Il libro che racconta il Myanmar tra colpi di stato, scena queer e ONG neocoloniali | Rolling Stone Italia
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Il libro che racconta il Myanmar tra colpi di stato, scena queer e ONG neocoloniali

Dopo "Pyongyang Blues" in cui raccontava la sua vita in Corea del Nord, Carla Vitantonio torna con "Myanmar Swing", in cui parla della sua esperienza nel Paese asiatico che, dopo il golpe dello scorso febbraio, è precipitato nel caos

Il libro che racconta il Myanmar tra colpi di stato, scena queer e ONG neocoloniali

Il suo Pyongyang Blues è uno dei podcast più interessanti e ben fatti in circolazione. Carla Vitantonio, cooperante e attrice, lo ha tratto dall’omonimo libro uscito nel 2019, in cui ha raccontato i suoi quattro anni di vita in Corea del Nord, dal 2012 al 2016, al lavoro per una ONG, con un linguaggio brillante e personale, in bilico tra reportage e racconto autobiografico. Che cosa significa vivere sotto a una dittatura? Con quell’opera l’attivista molisana ha cercato di rispondere a questa domanda senza cedere alla retorica che la presunzione di superiorità di un mondo su un altro porta sempre con sé, mettendosi in gioco in prima persona per cogliere non solo come agisce il regime di Kim Jong-un, ma anche come reagisce la popolazione, a un regime simile, e gli effetti che esso potrebbe sortire su ciascuno di noi, se dovessimo averci a che fare.

Scovare le piccole storie di umanità che si snodano lontano dai grandi giochi della geopolitica sembra, per Vitantonio, l’obiettivo principe, lo stesso che l’ha guidata nella scrittura di Myanmar Swing (Add Editore), nuovo memoir dal ritmo incalzante in cui l’autrice, oggi di stanza a Cuba, ripercorre, non senza ironia e una dose di irriverenza, un’altra esperienza vissuta come cooperante, questa volta a Yangon, in Myanmar, tra il 2016 e il 2018. Ossia nel Paese che definisce “l’amico più sporco della Corea del Nord”, dove, oltre a occuparsi di programmi a sostegno delle persone disabili e delle vittime delle mine antipersona come direttrice regionale di una ONG, ha avuto modo di entrare in contatto con le milizie ribelli, di scoprire una delle comunità queer più aperte dell’Asia e di comprendere chi sono i birmani al fianco di Aung San Suu Kyi, la leader e fondatrice della Lega Nazionale per la Democrazia (LND), partito di opposizione alle dittature militari che hanno caratterizzato la storia birmana a partire dal 1962, il cui governo è stato rovesciato dall’ultimo colpo di Stato militare a inizio febbraio 2021. “Avevamo avuto tutti troppa fretta di chiudere il capitolo”, dice Vitantonio, convinta che sia giunto il momento di battersi per una decolonizzazione dell’aiuto umanitario.

Ricapitoliamo: l’1 febbraio 2021 l’esercito della Birmania, il Tatmadaw, spodesta quella che in Myanmar Swing chiami “la Signora”, Aung San Suu Kyi, e riporta il Myanmar alla dittatura militare, quindi in sostanza alla situazione precedente a quella da te osservata tra il 2016 e il 2018. Nel libro, che in seguito a questo evento hai aggiornato, definisci quel golpe prevedibile e affermi che quella di San Suu Kyi era una democrazia troppo fragile per poter durare.
È così, l’elezione di Aung San Suu Kyi era l’happy ever after che una narrazione romanzata e polarizzata della storia contemporanea birmana ci aveva educato ad aspettare. Ma c’erano molti segnali che avrebbero dovuto tenerci in allerta, tra cui una costituzione troppo imperfetta e il fatto che le minoranze etniche più rilevanti – e armate – non erano soddisfatte del processo.

