«Be’, chi altro può andare in giro a vantarsi di avere scritto il peggior album di Iggy? Party è da sempre il suo disco barzelletta. Non sapevo che volesse mettere in atto una vendetta personale contro la sua etichetta e intendesse incidere apposta un disco sciatto. Ho sprecato un sacco di tempo nel tentativo di scrivere belle canzoni per l’album, ma lui aveva altri piani. Comunque Pumpin’ for Jill e Bang Bang spesso sono state chieste in licenza, per cui probabilmente non è poi così male, quel disco».
Queste erano nei primi anni Duemila le parole di Ivan Kral, il chitarrista (ex Patti Smith Group, deceduto il 2 febbraio 2020) che fra il 1979 e il 1981 fu il braccio destro musicale di Iggy e con lui scrisse molti brani. Ma il giudizio su Party deve essere così netto, stigmatizzante al punto di relegarlo a semplice album da avere solo per completare la discografia di Iggy? In realtà no e, in qualche modo, il tempo – quattro decenni, visto che uscì a giugno del 1981 – è trascorso comportandosi una volta tanto da galantuomo, almeno nei confronti di queste dieci canzoni.
Contestualizzare Party è il primo passo da compiere per capirci. Iggy è reduce da due dischi – su Arista (un contratto strappato nonostante il boss, Clive Davis, non fosse per nulla convinto, dopo avere già subito una grossa scottatura con Raw Power, quando era a capo della Columbia) – che hanno vinto le simpatie della critica, ma non hanno certamente ottenuto risultati di vendita congrui. New Values e Soldier, in effetti, a livello commerciale non hanno soddisfatto alcuna aspettativa, a dispetto di una fascinosa aura da Accademia della Crusca punk-rock: nei crediti si trovano nomi come Glen Matlock (Sex Pistols), Scott Thurston (Stooges), Ivan Kral (Patti Smith Group) James Williamson (Stooges), Steve New (Rich Kids), David Bowie… insomma, il titolo di padrino del punk è sempre di Iggy per investitura divina, ma evidentemente non basta a vendere centinaia di migliaia di copie, come invece Davis e i suoi contabili avrebbero in animo. È così, quindi, che iniziano pressioni fortissime: la Arista esige, dopo due tentativi andati a vuoto, un disco commerciale che vada via come il pane e contenga almeno un singolo in grado di scalare le classifiche fino alle prime posizioni. Viene detto chiaramente che è l’ultima chance per Iggy, altrimenti resterà senza contratto (spoiler: finisce così).
Già in studio per Soldier e nel tour successivo Iggy si era nuovamente dato ai vizi che già l’avevano quasi annientato anni prima, fra droghe, alcol e follia; per cui la pressione dell’aut-aut firmato Arista non fa che esacerbare i suoi comportamenti autodistruttivi. Kral ha ricordato: «Le session di Party? Furono all’insegna del divertimento e della decadenza. Scherzavamo tantissimo e ancora sento nelle narici l’odore dell’hashish che fumava Iggy ai Record Plant Studios. Inizialmente Jim [Iggy] non voleva saperne di stare chiuso lì dentro. Per cui mi trovai da solo in studio a incidere le tracce portanti, pensando: “Oh, sarà davvero un bel disco”. Poi lui arrivò per registrare le voci e si mise a cambiare completamente i testi. […] Ad ogni modo, le session furono quasi sempre molto divertenti, anche se in alcune occasioni venni bacchettato e rimesso al mio posto».
A dare il colpo di grazia a Party, in una situazione del genere, è proprio la testardaggine ottusa dell’Arista nell’insistere sul diktat: Iggy Pop DEVE sfondare in radio. Thom Panunzio, giovane producer già di esperienza (destinato a collaborazioni di grosso peso e già dietro il mixer in veste di ingegnere del suono per Soldier), tenta di infondere una linfa di contemporaneità commerciale ai pezzi. Il punto è che batterie dal suono finto, sound patinato, fiati da tormentone estivo e chitarre evirate non bastano a creare il disco da classifica che Iggy aveva promesso alla Arista. I pezzi ci sono, però: è innegabile. Solo non si sposano affatto con lo zeitgeist (almeno in ambito mainstream) di quel 1981, né con l’immagine di Iggy godfather of punk.
I pezzi di Kral che costituiscono l’ossatura dell’intero LP sono ottime composizioni di rock ruvido con venature punk e new wave (a tratti ricordano alcuni masterpiece della praticamente coeva Jim Carroll Band) come già dall’apertura con Pleasure è piuttosto evidente, un rock metropolitano tirato e catchy, castrato solo dalla produzione e da una presenza invasiva di fiati (che probabilmente al momento sembravano un’ottima idea… ma no, non lo erano). Passando poi a Rock’n’Roll Party la tensione non scema e anzi si parla un linguaggio decisamente iguanesco, con un riff scuro e laido, sempre molto urban con tocchi loureediani/carroliani, una sorta di Nightclubbing in versione rock-punk.
Ma veniamo a uno dei pezzi forti: Eggs on Plate, un violento attacco verbale all’industria discografica, alla Arista e al music biz. Il riff nevrotico di chitarra fa da contraltare a una sorta di talinkg blues/flow rap di Iggy Pop che istrionicamente sputa veleno sui suoi nemici del momento. Se solo non ci fossero quegli handclap e il sound fosse più rozzo, scuro e fangoso, sarebbe perfetto. Ciò non significa che sia da scartare: anzi, Iggy qui dà il meglio e a dispetto degli arrangiamenti si sente. Del resto il pezzo, per ammissione di Kral, era nato per Mick Ronson… e qualcosa vorrà dire.
Il primo vero scivolone – perdonabilissimo, a onor del vero – si registra con Sincerity, un pezzo festaiolo, sempre con fiati asfissianti e con un riff da classe differenziale che senza dubbio è figlio della mission di Iggy, cioè incidere un lousy album per far imbufalire la Arista. Il brano fa coppia con una caraibica Happy Man, che in pratica è uno scherzo da spiaggia prima che i tormentoni da spiaggia esistessero, in cui Iggy canta con tono da Bagaglino su una base che fa sembrare Da Da Da dei Trio un raffinato canto gregoriano.
La stonesiana Houston Is Hot Tonight (una specie di Satisfaction sotto Roipnol e birra da 50 centesimi) è nuovamente poesia metropolitana da marciapiede, così come la ballata rock cadenzata Pumpin’ for Jill, al netto del testo da adolescenti in palestra. Così come fa il suo sporco lavoro Bang Bang, il pezzo designato per spaccare le classifiche che fallisce nell’intento (nonostante l’intervento di Tommy Boyce come produttore), ma è pur sempre un’ottima canzone rock in puro stile Iggy, con tanto di tastiera sepolcrale e mood sexy-dark.
Il bilancio, dunque, è buono. Sarà che – un po’ come accadde a Raw Power, il cui mix firmato da Bowie per decenni è stato bistrattato per poi iniziare a essere apprezzato (anche dopo il remix in chiave rock di Iggy) – lo scorrere del tempo aiuta a metabolizzare e guardare con più distacco le cose, ma Party, con quel suo sapore da decennio dell’edonismo in fase di sviluppo alla fine è godibile e viene da pensare immediatamente a come suonerebbero questi pezzi riproposti dal’Iggy di oggi e con un sound/arrangiamento differente. Perché, alla fine, anche volendo fare un disco stupido e brutto, non ci è riuscito (a parte la copertina, ma non è farina del suo sacco). Non è forse talento anche questo?