Quando ci sentiamo con Max Di Carlo, compositore, dalla sua casa di Los Angeles, mi conferma quello che mi aveva scritto in un messaggio qualche ora prima: «Scrivo sempre musica e parlo solo di musica, non riesco a parlare d’altro». Ride. «È la cosa che amo di più, vivo nel mio studio, ci sto dodici ore al giorno e, quando esco, c’ho tutte le pene del mondo, mi fa male tutto». Un’altra risata. «Ma sono felice, è la mia vita». Il lockdown, dunque, è stato quasi un regalo, anche se la sua routine era l’isolamento pure prima. L’altro regalo è stato Il coraggio del Leone, il documentario di Marco Spagnoli prodotto da RS Productions sulla prima Mostra di Venezia pandemica. Spagnoli e Di Carlo collaborano insieme da anni, e questo è – anche a livello di composizione – il lavoro probabilmente più interessante. Lo conferma Max: «Marco è uno dei pochi con cui lavoro, perché ci intendiamo perfettamente. Da quando ci siamo conosciuti, nel 2014, lui mi ha sempre detto: “Non mi va di avere nei miei documentari le musiche delle library, che poi sono solo dei sottofondi. Io voglio musica vera, come se fosse un film”. Sono contento di lavorare con persone come lui. Io passo le mie giornate a comporre. A volte lo faccio direttamente sulle sue immagini, altre volte è lui che pesca dal mio catalogo, a cui ha libero accesso. Siamo cresciuti insieme, e col tempo siamo diventati più sofisticati». Ride. «Mi piace che anche nei documentari venga usata la musica in questo modo. Qualche documentario americano lo fa, ma sono rari, nei documentari questo approccio non avviene quasi mai. Sono da sempre convinto che registi e musicisti dovrebbero collaborare a questi livelli, invece di accontentarsi di brani musicali che spesso non hanno senso. Molte volte dipende dal budget, ok. Ma, essendo un artista al cento per cento – così mi definisco –, piuttosto preferisco lavorare senza soldi, ma in progetti in cui la musica viene messa al centro. La musica è un attore del film a tutti gli effetti: se non interpreta l’immagine in maniera intelligente, non funziona».
Parla così anche (soprattutto) per via della sua storia di compositore e produttore. Te la racconta e quasi non ci credi. «Ho iniziato in Italia, al Conservatorio, dalla musica classica. Ero molto giovane, e come tutti in quel periodo sono stato influenzato dal pop e dal rock: Beatles, Rolling Stones…». Avanzamento veloce: «Sono stato uno dei primi in Italia a fare dance music negli anni ’80». Lì il boom. «Quel genere ha avuto un grande successo anche in Italia. Ma nell’85-’86, dopo un incontro a Sanremo, Moroder mi invitò negli Stati Uniti. Mi disse: “Vieni a Los Angeles, facciamo qualche produzione”. E così feci. Abbiamo lavorato tanto insieme. Abbiamo seguito molte produzioni di Elton John, mi ricordo quella con RuPaul (per la nuova versione di Don’t Go Breaking My Heart, nda). E poi Donna Summer, quella del “dopo” Donna Summer che tutti conoscevano. Stavamo anche preparando un album di Freddie Mercury più dance, Moroder style. Ma poi lui è morto e l’album non è mai uscito, Moroder l’ha voluto rispettare. Da lì è arrivato il pop latino: tutti quelli che ti vengono in mente li ho prodotti, da Ricky Martin in giù. Ho mischiato, sono diventato uno di quei produttori-songwriter del mercato latino, fino alle telenovelas… non so neanch’io com’è successo. Poi, dal 2004, ho cambiato la mia prospettiva. Sono tornato alla musica classica, alla sinfonia, fino al cinema, che è un incontro più recente».
Il cinema, però, esisteva già. «Ho iniziato come assistente di Ennio Morricone, ma assistente nel senso che gli portavo il caffè». Ancora una risata. «Avevo 17 anni, è durato sei mesi appena, ma mi ha cambiato la prospettiva. A Ennio Morricone ho rubato tutto, musicalmente parlando. Da lì ho sviluppato le mie melodie, i miei modi di arrangiare e di vedere la musica. Ennio Morricone era un puro della musica, non si faceva soggiogare dalle convenzioni commerciali. Come Nino Rota. Poi sono arrivato in America è anche qui ho trovato compositori grossissimi: John Williams, Alan Silvestri… E, piano piano, sono arrivato al punto di dire: “Basta, anch’io voglio fare musica pura”. Anche costruire un successo pop non è facile, servono tanti elementi, a cominciare dalla fortuna. Ma sentivo che la mia esperienza di compositore doveva tornare alla melodia, che è sempre alla base di tutto. Non è importante quanti strumenti hai dentro, l’importante è una bella melodia, quella è la mia fissazione da sempre. Ennio Morricone è stato il primo a inculcarmi questo concetto, forse indirettamente. Scrivere su un’immagine, quando l’immagine è bella, è una cosa fantastica».
Le produzioni di oggi riservano ancora qualche sorpresa, in questo senso. «Mi è piaciuto il lavoro sulle musiche della Regina degli scacchi. Non ricordo il nome del compositore, ma non importa: l’importante è il matrimonio perfetto tra immagini e musica, quando s’incontrano così è la cosa più bella. Adesso sto componendo le musiche per un documentario sull’Islanda. Ho visto le immagini, che sono fantastiche, e ci ho attaccato prima un pezzo, poi un altro, fino ad arrivare a un violoncello quasi moderno, e alla fine le immagini si sono sposate alla musica in un modo che ho pensato: “Oh my God!”. Ma non perché la musica l’ho scritta io: è proprio che, quando quel matrimonio perfetto avviene, mi emoziono davvero».