«I festival italiani sono la sagra della salsiccia» ha scritto Giorgieness qualche settimana fa sui social prendendo posizione sulla questione della presenza delle donne nei festival musicali, un problema, non solo locale, già sollevato da molte e da molti negli ultimi anni e al quale la cantautrice ha provato a dare una lettura più ampia.
Perché insomma ci sono così poche donne nei festival italiani? E perché, come scrive nel suo post Giorgia D’Eraclea, le risposte più frequenti degli organizzatori sono «le abbiamo chiamate ma erano già occupate» e «non abbiamo trovato un nome adatto»?
Dov’è il problema?
Ce ne sono tanti, iniziamo dal primo. Se parliamo del mondo indie io non riesco a nominare cinque donne headliner e su questo mi sono confrontata anche con colleghi, addetti ai lavori, gestori di locali ed etichette. Mancano davvero le headliner, anch’io farei fatica a nominartene qualcuna. Non esistono i Tre Allegri Ragazzi Morti donne. Di conseguenza gli organizzatori partono già cercando non una headliner, ma di un’artista di fascia media. E lì, in quella fascia, secondo me va ancora peggio nel senso che ci sono persone che, come me, magari non hanno fatto il grande salto, ma sono comunque arrivate a vivere di musica, eppure hanno numeri completamente diversi dai colleghi maschi di fascia media. E in ogni caso sembra che il messaggio sia che in un festival non ci possa essere più di una donna, massimo due. È un altro modo per metterci l’una contro l’altra. Poi che questo non accada più è un altro discorso: io la solidarietà femminile tra cantautrici o interpreti la sento.
E i cachet?
A causa di questa diversa percezione è difficile dare un cachet alle donne, è difficile quantificare. E quindi cosa fai? Quando le metti a suonare? O fai le serate apposta e secondo me è peggio perché da un lato un po’ le ghettizzi e dall’altro a me è capitato di fare serate con ragazze che facevano generi diversi dai miei. Funzionavo molto di più, per il genere che facevo all’epoca, aprendo i Ministri o i Fast Animals and Slow Kids e non certo Cristina Donà, con tutto l’affetto. È stata una data bellissima, ma non era il mio pubblico e quindi non aiutava me, che sono lì che devo ancora crescere, e nemmeno lei. E viene meno gente. Sono fattori che scoraggiano, considerando l’investimento che una donna fa per andare a suonare perché, parliamoci chiaro, nel periodo in cui stai emergendo non dico che paghi tu per suonare, ma più o meno… E poi sì, ok, è sempre una guerra, non credo che nel mondo degli uomini sia tutto perfetto e ci sia meritocrazia, però ragazzi nel nostro è davvero complesso. Anche perché vai a parlare con un’etichetta e ti dice che ha già un’altra donna oppure ha già altre due donne. Sì, ma hai anche 18 cantautori. E quindi è ovvio che poi l’organizzatore del festival non sa quantificare quanto ti deve pagare. Però tu lo sai perché magari hai una band, hai i chilometri da fare, hai un furgone come tutti gli altri.
Visualizza questo post su Instagram
Però gli organizzatori dicono che è difficile trovare donne per i festival…
Succede che a un certo punto dopo che ti sei fatta un culo così ti dici col tuo team: adesso cerchiamo di fare solo cose di profilo, cose fiche. Quindi a certi eventi magari non vai perché non hai il profilo giusto per quel concerto lì. Ci sono quattro festival fichi in Italia e c’è la corsa ad andarci tutte, quindi rinunci a eventi più piccoli perché giustamente stai cercando di mantenere un certo status.
E quindi?
Quindi il problema secondo me sta a monte. In Italia essere una donna che fa musica è diverso da essere un uomo che fa musica: Se ci sono tutti quei problemi pregressi è ovvio che poi anche quando si parla di live vengono fuori le magagne. Ci sono colleghi maschi che si permettono ancora di dire che esiste la musica femminile o che la voce femminile è fastidiosa (si riferisce a Francesco Renga, ndr)… Io peraltro dal punto di vista dei concerti potrei anche starmene zitta perché ho perso il conto di quanti live ho fatto nella mia vita. Tra l’altro andavo anche in giro con una band di tutti uomini e avevo un progetto inquadrato come una band anche se non lo era, quindi sicuramente è un po’ diverso, però mi sono sentita molto sola in tour.
