Martedì Genova si è fermata. Erano le 17.27 e in piazza Alimonda migliaia di persone hanno ricordato Carlo Giuliani, ucciso dallo stato, che lo scelse come simbolo della contestazione altermondialista il 20 luglio 2001. I ministri di diversi paesi, riuniti nel vertice del G8 per cambiare le sorti del mondo, avevano permesso il dissenso soltanto in una zona lontana dalla sede del summit. Nei mesi precedenti il conflitto era cresciuto fino ad esplodere, ma nessuno avrebbe immaginato che il governo di un paese che si definisce civile avrebbe assassinato un 20enne per dare una lezione a tutti coloro che manifestavano con lui.
Proprio all’ex capo della polizia si è rivolta ieri Haidi Giuliani, l’instancabile madre di Carlo, che ha sempre chiesto verità e giustizia per tutti i protagonisti della repressione di stato: “Signor Franco Gabrielli, due anni fa ci ha chiesto di voltare pagina, ha detto ‘basta parlare di G8’. Però ha continuato a promuovere i condannati per i pestaggi alla Diaz. Come la chiamiamo questa se non ipocrisia? E noi come possiamo fidarci di un capo della Polizia ipocrita? Dimostri di voler voltare pagina e di voler riformare la Polizia che è di Stato, a servizio dei cittadini e non è un’arma”.
Le canzoni che hanno segnato il 2001, cantate da Cisco, Manu Chao, Alessio Lega e altri ancora sul palco di piazza Alimonda, hanno messo in musica la rabbia di una generazione. “Carlo è vivo e lotta insieme a noi, le nostre idee non moriranno mai”, è il coro che ancora oggi si fa strada nei momenti di silenzio. Il ventennale ha proposto un nuovo slogan – Voi la malattia, noi la cura – e ha portato con sé un buon numero di pubblicazioni che intendono far luce su quei giorni e contrapporsi alla distruzione della reputazione del movimento presente a Genova operata negli anni da molta stampa, diffondendo la documentazione di chi era presente.
Tra queste c’è I fatti di Genova. Una storia orale del G8 (Donzelli) del ricercatore Gabriele Proglio, e con la prefazione di Alessandro Portelli, che in pochi giorni è già alla prima ristampa. Proglio si è concentrato in particolare su chi si oppose al summit da Torino, città della quale ha mappato i luoghi del dissenso.
Una storia orale era l’unica possibile per rispondere alla narrazione dominante?
Gabriele Proglio: Questo libro è una riflessione sulla memoria, anzi sulle memorie del G8. In vent’anni quel G8 è stato raccontato in più modi. Due sono i principali. Secondo l’antropologo Tzevan Todorov, scomparso nel 2017, il rischio è infatti quello che le vittime possano raccontare un evento solamente come vittime. Poi ce n’è un secondo: quello reducistico, di chi suo malgrado si è trovato in mezzo a una battaglia. vittime,Il mio libro si smarca da entrambe: vuole essere proprio un dialogo tra soggettività che insieme costruiscono una storia collettiva. è costruito come una macchina della memoria, per immaginari, che il lettore incontra per poter smontare la narrazione che è stata propinata da molti media. I media hanno avuto un ruolo decisivo nel creare la battaglia. Scrissero che i militanti volevano lanciare palloncini pieni di sangue infetto dal virus dell’HIV contro i delegati o la polizia. Il Corriere della Sera scrisse che Osama Bin Laden voleva reclutare dei naziskin per compiere attentati contro i potenti della terra.
La stampa mainstream spesso rifiuta la controstoria e riduce il racconto ai fatti di sangue. Questo perché non vuole occuparsi delle questioni portate al Genoa Social Forum dalle oltre mille sigle aderenti?
La stampa ha incentrato tutto il racconto sulla violenza, ma in questo modo non si consente di vedere la complessità delle proteste e nemmeno ciò che c’è stato prima o cosa dopo quegli ideali, quelle pratiche. Dalle memorie orali raccolte emerge che Genova non fu la fine di una generazione, né dei movimenti. Quella fase finisce sì nel 2001, con la manifestazione di Firenze del 2003, ma la memoria di Genova continua ad orientare la storia delle persone coinvolte e il loro presente, le loro scelte tra personale e politico, pubblico e privato.
