Nel luglio 2001 Vittorio Agnoletto era una delle figure più in vista del movimento che si era dato appuntamento a Genova per manifestare contro il G8, vertice dei capi di Stato e di governo delle maggiori potenze industriali – all’epoca Canada, Francia, Gran Bretagna, Germania, Giappone, Italia, Russia e Stati Uniti. Forse la più in vista, visto che era il portavoce del Genoa Social Forum, rete che riuniva più di mille sigle tra associazioni, partiti, consorzi, federazioni, ONG, Onlus, sindacati, organizzazioni religiose, centri sociali e altre realtà femministe, ambientaliste e di altro genere.
A distanza di 20 anni il medico e attivista milanese torna a Genova per partecipare al palinsesto di conferenze e iniziative in programma nel capoluogo ligure dal 18 al 25 luglio. Non solo per presentare la nuova edizione aggiornata del libro scritto con Lorenzo Guadagnucci L’eclisse della democrazia (Feltrinelli), ma anche, come racconta in questa intervista, per rilanciare le battaglie di quei giorni. “Perché molti dei temi che avevamo messo sul tavolo sono ancora drammaticamente attuali”.
Facciamo un passo indietro: in che contesto nasce il movimento cosiddetto no-global che nel luglio 2001 si raduna a Genova contro il G8?
Tutto inizia nel novembre 1999 a Seattle, quando migliaia e migliaia di giovani e di lavoratori contestano un vertice dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) e lo bloccano. Quattordici mesi dopo, nel gennaio 2001, a Porto Alegre, nel sud del Brasile, si realizza il primo Forum Sociale Mondiale, un incontro che raduna movimenti da tutto il mondo, intellettuali, dirigenti sindacali e attivisti nel segno dello slogan “un altro mondo è possibile”. L’idea è di presentare un’alternativa al modello di sviluppo dominante attraverso l’organizzazione di altri forum sociali. Come quello di Genova, perché va detto che i cortei contro il G8 erano solo una parte di quanto promosso nel capoluogo ligure nel luglio di 20 anni fa.
Tutti parlano solo dei cortei, ma in realtà i lavori si aprirono il 16 luglio con un programma di decine di incontri. Questo per sottolineare che il movimento era per sua natura più propositivo che contestativo e nella fattispecie proponeva un modello di vita e di convivenza collettiva molto diverso da quello liberista dominante, non fu un caso che il primo incontro del Forum Sociale Mondiale si tenne a Porto Alegre in contemporanea con il Forum economico che ogni anno a Davos, in Svizzera, riunisce i rappresentanti dei Paesi più ricchi e potenti del pianeta e gli amministratori delegati delle corporation.
Quali erano le istanze principali del movimento?
Da un lato contestavamo il fatto che alcune istituzioni internazionali che nessuno aveva eletto, principalmente Banca Mondiale (BM), Fondo Monetario Internazionale (FMI) e Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) potessero decidere i destini del pianeta; una decisione presa a Londra poteva ricadere sui pescatori thailandesi, per esempio. E ritenevamo, giustamente in quel periodo storico, che la regia politica e la scelta degli obiettivi da parte di queste istituzioni avvenisse all’interno del G8, ossia l’incontro annuale di quelle che allora erano ritenute le otto economie maggiormente sviluppate. Da qui lo slogan “voi G8, noi 6 miliardi”, per dire che noi rappresentavamo l’umanità.
Nel merito dei contenuti contestavamo anche una realtà dove all’epoca il 20% della popolazione mondiale possedeva l’80% della ricchezza del pianeta. E dicevamo: se questo modello di sviluppo proseguirà in questa direzione andremo incontro a possibili grandi disastri. Tra le altre cose, il 16 luglio pomeriggio, durante la sessione di apertura del Forum, Susan George, economista e vice presidente di ATTAC France, dichiarò che se la finanza avesse continuato a dominare sull’economia reale, l’Europa sarebbe andata incontro a una delle più grandi crisi economico-sociali mai verificatasi dopo il dopoguerra. Purtroppo è avvenuto, sappiamo bene cos’è successo con la crisi del 2007-2009. Non solo: nella stessa sessione Walden Bello, altro economista, leader di un grande movimento diffuso soprattutto nelle Filippine, affermò che se non si fosse arrestato il modello di sviluppo energivoro basato sullo sfruttamento di ogni centimetro quadrato del pianeta, avremmo assistito a cambiamenti climatici senza precedenti, intere zone della Terra avrebbero rischiato di scomparire sott’acqua e intere popolazioni sarebbero dovute emigrare. E anche qui sappiamo cosa sta accadendo all’ambiente tra aumento delle temperature e scioglimento dei ghiacciai. Senza contare che la pandemia altro non è che una conseguenza di quello stesso modello di sviluppo da noi osteggiato e che produce deforestazione, allevamenti intensivi, abbattimento delle barriere tra le specie e quindi zoonosi, malattie e virus che si trasmettono dagli animali all’essere umano.
