Non è da tutti rimanere sulla cresta dell’onda per oltre cinquant’anni. A Vince Tempera è riuscito: non ha mai smesso di guardare avanti ed è sempre stato attento a rinnovare il proprio linguaggio, cercando di uscire dalla stantia mentalità italiana in fatto di musica pop. D’altronde ha prodotto mezza Italia (l’elenco degli artisti è sterminato), le sue idee sono state “scippate” a destra e a manca e con le sue sigle televisive ha cresciuto i ragazzi del futuro.
Ed è parlando anche di futuro che ci confrontiamo in questa intervista: cosa resterà di questi anni ’20 e cosa è rimasto dell’eredità dei “profeti” musicali di una volta? Ve lo dicono le parole di una leggenda che ne ha viste di cotte e di crude: e sono senza dubbio illuminanti.
Maestro, inizierei parlando del fatto che sei stato uno dei primi a portare la trasversalità musicale nel pop, con i Pleasure Machine. Cosa rappresentarono per te?
Guarda, ti racconto la storia precisa. Io comincio a lavorare nel 1967. Ho un contratto per due anni con la Ri-Fi Records. Aveva sia gli studi, sia la casa discografica di Iva Zanicchi e Fausto Leali, oltre a distribuire in Italia i dischi dell’Atlantic Records, che era l’etichetta di Wilson Pickett e Otis Redding. Io scrivevo gli arrangiamenti e facevo lo “schiavetto” di famosi direttori d’orchestra italiani dell’epoca, come Gianfranco Intra, Ezio Leoni. Perché si comincia così, fai esperienza, no? T’insegnano sul posto il lavoro, ti dicono fai così e tu impari. Nel frattempo avevo un’altra attività: accompagnavo nelle sue serate quella che all’epoca era una cantante, cioè Carmen Villani. Era la cantante di Trovajoli, la cantante fissa di Bacharach quando era in Italia. E tramite Carmen che è di Modena conosco due ragazzi di Ferrara: mi dice «sono ottimi». Erano Ellade Bandini e Ares Tavolazzi. Ci conosciamo, perché accompagnavamo insieme in tournée la Villani, e gli propongo di mettere su un gruppo di cui avevo in testa il nome, i Pleasure Machine.
In pratica da lì è nato il solido nucleo che poi accompagnerà Francesco Guccini e altri…
Sì, esatto. Poi io vivendo a Milano li ho portati a registrare in una sala d’incisione, dove loro non avevano mai messo piede. E così incomincia l’avventura di tutti e tre. Il primo album è strumentale. Suono il pianoforte, seguivo molto i pianisti inglesi, americani, sia rock sia jazz. E infatti devo dire che l’impostazione di quell’album – a causa della bravura dei due elementi nuovi – era originalissima. Ellade Bandini suonava la batteria in un modo che i batteristi di allora non conoscevano. Loro suonavano solo il beat, Bandini invece aveva arricchito il beat con il rhythm & blues e con molto altro, era un innovatore dello strumento. E Ares allo stesso modo al basso non era un semplice accompagnatore, come all’epoca si faceva. Il basso era l’ultimo strumento che veniva suonato, lui invece riusciva ad armonizzare col basso anche le canzoni, gli accordi. Era molto vicino al modo di suonare dei Bee Gees dell’epoca: a metà strada tra Paul McCartney e i Bee Gees, un basso cantabile. Non era rock, ma era misto. Abbiamo creato una nuova sonorità: noi tre abbiamo registrato – io ho scritto le musiche – la prima opera rock in assoluto in Italia, ovvero Terra in bocca dei Giganti.
Nei quali però all’epoca non c’era neanche un membro originale, giusto?
No, attenzione, lì i Giganti c’erano tutti e quattro. La questione era che Papes non suonava la batteria, la suonava Ellade. E il basso non lo suonava Sergio Di Martino, ma Ares. Cioè a parte Mino De Martino che aveva scritto le canzoni, gli altri sono tutti arrivati dopo. Mino provava le voci, era il vocalist dell’opera.
Com’è l’alchimia con Ares?
Beh, l’alchimia… lui ha preso una strada ben precisa dopo che l’ho portato negli Area. Con Lucio Dalla producevo la prima formazione degli Area e a un certo punto il bassista Patrick Djivas se ne va perché entra a suonare con la PFM. All’improvviso gli Area rimangono senza basso. Io telefono ad Ares perché sapevo che voleva fare altra musica, visto che in quel momento stava suonando in un’orchestra di dancing, di ballo liscio. Ho detto: «Ares vuoi entrare in questo gruppo domani?». Lui non ci ha pensato due volte e il giorno dopo è entrato negli Area.
Possiamo dire che l’hai influenzato musicalmente, che sei stato il suo mentore?