Cosa diresti agli organizzatori di festival e di eventi di musica dal vivo, qual è la strada da seguire?
Direi: dateci fiducia. L’unico modo in cui le cose possono cambiare è assumendosi la responsabilità di chiamare le donne in contesti importanti, anche se magari alla fine sarà l’headliner uomo a portare pubblico. Quando la gente sarà abituata a vedere una donna, che ne so, prima di Carl Brave o prima degli Zen Circus questa cosa piano piano andrà scemando. Bisogna rieducare il pubblico.
Nel 2018 hai raccontato di quando all’Indiegeno Festival la collega CRLN si è vista rivolgere cori sessisti dal pubblico mentre apriva il live di Gemitaiz. Hai avuto altre esperienze del genere?
Mah, io il sessismo l’ho vissuto più che altro in ambito discografico. Dopo l’episodio all’Indigeno su Facebook ci fu un’ondata di «non tutti gli uomini…» o addirittura «ci sono anche quelle che sfruttano la situazione per…» oppure «ecco, questa si è fatta pubblicità». Come se a noi interessasse avere visibilità perché veniamo discriminate e non perché facciamo bella musica. È assurda questa cosa.
Io ero lì il giorno dopo CRLN. Se qualcuno del tuo pubblico, e in quel caso del rapper che suonava quel giorno, si permette di insultare una persona che sta lavorando, quando sali tu su quel palco fai presente che non ci si comporta così. Il pubblico lo puoi anche educare, gli puoi passare dei messaggi.
Dicevi della discografia…
Ormai non conto più le porte in faccia che ho preso negli anni perché ero una donna che faceva un genere difficile e non capivo cosa ci fosse di difficile, però magari un giorno me lo spiegheranno. Ti dicono che in generale con le donne è più difficile. E se te lo dicono in faccia è brutto perché pensi: ok, allora forse è davvero così.
Le cose sono migliorate col passare degli anni?
Quando ho cominciato io eravamo tre o quattro, adesso siamo molte di più però non so quanto sia dipeso da una volontà di cambiamento e quanto invece dal fatto che ci siamo imposte.
Con quali altri episodi di sessismo ti sei scontrata?
Il sessismo è radicato nelle piccole cose, banalmente il fonico che ti dice «ti sistemo io l’amplificatore perché ce l’ho uguale» oppure «ma che cosa ti metti a fare un corso da fonico, tanto nessuno ha una donna fonico». E sono cose dette da persone che ti stanno vicine e che pensano di darti un buon consiglio. Insegnami, rendimi indipendente. Uno dei modi per non subire cose del genere è circondarsi di persone che ti trattano indipendentemente dal fatto che tu sia una donna o che tu sia un uomo, che è quello che ho cercato di fare io. Però è una fatica.
Una volta ho fatto sentire dei provini a una persona della discografia a cui piaccio molto. Disse: «Ma non sei un po’ troppo vincente, un po’ troppo combattiva?». Questo qualche anno fa perché adesso si è ribaltata la cosa, adesso devi essere sempre quella forte, quella figa, la Beyoncé di turno. Ti tocca pure pensare al fatto che se dici certe cose in una canzone può essere un problema.
Suoni da quando avevi 15 anni e quest’anno ne compirai 30. Quando hai iniziato a renderti conto di tutto ciò?
All’inizio mi ero tatuata in fronte una frase di PJ Harvey: «Non voglio preoccuparmi di essere una donna mentre faccio musica». Ero un’integralista. A un certo punto del percorso mi sono sentita schiacciata, verso i 24, 25 anni, anche perché donna. Ho dovuto riappropriarmi di me stessa per capire che cosa sapevo fare. Perché ti confonde questa cosa, cominci a pensare che magari è vero che non sai fare niente. Ho passato un anno a sbattere la testa, poi ho trovato un’etichetta con cui ho firmato per due dischi e lì ho iniziato a capire che il problema non ero io.