Quali altri temi considerati centrali dal movimento di Genova crede siano ancora attuali?
Intanto nei primi mesi del 2001, tra Porto Alegre e Genova, nasceva l’espressione “beni comuni”. E il primo bene comune che il movimento indicò fu l’acqua, bene comune, appunto, dunque per noi non privatizzatile. Ebbene, siamo arrivati al punto che nel 2020 l’acqua è stata per la prima volta quotata in Borsa a Wall Street. Poi si criticavano le politiche del Fondo Monetario Internazionale (FMI), che in quegli anni, attraverso i piani di aggiustamento strutturale, concedeva finanziamenti agli Stati africani che avevano bisogno di prestiti, ma a condizione che quegli Stati tagliassero la sanità e l’istruzione pubblica e le trasformassero in servizi privati. E va evidenziato che quei piani di aggiustamento strutturale sono stati denunciati tante volte dai missionari come strumenti che arrecavano enormi danni alle economie di quei Paesi. Noi li contestavamo e mai avremmo pensato che alcuni anni dopo proprio lo stesso FMI assieme alla Banca Centrale Europea (BCE) li avrebbe applicati prima alla Grecia, poi al Portogallo.
Altra cosa che mettevamo in discussione erano le politiche agricole riguardanti il cibo, questo perché ai Paesi più poveri, latino-americani e specialmente africani, il WTO impediva di proteggere i loro prodotti alimentari in nome del libero mercato, laddove l’Europa finanziava con miliardi di euro la grande azienda europea dell’Agrobusiness, la quale andava – e va ancora oggi – in Africa a vendere prodotti a prezzi bassi, sbaragliando così la concorrenza dell’agricoltura locale. Risultato: i contadini sono costretti ad abbandonare le loro terre perché non riescono più a vendere ciò che producono, e quelle terre vengono acquistate dalle multinazionali agricole per produrre biocombustibili destinati all’esportazione in Europa. Politiche, queste, che sono alla base anche dei processi migratori che da tempo abbiamo sotto gli occhi, non a caso il 19 luglio 2001 a Genova si tenne una grande manifestazione in solidarietà dei migranti: già 20 anni fa avevamo compreso che le prime vittime del neoliberismo sarebbero stati loro e tristemente è andata così, il Mediterraneo si è trasformato in un cimitero collettivo. Ma vorrei dire anche qualcosa che mi riguarda personalmente, non per parlare di me, ma perché credo possa aiutare a capire l’urgenza attuale.
Dica.
Nel 2001 io ero presidente nazionale della Lega Italiana per la Lotta contro l’Aids (LILA) e da medico ero anche membro della Commissione Nazionale per la lotta contro l’Aids (CNA), direttore di un corso di formazione sull’Aids dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS), oltre a fare parte della Commissione per la Lotta alle droghe della Presidenza del Consiglio. In particolare, in quel momento stavo coordinando le associazioni europee impegnate nella lotta all’Aids in una campagna in solidarietà di Mandela e del Sudafrica da lui presieduto, Paese in cui il 30% delle donne tra i 14 e i 40 anni erano sieropositive all’HIV. Mandela aveva bisogno dei farmaci per la cura – farmaci che non erano gli stessi di oggi, ma che avevano già una buona efficacia – e per averli, visto che avevano costi enormi, cercò di trattare con le aziende farmaceutiche, le quali, però, non furono disponibili ad abbassare i prezzi.
A quel punto decise che il Sudafrica avrebbe scavalcato i brevetti e prodotto direttamente i farmaci antiretrovirali contro l’HIV. Peccato che 39 multinazionali farmaceutiche capitanate dalla GlaxoWellcome ricorsero all’Organizzazione Mondiale del Commercio invocando gli accordi TRIPS sulla proprietà intellettuale, che prevedevano il monopolio dei brevetti per 20 anni per le aziende produttrici. Il Sudafrica fu così bloccato, non poté produrre i farmaci contro l’Aids perché se lo avesse fatto il WTO gli avrebbe imposto sanzioni. Il tutto mentre Unione Europea e Stati Uniti difendevano i brevetti a sfavore del Sudafrica, per poi annunciare la nascita del Fondo Globale per la lotta contro l’AIDS, la tubercolosi e la malaria, ossia un fondo dove i Paesi più ricchi mettono dei soldi, le aziende farmaceutiche mettono dei farmaci e poi è lo stesso fondo a decidere a quali Stati distribuirli, come, quando, in che misura e a quali condizioni.
