Quando attorno al 2017 Mia Berrin ha iniziato a suonare come Pom Pom Squad, la gente la fermava dopo la fine dei concerti per dirle che non se l’aspettavano, ma si erano divertiti. «Erano pronti a odiarmi», dice ridendo dal suo appartamento di Bushwick, a Brooklyn. «Oppure, quando erano maschi, ammettevano: “Pensavo foste solo una band di ragazze carine”».
E invece Berrin suonava punk-rock rognoso e influenzato dal grunge, spesso presentandosi vestita da cheerleader, un look che usa ancora adesso. Quando indossa quell’uniforme è consapevole delle aspettative che ne derivano. «È uno status symbol», dice, «e ha completamente cambiato il modo in cui la gente mi vede». Prima, aggiunge, «non mi consideravo attraente né particolarmente popolare. Poi l’ho messo e all’improvviso hanno cominciato a trattarmi come una star».
Ora che è uscito il disco di debutto del gruppo, Death of a Cheerleader, Berrin, che ha solo 23 anni, continua a far evolvere il suo personaggio. Con la sua musica distorce la femminilità che incarna, e con essa i sentimenti, il bagaglio emotivo e le crisi d’identità tipiche dell’adolescenza, per creare musica punk magnificamente grezza.
«Il titolo del disco è un modo per uccidere l’idea di femminilità che interpretavo per gli altri. Con la cheerleader mi nascondevo dentro una femminilità convenzionale, una cosa che non funziona per tutti e che di sicuro non funzionava con me».
Durante l’infanzia a Orlando, Berrin ha provato a interpretare tanti ruoli diversi. Era una bambina silenziosa che «sorrideva continuamente» e preferiva «stare un passo indietro» rispetto ai fratelli più grandi. Amava ascoltare musica, spesso rubando l’iPod della madre per sentire Beatles, Norah Jones e Natasha Bedingfield. I genitori non l’hanno sentita cantare finché non ha compiuto 9 o 10 anni ed è entrata in un coro.
Ha poi iniziato a immaginare un futuro d’artista (qualunque tipo d’artista, in verità). All’epoca la sua priorità era recitare, ma disegnava e teneva un diario. In privato registrava demo in cui cantava accompagnandosi con la chitarra acustica. Col tempo è diventata abbastanza sicura per provare a suonare delle cover nei locali della scena open mic di Orlando, un’esperienza che definisce «folle».
«C’erano tizi bianchi di mezza età in ciabatte che facevano cover acustiche di Get Low. E poi c’erano quelli del folk-punk che suonavano per strada. È così che ho imparato a stare davanti a un pubblico».
All’epoca Berrin era un’artista solista; prima di finire il liceo, l’idea di entrare in una band le sembrava assurda, una cosa che faceva «gente più coraggiosa o i bianchi o i maschi». È in quel periodo, racconta, che è diventata «una ragazzina arrabbiata». Queer e di origini miste (è metà afroamericana e metà portoricana), si sentiva sola in un mondo prevalentemente bianco, cristiano ed eteronormativo in cui è cresciuta, un «semi Sud».
«È da adolescente che capisci cos’è la crudeltà e come essere crudele», dice. «Era difficile crederci. Non lo capivo. Non sapevo cosa fare o come affrontare questa cosa».
I genitori erano ancora giovani, così è cresciuta assorbendo la cultura pop di inizio millennio. Quando è entrata al liceo, le sembrava di essere dentro a «una profezia auto-avverante», la versione reale di tutti i film e le serie che vedeva da bambina. Ma quando ha notato che gli altri ragazzi non la consideravano, ha pensato di doversi conformare. Nella scuola pubblica in cui ha iniziato a studiare, Berrin era duramente bullizzata, così ha abbandonato l’istituto e continuato a casa. «Non era come le scuole che avevo visto in tv, è stato un grosso shock».
I genitori avevano paura per la sua sicurezza, così hanno scelto una scuola privata. Era un posto «super sterilizzato», l’esatto opposto del suo vecchio liceo, ed era frequentato da privilegiati. Da giovane donna di colore ha cercato di integrarsi interpretando la sua versione della ragazza della porta accanto, tingendosi i capelli castano chiaro e disegnandosi delle lentiggini sul viso. Tuttavia, i compagni le ricordavano continuamente che non era come loro. Una volta, uno studente ha fatto un test per dimostrare che i suoi capelli erano diversi da quelli degli altri.
Gli sforzi per conformarsi l’hanno comunque protetta per un po’. «Sono stata accolta da un gruppo di ragazze popolari, ma poi mi sono fatta da parte», racconta. «Una volta, mentre ci preparavamo tutte insieme, mi sono guardata allo specchio e mi sono sentita sbagliata».