Ora siamo al peggio: alcuni giorni fa l’Alto Commissario Onu per i Diritti Umani ha segnalato l’escalation di violenze nel Paese da febbraio in avanti, si parla di almeno 860 uccisi nella repressione da parte dei generali ora al potere e di oltre 5000 persone arrestate. Come vedi tutto questo?
Ci sono molti modi per guardare a ciò che sta avvenendo. In prospettiva storica la violenza sconsiderata di Tatmadaw non stupisce: ricordiamo bene i fiumi di sangue del 1988, le immagini dei cadaveri dei civili e dei monaci a galleggiare nei canali; io stessa ho conosciuto sopravvissuti di quella rivolta [il riferimento è all’insurrezione contro la dittatura militare e per la democrazia conclusasi in quello stesso ’88 con un sanguinoso colpo di Stato che riportò l’esercito al controllo del Paese]. Tatmadaw si considera il padre autoritario e onnipotente della nazione, e fa ciò che ritiene necessario per piegare i suoi cittadini all’obbedienza. Un altro dato importante è l’apparente sconsideratezza con cui tanti giovani birmani scendono in strada sapendo che quasi sicuramente patiranno violenze e che la morte non è una possibilità remota: questo è riconducibile alla profondità della radice buddista nella popolazione birmana, che spinge molti a pensare che la vita persa per una causa giusta non sia che il preludio di una nuova vita probabilmente migliore. Ma c’è un ultimo aspetto.

Quale?
Adesso che sono trascorsi vari mesi mi pare difficile che qualcuno da fuori intervenga per capovolgere le sorti del popolo birmano, le potenze che fanno affari con la Birmania hanno bisogno di stabilità e di garanzie sul protrarsi di operazioni e legami, chi sia al governo è per loro poco rilevante. Insomma, io credo che in un Paese così pieno di risorse e drammaticamente centrale nella geopolitica asiatica sia difficile immaginare che si lasci la democrazia libera di fiorire senza che i potenti si spartiscano ciò che considerano proprio.

Per questo in Myanmar Swing contesti la narrazione diffusa in Occidente secondo cui saremmo di fronte a uno scontro tra “la Signora” buona, Aung San Suu Kyi, e il Tatmadaw, l’esercito cattivo?
Sono narrazioni bellissime, quelle in cui possiamo avere un’eroina pura, e da questo punto di vista l’immagine di Aung San Suu Kyi che si staglia sola contro i generali, con il suo fiore tra i capelli e la sua figura esile e gentile, è perfetta. Non a caso Luc Besson le ha dedicato un film, The Lady: la signora della pace: la forza simbolica di Aung San Suu Kyi, legata anche alle sue origini – è la figlia di quel generale Aung San che liberò la Birmania dalla colonia inglese e dall’invasione giapponese – è servita da prodigioso collante negli anni della resistenza, ed è stata anche opportunamente strumentalizzata da Paesi che avevano interessi strategici in Birmania. Non bisogna andare lontano per scoprire il supporto che Aung San Suu Kyi ha ricevuto dalla Gran Bretagna; lei è stata innegabilmente la leader carismatica che ha animato le rivolte, al pari di altri personaggi – è interessante notare, tutti uomini – che hanno animato la storia contemporanea dell’Asia.

Cos’altro?
Aung San Suu Kyi è stata anche una donna incredibilmente coraggiosa, che ha lasciato tutto per dedicarsi a qualcosa in cui non aveva la benché minima esperienza, la politica. Credo sia importante sottolinearlo per capire la difficoltà dei 5 anni di governo della LND, il suo partito: Aung San Suu Kyi non era una politica, era una professoressa a Oxford. Le pur timide accuse di micromanagement e immobilismo che le giungevano da frange della società civile birmana e da alcune minoranze etniche derivano da questo, oltre che dal complicato equilibrio cui la costituzione la obbligava. Basti pensare che quando in Birmania stavo seguendo le trattative necessarie per ottenere un accordo ufficiale tra la mia ONG e il governo, accordo che ci era necessario per poter lavorare, un giorno mi fu detto che non c’era speranza, perché gli accordi “la Signora” doveva leggerli e commentarli tutti; non so quante ONG fossero presenti allora sul territorio, ma sicuramente alcune centinaia. E tornando ad Aung San Suu Kyi e alla sua idealizzazione: non dimentichiamo che la sua Lega non rappresenta la Birmania tutta, ma la maggioranza Bamar [di religione buddista, circa il 70% della popolazione], di conseguenza le minoranze etniche hanno guardato a lei con speranza, ma senza mai dare appoggio incondizionato. Quello che dovrebbe preoccuparci oggi è che non esiste, almeno che io sappia, qualcuno che possa sostituirla: qual è, dunque, l’alternativa democratica al nuovo corso proposto da Tatmadaw?