Tradotto: si nega un diritto e, per dirla con le parole di Don Luigi Ciotti, si fa un po’ di carità ed elemosina, ma carità ed elemosina non possono mai sostituire i diritti. Bene, 20 anni dopo siamo esattamente nella stessa situazione, il che è paradossale: c’è una pandemia, io sono il coordinatore della campagna europea “Diritto alla cura. Nessun profitto sulla pandemia”, stiamo appoggiando la proposta di Africa e India di sospendere i brevetti sui vaccini per tre anni in modo da poter vaccinare tutto il mondo, e come nel 2001 ci troviamo contro la Commissione Europea, che sta difendendo i brevetti e vorrebbe dar vita a un nuovo fondo. A fine luglio si terrà il consiglio generale dell’Organizzazione Mondiale del Commercio e si vedrà se sospenderanno i brevetti o meno, ma è incredibile che sul tema il dibattito sia allo stesso punto di 20 anni fa. L’unica differenza è che questa volta pare che gli USA di Biden appoggeranno la proposta di India e Africa, ma di fatto ci sono 7 miliardi e 800 milioni di persone, quant’è la popolazione mondiale oggi, il cui destino è nelle mani dei consigli di amministrazione di poche aziende farmaceutiche, cioè di Big Pharma.
Questi temi furono portati avanti anche dopo quel luglio 2001, ma lo sfaldamento del movimento era ormai stato innescato e non solo dai fatti di piazza Alimonda e dalle vicende Diaz e Bolzaneto. Lei a 20 anni dalla morte di Carlo Giuliani sarà di nuovo a Genova, dove tra le altre cose parteciperà alla conferenza “Un altro mondo è necessario” in programma a Palazzo Ducale il 18 luglio alle ore 10: qual è il punto?
Rendersi conto che i temi messi sul tavolo dal movimento dei movimenti sono ancora estremamente attuali. Noi sappiamo che avevamo ragione, e non ci interessa che ci venga riconosciuto, lo sappiamo. Ma lanceremo un appello, e non solo a chi a Genova c’era, né solo ai giovani che allora per questioni anagrafiche non potevano esserci, ma anche ai tanti che a Genova scelsero di non venire o che ci guardavano con sospetto. Non chiedo l’autocritica, chiedo, però, di unire le forze per contrastare un modello di sviluppo che come vediamo sta mettendo a rischio l’umanità intera. Se allora dicevamo “un altro mondo è possibile”, oggi diciamo che un altro mondo è urgentemente necessario. Basti pensare che secondo le analisi di Credit Suisse, quindi né mie, né di qualcuno del movimento, poco più dell’8% della popolazione mondiale controlla oltre l’80% della ricchezza mondiale, e la cosa più tremenda, che lascia senza parole, è che circa il 79% della popolazione mondiale possiede poco più del 3% della ricchezza mondiale. Sono disuguaglianze inaccettabili e allora chiediamo ad associazioni, cittadini, movimenti, reti, di costruire ponti per lavorare insieme e cambiare le cose. Dopo 20 anni torniamo a Genova non per guardare indietro, ma per guardare avanti e cercare di ricostruire una grande coalizione nazionale, europea e internazionale. Rilanciamo e lo slogan che abbiamo scelto per farlo è significativo: “Voi la malattia, noi la cura”.
Negli anni dopo Genova sono nati vari movimenti, tra i più recenti Fridays for Future e Black Lives Matter, ma è indubbio che manchi un coordinamento, forse addirittura un dialogo tra gli stessi, e che ciascuno porti avanti la sua battaglia senza mettere davvero in discussione e contestare il modello di sviluppo che l’ha resa necessaria. Che cosa può dire in proposito?
Va ricordato che a Genova costituimmo il Genoa Social Forum, una convergenza di oltre 1300 realtà in tutto il mondo, di cui più di 900 erano italiane. Ognuna di queste realtà comprese che non poteva vincere la sua singola battaglia se non si alleava con altre realtà che lottavano in altri settori scontrandosi, però, con gli stessi avversari. L’avversario della LILA, per esempio, era l’Organizzazione Mondiale del Commercio, che era lo stesso avversario dei contadini, di coloro che volevano mantenere pubblica l’acqua e via dicendo. Fu sulla base di questa convergenza che centri sociali, missionari, pezzi importanti di sindacati e moltissime altre realtà diverse l’una dall’altra si allearono, e fu l’ampiezza di quell’alleanza che fece paura al potere. Ma solo così si può sperare di agire davvero sulla realtà, l’unione fa la forza. Del resto, sapete quale fu nel 2001 il periodico che seguì di più il movimento nelle settimane precedenti Genova? Famiglia Cristiana, ed è importante dirlo, perché questo spiega quanta capacità di costruire relazioni quel movimento aveva.
Un giovane di oggi potrebbe chiedersi come agivate.