Verso la fine del liceo, ha creato Pom Pom Squad nella sua cameretta. Era stata accettata dal gruppo teatrale della New York University e usava la musica per calmare l’ansia pre-college. La prima canzone che ha scritto e che le piaceva si intitola Lux, e fa parte di Death of a Cheerleader. Aveva registrato una demo che era uscita durante la prima settimana di college. Il coraggio l’ha premiata, e il brano è finito sulla radio satellitare di Brooklyn. «Vedere una cosa che avevo fatto in camera ottenere tutta quella attenzione è stato scioccante e bizzarro», dice ancora meravigliata.
Con il college sono arrivate sfide nuove. «Nel mondo del teatro è così: “Fai in modo che sia facile lavorare con te, diventa un foglio bianco”». Berrin, però, non sentiva di aver trovato un’identità e una strada per la sua vita, voleva ancora esplorarsi. Ha trovato la risposta in una rivista, Rookie Mag, e nel femminismo delle riot grrrl. «Per la prima volta avevo scoperto teenager che vivevano diversamente dagli altri», dice. «Ha cambiato tutto quello che faccio».
I suoi idoli musicali – Bikini Kill, Hole, Heavens to Betsy e Bratmobile, tra gli altri – l’hanno aiutata a canalizzare la rabbia che sentiva ribollire da anni. Così, nonostante la contrarietà di uno dei suoi insegnanti di teatro, ha iniziato a vestirsi diversamente e si è tinta i capelli di verde.
«Vedere quelle donne che urlavano, arrabbiate e incasinate, che dicevano cose “brutte” o controverse… Mi hanno fatto sentire finalmente rappresentata», dice. «Era come se mi avessero tolto il guinzaglio».
Da quel momento, il progetto Pom Pom Squad è cresciuto in fretta. Il sogno di avere una band tutta sua non era ancora realtà quando ha incontrato Spencer Peppet delle Ophelias. Era la prima volta che Berrin incontrava una band di musicisti che si identificavano tutti col genere femminile. Pepper è diventata una buona amica a una collaboratrice chiave, e ora appare in molte canzoni di Death of a Cheerleader (le Ophelias non si riconoscono più nella definizione di gruppo di sole donne, visto che hanno membri trans e non-binari).
Berrin stava ancora cercando una strada nella recitazione, ma il giro che frequentava alla NYU la spingeva verso la musica. Recitando in un cortometraggio ha incontrato due uomini che si sono offerti di produrle un EP. Dopo aver mentito, dicendo di avere le canzoni pronte per l’EP quando in realtà non aveva ancora scritto nulla, si è precipitata a casa per recuperare, scoprendo che avere una deadline la esaltava. Arrivata in studio è stata colta da mille dubbi. Ha capito che da sola non sapeva come esprimere i suoi gusti o le sue intenzioni.
«Era come se mi dicessero che dovevo essere imbarazzata da quanto poco ne sapessi», ricorda. L’esperienza è stata così svilente che si è promessa di non ripeterla più. Nel frattempo l’attività di attrice era sempre più frustrante, così ha usato quel materiale per trasferirsi nel programma musicale della NYU e imparare a fare tutto da sola.
Nei concerti di Pom Pom Squad Berrin ha iniziato a scoprire la «versione più coraggiosa o vulnerabile» di sé. Ispirata da Courtney Love, ha iniziato a vestirsi nel modo migliore per esprimersi. È così che ha iniziato a studiare e capire le contraddizioni del personaggio della cheerleader: da un lato, spiega, le figure della cultura pop come quella si rivelano le «più minacciose della scuola», dall’altro, però, sono viste come «stupide ragazzine». Anche se, aggiunge, «ultimamente vengono raccontate come atlete forti e persone complesse».
Da persona queer, Berrin era affascinata dal desiderio e dall’attrazione che si prova per le cheerleader e di come le persone confondano il desiderio di essere qualcuno con quello di stare con qualcuno.
La queerness di Berrin, così come la relazione che l’ha aiutata a comprenderla, sono diventate fonti di ispirazione fondamentali per Death of a Cheerleader, che ha registrato insieme a una lineup di cui va fiera. Ha completato il disco in due anni (che comprendono l’ultimo semestre alla NYU) e dice che «l’incidente» da cui sono scaturite molte canzoni è stato innamorarsi con una persona che le ha insegnato «molto sul mio essere queer e sullo spazio che questo occupa dentro di me».
Per Berrin, il debutto di Pom Pom Squad riflette il processo con cui ha trovato se stessa e lasciato alle spalle le aspettative degli altri. In un certo senso, le ha permesso di ritrovare la gioia che provava da bambina. «È un processo in continuo divenire, ma una delle ragioni per cui questa band è così importante per me è che mi spinge a imparare a conoscermi meglio».
Questo articolo è stato tradotto da Rolling Stone US.