“Sei stato tu, con il tuo sasso”, disse il poliziotto Adriano Lauro (recentemente promosso questore) come ad indicare nel ragazzo Carlo Giuliani tutte le colpe di una situazione che il governo italiano volle incandescente. E in risposta abbiamo letto un’altra sintesi: Miravano la luna, guardavate l’estintore, dato che molti tuttora sostengono addirittura che se Carlo Giuliani non avesse avuto quell’oggetto in mano non ci sarebbe stata una strage.
L’attenzione mediatica è stata catalizzata su due elementi visuali: la polizia e il blocco nero. L’affresco proposto è stato di un contesto di piazza in cui si poteva fare una scelta unica, tra buoni e cattivi. In questo modo le tante e differenti voci sono state relegate sullo sfondo dei fatti. L’operazione è stata così pervasiva da giungere a sostenere che i due elementi, in qualche maniera, fossero collegati: il tema degli infiltrati. Ora, di infiltrati delle forze dell’ordine ce ne saranno pure stati nei cortei del 2001, come ad ogni manifestazione grossa e conflittuale. Ma il punto è un altro: tentare di cancellare dalla storia e dall’immaginario pubblico la radicalità di certe pratiche di piazza adducendo che in realtà non si trattava di manifestanti, ma di poliziotti. In questo modo, si è provato, da un lato, a negare un passato di conflittualità di piazza che riguarda anche l’Italia, e, dall’altro, a utilizzare proprio lo stigma dello scontro per criminalizzare i movimenti. Penso alla Val Susa, al coro mediatico che evocò i black bloc dopo la manifestazione del luglio 2011, in seguito allo sgombero della Libera Repubblica della Maddalena. Ecco, lì il movimento No Tav rispose in modo compatto, ribadendo le ragioni della lotta. .
Con il libro ho invece potuto raccontare le tante voci del 2001: dalla Donna in nero ai non violenti, al blocco nero, passando alle associazioni, i sindacati, le comunità di base, i partiti, le diverse soggettività dei centri sociali, persone critiche contro il sistema agricolo attuale, ecofemministe e anche, la maggioranza, persone che fino a quel momento non avevano avuto, probabilmente, alcuna esperienza politica o di militanza. Tanti ideali, tante pratiche, ognuno con la propria analisi della globalizzazionee un diverso vissuto.
Chimamanda Ngozi Adichie lo chiama “il pericolo della storia unica”: non ce n’è mai una sola.
No, e dirlo serve proprio a silenziare le storie. Ne ho raccolte ottanta e c’è un denominatore comune: nessuno dice che Genova è stata la fine. Piuttosto è stato uno snodo.
Trova che quella stagione abbia un ruolo nell’anti-politica attuale?
Non credo. In tutte le interviste che ho raccolto è presente una critica della rappresentanza politica, al sistema decisionale, a come mercato e istituzioni debbano essere centrati sui bisogni e sul rispetto della Terra. . Tutte le persone intervistate sono convinte che un’alternativa ci sia e sia la mobilitazione di tutte e tutti.
Un capitolo riguarda la manifestazione di solidarietà per i migranti.
Allora come oggi si parlò di confini, di cittadinanza, del mondo del lavoro e quindi dello sfruttamento dei corpi e del tentativo di costruire altri percorsi.
E per quanto riguarda la provenienza delle persone: il movimento No Tav a difesa del territorio?
Almeno tre pullman di persone contrarie alla Tav erano a Genova, ci fu uno spezzone No Tav. Le prime bandiere del movimento No Tav comparvero nella manifestazione di sabato 21 luglio. Una bandiera, poi, fu issata proprio in Piazza Alimonda.
Un libro come il suo può entrare nelle scuole?
Mi piacerebbe molto. C’è parecchio interesse da parte di giovanissimi e di ragazzi che non erano nemmeno nati nel 2001, ma che vogliono un dialogo con quella memoria.