Ma io Ares l’ho sempre spinto e ammirato, un bassista geniale in tutti i sensi: lui ha fatto il conservatorio, sapeva armonizzare bene, ha imparato tutto quello che c’era da imparare, quindi era molto avanti rispetto ad altri bassisti che venivano dal night o anche dalle canzoni americane, cose abbastanza complicate certo, però rimanevano sempre sulle note fondamentali. Invece Ares ha sviluppato un altro modo di suonare il basso.
Nel mio libro Si trasforma in un razzo missile scrivo dell’importanza delle sigle italiane dei cartoni animati giapponesi e senza dubbio al primo posto ci sono gli Actarus, che sono stati gli Area di quando eravamo piccoli. Sei d’accordo che fosse roba molto avanti la vostra?
Sì, certo. Se risenti i lavori dell’epoca, sono innovativi.
Ricordo che ascoltai la sigla di chiusura di Goldrake, Shooting Star, e mi si aprì improvvisamente un mondo. È un brano pazzesco, future disco. Quel basso poi…
Lì c’è un pezzo che è Ufo Robot in cui c’è un modo di suonare il basso anche quando vengono gli incisi, con dei rivolti particolari sull’accordo che solo lui sapeva mettere. Il retro del disco di cui parli, Shooting Star, è una vera e propria lezione di basso. Se tu vuoi imparare il basso moderno, devi prendere quel pezzo e riuscire a suonarlo tutto dall’inizio alla fine.
Come lavoravate in studio? C’erano dei particolari segreti per ottenere quel sound?
Certo. Nel primo degli Actarus, c’era una big band jazz che era quella della Rai, con aggiunti Ellade alla batteria, Ares al basso e alla chitarra Massimo Luca, il chitarrista di Battisti. In più io alle tastiere avevo aggiunto l’Arp Odyssey: quelli sono tutti suoni che sembrano di Moog e invece non è il Minimoog, ma l’Odyssey della Arp, allora una marca alternativa al Moog. Perché l’Odyssey era duofonico, mentre il Moog era monofonico. Quindi potevi fare una quinta, due terze e così via, si poteva quindi ampliare l’accordo. Perché non c’erano ancora i polifonici, sono nati due anni dopo. Infatti se tu senti l’intro di Ufo Robot, quell’accordaccio iniziale è proprio l’Arp misto al piano Fender e al pianoforte normale.
Quindi fare queste sigle vi permetteva di essere liberi di sperimentare come altrimenti sarebbe stato forse impossibile.
Sì, certo, eravamo liberissimi, non ci inculava nessuno (ride). Non c’era nessuno che ci dicesse cosa dovevamo fare. Inventavo io e loro seguivano a ruota. Per esempio, tornando a Shooting Star, quello è un brano col quale molti bassisti hanno iniziato a suonare. I Subsonica per esempio: il bassista dichiaratamente ha detto che il basso l’ha approcciato con quel pezzo lì. E anche su un altro, dove non c’era Ares ma mi ero inventato io il giro di basso, ovvero Daitarn 3. È tutto un arrangiamento di basso quel pezzo, e anche da lì molti hanno studiato il basso. Quindi abbiamo sempre curato ogni registrazione nei minimi particolari.
Avresti mai pensato che queste sigle avrebbero allevato un sacco di giovani musicisti, sperimentali e non?
No, noi facevamo le cose perché ci piaceva farle e come venivano, venivano. E poi ancora adesso sono attuali. Per esempio, è uscita da una settimana la pubblicità di Mediaset e hanno usato Ufo Robot, cambiando il testo. Perché il camaleonte che vedi nello spot si chiama Ugo, quindi invece di fare Ufo Robot dicono Ugo Robot! Quindi dopo quarantadue anni ancora utilizzano ‘sta canzone. Vuol dire che è musica che resta.
Da solista invece hai fatto musica strumentale, ma di stampo prettamente internazionale, un crossover di stili. Ho sempre pensato che in un certo senso tu fossi l’Eumir Deodato italiano.
Ma guarda, io ho iniziato con un album che mi hanno prodotto i Pink Floyd su etichetta Harvest e s’intitola Art. E dentro c’era un brano, Il mio cane si chiama Zenone, un brano che poi ritrovi in un album di Radius.
Ah, quindi la prima versione registrata in assoluto è la tua!
Esatto, è uscito prima nel mio, perché l’avevo scritto io. Quello li è un album solo di pianoforte, un po’ alla Keith Jarrett. Cioè questo trent’anni prima che uscissero Allevi o Ludovico Einaudi, parliamoci chiaro. Da noi solo il cantante veniva considerato. Il resto non esisteva per la gente: quindi anche Nini Rosso quando fece Il silenzio che ha venduto milioni di copie, dovette inserire un parlato, un mezzo cantato sennò la gente non lo comprava. È stato sempre così, purtroppo.