Dal tuo libro si coglie che l’esistenza di minoranze etniche, ciascuna con le proprie rivendicazioni, è un problema centrale in Myanmar e che in tutto ciò la questione del genocidio e della persecuzione della minoranza musulmana dei Rohingya è quella che ti ha più ferita, per il modo in cui la comunità internazionale, le Ong, persino il Papa, scrivi, l’hanno affrontata. Siamo all’ipocrisia del male minore?
Non è una vicenda che si può semplificare, questa, gli elementi che la compongono sono tali e così tanti (politici, legali, geologici, religiosi, culturali, economici) che anche i vari tentativi di sintesi che ho operato nel mio libro mi hanno lasciata insoddisfatta. Senza entrare nel merito della presunta azione diplomatica di papa Francesco, una verità innegabile è che mentre il disastro accadeva nessuno, nemmeno il pontefice, ha seriamente interagito con chi di dovere e in maniera adeguata. E chi di dovere non era Aun San Suu Kyi, era Min Haung Hlaing [il comandante dell’esercito birmano o Tatmadaw, che ha poi guidato il colpo di Stato dello scorso febbraio]. In quest’ottica la famosa conversazione a porte chiuse tra “la Signora” e il Papa ha più il sapore di una confessione che di un incontro tra capi di Stato. Per quanto riguarda me come cooperante, credo che la questione Rohingya sia stata uno spartiacque nella mia carriera come in quella di molti miei colleghi, perché ha messo a nudo il meccanismo dell’aiuto umanitario lasciandolo di fronte a noi con tutte le sue contraddizioni.

In Myanmar Swing critichi le Ong per la gestione delle risorse umane, per le loro politiche neocolonialiste e i finanziamenti talvolta discutibili. Quali sono le maggiori problematiche del settore?
Per la gestione delle risorse umane va detto che non critico tutte le Ong, ma solo quella per cui ho lavorato in Birmania: pur facendo cose nobilissime, nella selezione del personale e nell’assegnazione di ruoli ricorreva a criteri spesso discriminatori e sessisti di cui sono stata vittima. Tant’è che dopo il lavoro in Birmania mi sono licenziata, ora lavoro per un’altra ONG a Cuba.

E la decolonizzazione dell’aiuto umanitario, che descrivi come necessaria?
Quello è un tema che ho approfondito perché la dedizione che nutro nei confronti del mio lavoro mi spinge a preoccuparmi per il suo effettivo impatto. Fare i cooperanti significa sempre oscillare pericolosamente nel precario equilibrio tra seguire l’imperativo umanitario e rispettare i principi a cui ci votiamo quando intraprendiamo questo percorso: neutralità, indipendenza, imparzialità, umanità e do no harm. Ognuna delle missioni che ho compiuto mi ha costretta a scendere a compromessi, cosciente di quale fosse il mio obiettivo finale. Non esiste una missione perfetta; esistono, però, donatori più manipolatori di altri e Ong più scrupolose di altre. Io faccio ogni giorno la mia scelta, ci sono donatori ai quali non mi sognerei nemmeno di chiedere denaro in certe situazioni. Tu, per esempio, sapendo dello scempio compiuto dai francesi in Mali durante la colonia, accetteresti denaro francese se fossi la direttrice di una Ong in Mali? Io no. Non tutti gli esempi sono così limpidi, ma di certo ci sono delle istanze che dobbiamo cominciare ad ascoltare.

Che cosa auspicheresti?
Bisogna esigere dai donanti che parte dei loro fondi sia dedicata a un’agenda definita nel Sud globale e non attorno ai tavoli del Nord, perché questo è post-colonialismo. Non so che futuro si prospetti per le grosse ON del Nord: hanno avuto un ruolo importantissimo, ma credo che molte si dissolveranno nei prossimi 10 anni, sopravvivranno solo quelle che sapranno cambiare.

Il punto sull’approccio neocolonialista delle ONG è molto interessante in un periodo storico come quello attuale, in cui una certa mentalità colonialista introiettata è stata identificata da parte delle nuove generazioni come il maggior nemico dell’inclusione e della lotta alle disuguaglianze e al razzismo. Pensi che il problema di fondo sia la storia raccontata dal punto di vista dei vincitori?
Indubbiamente, nell’aiuto umanitario e non solo la storia che ci raccontiamo è quella dei colonizzatori. Abbiamo spesso creato bisogni che non esistevano, e con essi conflitti e miseria. D’altra parte, non possiamo buttare via tutto quello che è stato fatto dal 1946 in avanti, servono attenzione e delicatezza. Non è che i cooperanti siano degli egoisti post-colonizzatori, vogliamo tutti la stessa cosa, c’è bisogno di alleanze, non di guerre tra fazioni. Io sono una donna che somma su di sé alcune condizioni di vulnerabilità nel Nord del mondo; al tempo stesso, nel Sud sono una privilegiata: ogni posizione è relativa. Nei miei racconti provo a riportare questa duplicità: quando vivo in un grattacielo con piscina so bene che un lancio di dadi distratto avrebbe potuto posizionarmi nella favela che vedo a pochi metri da me; questo conflitto, questa fluidità, sono importanti nelle mie riflessioni e nei miei racconti, anche per evitare di cadere nel paternalismo.