Imparammo a stare insieme: il Genoa Social Forum aveva un consiglio di 18 portavoce, ognuno dei quali rappresentava un’area sociale e d’intervento: c’era chi si occupava di migranti, chi di ambiente, chi di servizi alla persona… In più c’era un portavoce, io, che aveva il compito di parlare a nome di tutti: le decisioni dentro al Social Forum venivano prese collettivamente, il mio compito era di comunicarle all’esterno. Ma intervenne la repressione, sia materiale, portata avanti per le strade di Genova, alla Diaz e a Bolzaneto, sia mediatica, gestita dal 90% dei mezzi di comunicazione, che cercarono in ogni modo di screditarci sin dalle settimane precedenti al G8. Noi parlavano di contenuti, ricordo che avevamo raccolto 150 mila firme per una proposta di legge, la Tobin tax, che mirava a introdurre una tassa sulle speculazioni finanziarie.
E come rispondevano i media? Discutendo con noi? Pronunciandosi a favore o contro? Interloquendo sulle nostre proposte? No, si arrivò a scrivere che avevamo affittato degli aerei dai quali avremmo lanciato sangue infetto col virus dell’Aids contro le forze dell’ordine, dando credito alle veline false dei servizi segreti. Così come nei giorni seguenti ai fatti che conosciamo la maggior parte della stampa sostenne la linea del governo Berlusconi di dichiarare il Genoa Social Forum organizzazione sovversiva. E lo chiesero ai magistrati, di dichiararlo sovversivo, fui informato di questo personalmente prima da una fonte che non posso rivelare, poi, il 25 luglio 2001, da un giornalista che lavorava al Palazzo di Giustizia, il quale mi comunicò che nessun magistrato si era reso disponibile a seguire quella tesi e a firmare la criminalizzazione del movimento; per fortuna potere giudiziario ed esecutivo in Italia sono ancora separati. Alla fine nel nostro Paese il movimento resistette fino al 15 febbraio 2003, giorno in cui più di cento milioni di persone scesero in piazza nelle città e nelle capitali di tutto il mondo contro la guerra: anche sulla scia dell’appello lanciato nel novembre 2002 dal Forum Sociale Europeo di Firenze si cercò di impedire l’avvio della seconda guerra del Golfo, che, invece, ebbe inizio un mese dopo.
Oggi come interpreta il contesto che ha di fronte?
Oggi ci troviamo di fronte a un piano di rilancio dell’economia, europeo e italiano, basato sui fondi del Recovery Plan, che a mio avviso punta sulle grandi opere senza alcuna attenzione agli equilibri del pianeta. Dall’altra parte siamo in presenza di vari movimenti, ognuno dei quali ha un filo che lo riconduce all’esperienza del Forum Sociale Mondiale e di Genova 2001. Abbiamo Black Lives Matter, e il 19 luglio scenderemo in piazza per i migranti e contro razzismo. Abbiamo il MeToo, e le tematiche dei diritti delle donne sono da sempre parte del movimento anti-liberista. Abbiamo Fridays For Future, che ha al centro la salvezza del pianeta, ed è necessario che le sue rivendicazioni si intreccino con le infinite vertenze locali legate a questo tema.
Io non ho niente da insegnare a nessuno, mi limito a fare delle considerazioni: è necessario che ciascuno di questi movimenti comprenda che da solo non ce la può fare e capisca che la battaglia che vuole portare avanti si scontra con poteri molto forti, che sono sempre gli stessi. Quindi bisogna costruire dei ponti e capire ciò che ha detto anche Papa Francesco, ossia che non ci può essere giustizia ambientale senza giustizia sociale e non ci può essere giustizia sociale senza giustizia ambientale. Ma mi permetto anche di osservare che servirebbe andare oltre i proclami generali e, per esempio, quando si difende il pianeta, dire esplicitamente chi lo sta depredando, quali sono i centri di potere e le grandi corporation che in questo momento si stanno dipingendo di verde, ma che intanto continuano a sfruttare la nostra Terra. Tradotto: a un certo punto l’avversario va indicato.
E qui, però, vorrei dire qualcosa ai più giovani: attenzione, perché quando indicherete l’avversario lo scenario muterà. Oggi vi mettono sulle prime pagine dei media, vi fanno aprire i telegiornali, siete visti come ragazzi simpatici e carini che sostengono di volere difendere l’ambiente, ma quando farete i nomi delle multinazionali che quell’ambiente lo stanno devastando, quando inizierete a organizzare i sit-in di fronte alle sedi di quelle multinazionali e tenterete di bloccare i loro piani, allora il potere mostrerà la sua faccia, cercherà di criminalizzarvi e di fermarvi, e vi tratterà come soggetti pericolosi. Perché metterete a rischio i privilegi di quell’8% della popolazione mondiale che controlla oltre l’80% della ricchezza nel mondo.