E invece cosa ricordi della lavorazione di Temperix? Per me a distanza di anni rimane un picco della musica italiana.
Temperix è un disco di sperimentazione per me. Nel senso che cercavo delle forme differenti, non la musica da ascensore come si usava allora. Ma una musica un po’ più lavorata, sia con situazioni ritmiche sia armoniche sia sonore, insomma, soprattutto la ricerca del suono.
Un approccio che potrebbe ricordare la vaporwave di oggi…
D’altronde l’altro giorno stavo risentendo un primo Morricone, Per un pugno di dollari. Lui incideva alla RCA e utilizzava i suoni che costruiva in sala, con i fonici. Perché per costruire certi suoni ci vuole l’aiuto del fonico. Quindi c’era un po’ questa voglia di ricerca. Oltre a saper suonare dovevi anche saper usare le macchine. Questo era un po’ il concetto.
E invece riguardo al tuo rapporto da session man con la Numero Uno di Battisti-Mogol e nello specifico con Lucio Battisti?
È molto semplice. Sono stato sotto contratto per vent’anni con La Voce del Padrone/EMI che aveva gli uffici in Galleria del Corso a Milano. Due piani sotto c’era la Numero Uno e ogni tanto ci trovavi degli amici, c’erano Mario Lavezzi, Alberto Radius. Lì ci mettemmo assieme. Diciamo che tutto nacque dal primo disco di Radius dove c’era appunto Il mio cane si chiama Zenone che è un titolo che gli ha dato Lucio Battisti perché aveva un cane che si chiamava così, veramente. Quindi facemmo il disco con Alberto e poi lui disse: «Sai, sono stanco della Formula 3. Lucio ci terrebbe che facessimo un gruppo di progressive sperimentale».
E nacquero i grandissimi Il Volo!
Esattamente. A quel punto ci siam messi io, lui e Mario Lavezzi. Tony Cicco, che era il batterista della Formula 3, decise di andare via e firmò un contratto con la RCA da solista. Gabriele Lorenzi invece rimase. Ci mancava il bassista e infatti nella formazione i bassisti sono cambiati. Prima ce n’era uno di Genova, poi ne è arrivato un altro dalla Sicilia, non è che fossimo sempre con la formazione fissa. Solo noi quattro eravamo fissi. E nel primo album Mogol scrisse i testi. Lavoravamo al Mulino, una sala di incisione costruita dalla Numero Uno fuori Milano, e Battisti veniva lì a sentire, poi diceva «Ah bello questo suono di chitarra o di piano Fender, mo’ lo uso per il mio LP», E infatti incise Anima Latina e portò dentro quello che noi avevamo provato in sala.
Infatti, non molti lo sanno, in pratica ci suona Il Volo in Anima Latina, ed è quindi normale che il sound che si ascolta sia il vostro.
Sì, anche se in quell’album lì io non ho partecipato molto, perché con Lucio già prima avevo lavorato in Luci-ah su Il mio canto libero. E Lucio era abbastanza noioso, perché voleva rifare, rifare e rifare e alla fine ho detto: «Allora, se non capisci quando una versione è quella giusta, che è la numero tre, non farmi suonare dieci volte la stessa cosa, tipo rock o altre cose, perché è pesante da suonare». Quando ci fu da fare Anima Latina gli ho detto: «No guarda, io non vengo a incidere, fate quello che volete».
Quindi sei tu il fantomatico Gneo Pompeo alle tastiere citato nelle note di copertina…
Sì, Gneo sono io. Pensa che neanche sono andato a ritirare i soldi della registrazione di Il mio canto libero, come a dire: «Guarda, ho ragione io, tienti i soldi, non me ne frega niente». È stato un gesto un po’ guascone però l’ho dovuto fare. Il nostro lavoro non è sempre un problema di soldi, è anche e soprattutto un problema di idee musicali. Almeno io lo intendo così, altri no.
Una delle grandi innovazioni che Lucio vi ha “scippato” in Anima Latina è quella cosa della voce registrata molto dietro gli strumenti, quasi come se evaporasse…
Sì, quello è un filtro, si filtrava la voce: era sempre presente ma era un po’ più indietro per far sentire gli strumenti.
I due dischi de Il Volo secondo me sono tra i più innovatori della musica italiana: una contaminazione tra roba avant jazz e la canzone pop, e in più sperimentazioni assurde. Penso alla chitarra synth di Radius che all’epoca in Italia nessuno sapeva neanche cosa farci.
Sì, perché Radius metteva la chitarra in un altro sintetizzatore inglese, l’EMS Synthi. Era molto interessante, però il problema di quel coso è che gli oscillatori non tenevano l’intonazione. Quando si scaldavano non si poteva più usare, dovevi aspettare almeno dieci minuti per farli raffreddare.
È il guitar synth che Lucio Battisti ha poi usato in Anima Latina.
