Raccontare le fasi, i periodi, le ispirazioni di Franco Battiato sarebbe il tentativo di rinchiudere qualcosa di enorme in un contenitore troppo piccolo. Però c’è almeno una cosa che forse può avere senso isolare, fissare da qualche parte anche da sola: ho sempre avuto molta simpatia per quegli artisti che riescono a essere dei portali verso qualcosa di diverso, ad aprirti mondi, ingressi che nemmeno avevi visto. Per il suo ruolo storico in questo Paese è una definizione perfetta di Franco Battiato.
Per molte persone legate in modo importante al mondo della musica di avanguardia, tutto è iniziato con Battiato. Proviamo a pensarci: nel 1981 La voce del padrone è il primo album italiano a superare il milione di copie vendute e tutta la penisola – dai bambini agli anziani – canta Bandiera bianca, Centro di gravità permanente e Cuccurucucù.
Erano altri tempi rispetto a oggi: i dischi si compravano, e si ascoltavano a lungo. Ci si affezionava, e non era poi così inusuale appassionarsi al loro autore al punto da andare a ritroso recuperando anche i suoi lavori precedenti. Ecco, ora immaginatevi un ragazzo, magari giovanissimo, che fa questo percorso con la discografia di Battiato dell’epoca. Se con Patriots e L’era del cinghiale bianco le cose sono ancora comprensibili, immaginate cosa poteva rappresentare per un ascoltatore impreparato approcciare gli otto dischi precedenti.
Ok, alcuni di quelli che hanno acquistato quegli album sulla scorta dei successi degli anni ’80 potranno aver pensato di essere stati truffati, di avere comprato dei dischi sbagliati, che quella non era musica, o semplicemente che erano dischi di merda. Però è anche vero che all’epoca non si ascoltava una cosa per 20 secondi, la si trovava irricevibile e si passava ad altro, l’investimento (in primis economico) portava a uno sforzo maggiore, a vedere se si riusciva a cavare qualcosa da quella roba.
Se i dischi della “fase colta” possono effettivamente risultare poco digeribili al di fuori di un contesto preciso, quelli della “fase sperimentale” (il folgorante esordio al sapore di VCS3 di Fetus, la scura psichedelia dell’estremo Pollution, il capolavoro lirico e agreste, tra elettronica e folk impressionista, di quel viaggio tra la memoria e la Sicilia che è Sulle corde di Aries, l’incontro con il minimalismo di Clic) possono essere invece affascinanti, sorprendenti e pieni di meraviglie anche per un ascoltatore poco smaliziato, anzi possono colpire in particolare proprio chi è digiuno da qualsiasi tipo di avanguardia e di sperimentazione. Possono dire che un mondo diverso è possibile, che esistono altre cose, che la musica non deve essere per forza una certa cosa ma può esserne mille altre.
Credo che sia molto importante, ma anche molto difficile, riuscire a spiegare al grande pubblico che la musica non deve essere per forza quello che ha già in mente. Che esistono infiniti altri mondi, che non esistono solo le canzoni, che le canzoni non devono essere per forza fatte in un certo modo.
In un’epoca in cui ci sono delle regole precise per costruire una hit sempre più legate alle dinamiche delle piattaforme di streaming (una durata limitata, il ritornello che arrivi entro un certo numero di secondi, che duri il tempo giusto per una story di Instagram o per un video su TikTok, un featuring con un nome grosso e possibilmente, per ampliare la portata del brano, che non abbia il tuo stesso pubblico di riferimento), e in cui il successo dei giovani e degli indipendenti assottiglia la distanza dal mainstream, portando a una sparizione dai radar dell’underground, della sperimentazione e dell’estremo, trovo importante non dimenticare che la musica è fatta anche di Napalm Death, LaMonte Young, Merzbow, Eliane Radigue, corrieri cosmici, Basinski, Bernhard Günter, Taku Sugimoto, Roland Kayn, Lionel Marchetti, Keith Rowe, John Cage, Alvin Curran, Daniel Johnston, le Shaggs, Giacinto Scelsi, i Nurse With Wound e i Throbbing Gristle…
Che esistono brani fatti solo di silenzi e altri fatti di rumore puro, che esistono note che si ripetono per ore cambiando impercettibilmente, che esistono canzoni costituite da pochi secondi di violenza, che esistono cantanti che non sanno cantare e musicisti che non sanno suonare, che esiste musica improntata al raggiungimento di uno stato di trance e musica fatta per trasmettere paura e inquietudini, e che l’arte non deve per forza essere una cosa sola; che la cosa più bella del mondo è fare cose diverse, esplorare diverse sfumature del possibile, e scoprire che non ci sono limiti all’immaginazione, alla creatività e all’innovazione.
Ricordare che non esistono solo il pop, il rock, il rap e i generi più canonizzati ma che esistono altri infiniti mondi, e che tutti questi possono dialogare tra loro, contaminarsi, mescolarsi e creare altre infinite possibilità.
Per quanto la sua musica sia stata effettivamente molto diversa da quella della maggior parte dei nomi citati qui sopra, questo è stato Franco Battiato per tante persone: la scoperta di altre possibilità e di altri mondi. Fosse anche solo per questo ruolo nel panorama nazionale, anche a prescindere da tutto il resto, non possiamo che riconoscerlo come un gigante, per sempre.