: «Non sei più dei nostri, ora brucia tra le fiamme dell’inferno. (Ah no giusto, non ci credi, quel dommage. Vabbè, brucia e basta»).
La Chiesa cattolica a questo punto si gioca l’ultima carta: una lettera da parte dell’Arcidiocesi bolognese, in cui il Vicario Generale mi offre due settimane per discutere insieme «le ragioni di questa scelta, che per la sua importanza non lascia indifferenti, suscita riflessioni e domande, e non si riduce a un fatto puramente burocratico». Stessa situazione di quando cambiai operatore telefonico: all’improvviso ero diventata importante, fondamentale, target prediletto di una serie di sconti, minuti, giga «esclusivamente riservati a te». Ciò che sfugge al Vicario Generale è che non voglio le sue due settimane, non ho la benché minima intenzione di tornare sui miei passi, e soprattutto non ho la benché minima intenzione di argomentare le mie ragioni con un perfetto sconosciuto. Ti voglio lasciare, non t’amo più, anzi, non t’ho mai amato, non ha senso portare avanti questa relazione.
Ormai con la pazienza ridotta ai minimi termini, gli mando una mail declinando l’invito e invitandolo a mia volta a dare un seguito alla mia richiesta «immediatamente, senza dover attendere altri inutili giorni». Ed è così che – dopo due mesi, quando in realtà sarebbero sufficienti due, quattro settimane al massimo – di lì a poco il mio sbattezzo diventa effettivo: non sono più un membro del club dei cattolici, e (perdonate la facile battuta) mi sento da dio.
Cos’è cambiato? Niente, eppure tutto. È una strana sensazione, un misto di leggerezza, sollievo, soddisfazione, rivincita, come se un’invisibile lettera scarlatta fosse stata scucita dal bavero. Alla fine me ne è fregato, sono andata fino in fondo e se tornassi indietro rifarei ogni cosa daccapo: oggi ho pure deciso di andare un attimo in chiesa, in un certo senso per congedarmi, e indovinate un po’? Non solo non ho preso fuoco, ho pure fatto un’offerta: due euro per i francobolli, a mo’ di risarcimento. Apostata, sì, ma poveraccia mai.