Sì anche Lucio l’ha usato, era quello di Come una zanzara. Bellissimo.
Ma la tua influenza è stata forte un po’ in tutto il pop italiano. Anche la prima Giuni Russo ha lavorato con te…
Beh, ho prodotto molta gente: Concato, Gianluca Grignani, Biagio Antonacci, Marcella…
E che mi dici di Loredana Bertè? Credo che il suo sound sia cambiato molto e sia diventato efficace proprio dopo che vi siete incontrati.
Sei bellissima me lo sono inventato io, ho inventato un mondo. La Bertè stava per essere cacciata dalla CGD a fine contratto e mi chiese un favore: se avessi fatto un provino gratis di questa canzone, di nascosto, e se avesse funzionato mi avrebbe ripagato con una percentuale e avremmo firmato il contratto. E cosi è avvenuto: finisco di registrare questo provino nello studio della CGD e dopo un mese è in classifica in Italia e Spagna. Anche nell’intro di quel brano ci sono quei suoni… sono tutti dell’ Arp Odyssey.
A questo proposito, parlando di elettronica, sei stato anche uno dei primi produttori Italo disco. Penso agli Elite, Elisabetta Viviani, Regina Profeta… roba stranuccia…
Sì, ma perché lavorando per la Rai volevano anche delle sigle importanti dance, che stava nascendo. D’altra parte io sono stato il primo in Euorpa a fare un disco mix, con lo pseudonimo di André Carr, per la SAAR. Era musica salsa, che era in ascesa. Feci un disco con quello stile di ballo, perché la musica va sempre ballata se vuoi venderla.
Hai avuto anche rapporti con la new wave, ricordo la tua laison con i Diaframma.
Sì, nella mia carriera sono passato dal liscio di Casadei ai Diaframma fino alla new age, qualsiasi cosa parlasse di musica io l’ho fatta. I Diaframma li produssi perché in quel periodo, nei ’90, erano alla Ricordi. Allora era solo Federico Fiumani e una volta firmato il contratto, qualcuno della Ricordi disse al direttore artistico: «Ma perché hai fatto questo contratto? Questo qui non vende un disco». Allora lui mi chiese di fare la produzione. Siamo andati a Firenze, ho conosciuto Federico, siamo diventati amici e gli ho prodotto In perfetta solitudine e Da Siberia al prossimo weekend. Ho prodotto nel senso che lui faceva solo i pezzi, ma non sa niente di musica: almeno allora, oggi non so come sia messo. Però è un poeta, lavora molto sul testo. Quandi abbiamo questi dischi che ho arrangiato e messo un po’ a posto. L’altro giorno mi trovavo in attesa alla stazione, alla Feltrinelli, lì hanno i vinili e ho visto che hanno ristampato quelli dei Diaframma. Vuol dire che c’è ancora un mercato.
Oltre a ciò, sei un leggendario compositore di colonne sonore: passi con scioltezza da Sette note in nero di Lucio Fulci a Fantozzi passando per Paganini Horror e sei anche in Kill Bill di Tarantino. Per te una colonna sonora deve essere opera a sé, mi pare.
Sì, per forza, la colonna sonora deve stare in piedi anche senza il film.
Sono d’accordo, ma non è scontato, non tutti scrivono o vogliono scrivere in questo modo.
Invece la colonna sonora è importante: perché poi dopo cinquant’anni di un film rimane solo la colonna sonora, il resto scompare tutto.
Visto che sei stato direttore d’orchestra a Sanremo e hai anche fatto il giudice di talent: rimarrà qualcosa dei giovani artisti italiani? Ci sarà un ricambio che durerà più di cinque anni e rimarrà nella storia o sono tutti destinati a essere meteore?
Sicuramente nasceranno nuovi talenti. Saranno giovani differenti da quelli di quarant’anni fa, per forza. Però ci sono sempre: guarda all’estero, in America e in Inghilterra, ne escono di nuovi e interessanti. L’Italia da questo punto di vista invece è un Paese un po’ strano. Le case discografiche straniere cercano sempre delle novità, dei “diversi”, quelle italiane vogliono sempre l’usato sicuro. Però l’usato sicuro, come succede alle automobili, a un certo punto si ferma. Quindi bisogna sempre inventare qualcosa che vada più in avanti.
Eh, sembra che ci sia questa voglia di trovare a tutti i costi il nuovo “messia” della musica italiana, addirittura molti se lo dicono da soli o lo fanno dire all’ufficio stampa…
Il vero messia è un artista di cui rimane il titolo, la canzone. Se all’estero la canzone fa 500 milioni di visualizzazioni e va a finire in tutte le compilation, te la ricordi per sempre. Se le stesse visualizzazioni le fa uno youtuber o un blogger qualsiasi in Italia, dopo sei mesi scompare, non c’è più niente. La questione è tutta lì.