Criticare le ONG “da sinistra” è un atto di onestà intellettuale ammirevole, ma che può essere strumentalizzato contro le ONG stesse. Ti sei posta questo problema mentre scrivevi Myanmar Swing?
Le ONG oggi fanno un lavoro essenziale, senza il quale intere fasce di popolazione non potrebbero avere una vita dignitosa, e per affermarlo mi basta pensare ai sopravvissuti alle mine antipersona che ho conosciuto in Birmania. Per il resto, gli attacchi ci sono sempre stati, ciclicamente riemergono, penso che dopo la demonizzazione dei movimenti di sinistra extraparlamentare questa sia l’ultima frontiera del cannibalismo politico di bassa qualità. Ognuna delle cose che dico può essere manipolata, estrapolata dal suo contesto, ma se viene letta lì dove l’ho messa, e relazionata con la mia vita e la mia esperienza, credo lasci emergere chiaramente il fatto che sebbene consideri questo mestiere imperfetto, continuo a vederlo come uno dei mestieri che vale la pena fare.

Nel libro parli anche della vivace realtà queer di Yangon e del suo epicentro, un locale che si chiama Fab. Ma è una doppia realtà, quella che descrivi, nel contesto di una società in cui i diritti LGBTQ+ non sono contemplati e dove anche la struttura buddista segue questa linea.
Innanzitutto ci tengo a dire che il Fab è nato come spazio liberato. Un giorno un gruppo di queer è riuscito a sfruttare una breccia, un vuoto normativo, una distrazione, per affittare un magazzino e organizzarci la discoteca gay una volta al mese. All’inizio, prima che mi trasferissi in Myanmar, andare al Fab era davvero un gesto rivoluzionario: prima di andarci ci si preparava meticolosamente, con i vestiti adeguati e lo spirito di chi, per una notte, può essere quello che vuole, ma nei restanti 29 giorni del mese no. Il Fab è stato, quindi, importantissimo per la liberazione dei gay così come l’annuale festival di cinema omosessuale &PROUD, benché finanziato dal Regno Unito e ospitato spesso dall’Alleanza Francese, quindi un po’ meno “indigeno” e spontaneo. Detto questo, sì, la vita della comunità queer birmana continua a essere difficile, non tutti i diritti sono garantiti e la cultura reazionaria di matrice religiosa non aiuta l’accettazione a livello comunitario.

Tu come ti sei regolata durante i tuoi due anni in Myanmar?
Essendo straniera ero più o meno libera di fare quello che volevo, tuttavia ogni volta che Anna, la mia ex fidanzata di cui racconto nel libro, dormiva da me cercavamo di stare attente, di non essere troppo visibili. In un Paese come la Birmania l’approvazione della comunità di quartiere è fondamentale: se avessimo dato scandalo avremmo potuto subire conseguenze, per esempio il comitato di quartiere avrebbe potuto chiedermi di cambiare casa.

Persino i buddisti non si sa più se sono buoni o cattivi, fai notare. E parliamo della religione che più di tutte viene assolta da ogni peccato da noi occidentali. Cosa ti ha scosso di questa scoperta? In fondo entrambi i tuoi due libri sono un invito ad abbandonare ogni analisi semplicistica della complessità, o sbaglio?
È così, sia in Myanmar Swing sia in Pyongyang Blues insisto sul fatto che una persona che fa il mio lavoro, e chiunque voglia imparare a vivere nella diversità, non può abbandonarsi a facili giudizi. I giudizi sono confortanti, ci permettono di non allontanarci dal nostro orizzonte culturale, ma proprio per questo non ci lasciano vivere la realtà. Solo accettando la complessità dell’essere umano, armandoci di pazienza e imparando ad ascoltare, possiamo sperare di riuscire a essere presenti a noi stessi e agire nel mondo secondo i nostri reali desideri e bisogni, e non secondo preconcetti. Forse così potremmo anche perdonarci di più.

E poi scrivi delle caffetterie hipster di Yangon: che riflessioni ti suscitano quel tipo di luoghi?
Fa strano dirlo, ma le caffetterie hipster sono prima di tutto un porto sicuro: quando vivevo in Corea, in un mondo senza alcun punto di riferimento culturale, ogni volta che andavo in R&R [Rest and Recuperation, periodo di riposo concesso ai cooperanti] in Cina la prima cosa che facevo era andare a prendermi un caffè da Starbucks. Non che fossi una fan di Starbucks, ma era un codice che conoscevo: stesso ordine, stessi colori, stessi prodotti ovunque nel mondo, entrare lì era una piccola pausa dal bombardamento di incomprensibilità quotidiane. Idem in Birmania: le caffetterie hipster che scimmiottano quelle di San Francisco o di Roma erano dei luoghi dove poter trascorrere un po’ di tempo in una falsa ricostruzione dei miei riferimenti spaziali e culturali. Ma questo per me; per i birmani erano the hype, uno dei simboli dell’apertura democratica: non dimentichiamo che negli anni peggiori della dittatura gli atteggiamenti “occidentalizzati” erano punibili.

Parlando dei progetti che hai portato avanti in Myanmar a supporto delle persone disabili e delle vittime delle mine antipersona, che cosa ti ha stupito maggiormente della realtà che ti sei ritrovata di fronte?
L’elenco dei non firmatari agli accordi contro la produzione di questo tipo di armi: mi ha provocato una reazione di disgusto, quella lista ci restituisce un quadro nitido delle ingiustizie e delle prepotenze nel mondo e in seno alle Nazioni Unite. È il motivo per cui ho deciso di concentrarmi sulle persone: l’unica cosa che si può fare in questi casi è prevenire, fare educazione nei campi profughi e nei villaggi per insegnare a riconoscere una mina e a gestirla. Nel frattempo bisogna restituire speranza e dignità ai sopravvissuti, appoggiarli affinché si reinseriscano nella comunità, trovino un lavoro adatto alla nuova condizione, non si abbandonino all’alcol e alla disperazione. In questo senso il lavoro in comunità, con le persone del luogo, è fondamentale.

In tutto ciò sei riuscita a ottenere la collaborazione della KNU, l’Unione Nazionale Karen, una delle minoranze etniche di cui sopra, e lì, a proposito dell’eterno conflitto tra queste e la maggioranza Bamar, dichiari che non esiste un popolo birmano e parli delle “danze della diplomazia sulla pelle dei rifugiati”: a cosa ti riferisci?
La questione dei rifugiati, degli sfollati [in inglese IDP, Internally displaced people, sigla che spiega meglio il concetto], dei richiedenti asilo, è ormai nota anche alla stampa europea. Penso al disgustoso recente accordo tra Danimarca e Ruanda [che tra le altre cose stabilisce che i richiedenti asilo in Danimarca, anche una volta riconosciuti come rifugiati, siano trasferiti e inseriti in programmi Onu per i profughi fuori dall’Europa]. Il diritto internazionale prevede l’esistenza di una categoria nei confronti della quale gli Stati hanno dovere di protezione: i rifugiati. Ma da tempo, e tristemente il trend è salito esponenzialmente dopo lo spartiacque del G8 di Genova nel 2001, gli Stati preferiscono trovare soluzioni creative per non doversene occupare. Complici troppo spesso le Nazioni Unite, composte da quegli stessi Stati e dunque schiacciate in un paradosso di conflitto di interesse che è, ahimè, irrisolvibile. Quanto contano le persone in questo balletto? Poco, troppo poco.

Al G8 di Genova del 2001 dedichi una parte del libro: come mai?
Perché quel G8 è stato uno spartiacque per la nostra vita e per gli equilibri mondiali. Abbiamo perso noi, quelli che difendevano un modello che dai potenti e dai sostenitori della globalizzazione senza argini né protezioni era dichiarato obsoleto. Ha vinto un nuovo paradigma, lo stesso delle morti dei rider in bicicletta, della gente che si ammala di shopping online, del cibo che in una parte del mondo si spreca e nell’altra non arriva, della retorica della crescita infinita e del PIL che deve aumentare ogni anno, retorica che nei media mainstream non ha più avversari. Ho sentito femministe londinesi affermare in pubblico che per un contadino del Sud del mondo è meglio produrre ed essere pagato poco e vendere i suoi prodotti tutti impacchettati come arrivano nei negozi di Londra, che essere estromesso dalla catena di valore mondiale. Ma questa è una bugia: quel bisogno (presunto) del contadino guatemalteco è un bisogno che è stato costruito da noi del Nord del mondo. E una strumentalizzazione: il contadino guatemalteco sta molto meglio senza di noi e senza il greenwashing delle nostre compagnie. Nel mio piccolo continuo a lottare contro tutto questo.