Anche se ho solo una manciata di anni più di lui, sono abbastanza vecchio da ricordarmi quando Emis Killa è arrivato nel mondo del rap italiano. Giovane, arrogante, dalle innegabili doti tecniche, per un certo periodo anche decisamente “commerciale”, il suo profilo era paragonabile a Kryptonite per i puristi del genere.
Fa impressione vedere come oggi, in un contesto completamente cambiato, è proprio Emis Killa ad avere il ruolo, rispetto allo scenario attuale, del veterano e dell’alfiere del rap puro. Del resto il tempo è passato, lo scenario è cambiato, e anche lo stesso Emiliano è cresciuto, come dimostra la telefonata che abbiamo fatto nella quiete domestica di un pomeriggio di luglio, interrotta ogni tanto dalla sua bambina che richiede attenzioni.
Anticipato dall’uscita di un 64 Bars per Red Bull prodotto dai 2nd Roof, esce oggi Keta Music Vol. 3, terzo capitolo della saga di mixtape iniziata nel 2009 (e proseguita nel 2015) con cui Emiliano si affacciò al mondo della musica. Tanti i featuring, da J Lord, Lazza e Madame a Gemitaiz, Jake La Furia e Massimo Pericolo, e palese la voglia di realizzare un prodotto smaccatamente rap, lontano dai trend del momento o dalla ricerca della hit radiofonica.
Come stai?
Bene, abbastanza galvanizzato da questo periodo in cui pare che stiano ripartendo un po’ le cose, anche se non si capisce bene cosa si potrà fare e cosa no, però qualcosa si muove. Lavorare mi fa bene: il fatto di aver fatto musica anche durante la pandemia mi ha fatto bene, mi ha tenuto la testa impegnata, e adesso sto un po’ raccogliendo ciò che ho seminato. Se non avessi fatto niente mi troverei come tanti in quest’estate strana in cui non si sa cosa si può fare, se lavorare, se andare in vacanza, dove e come… Invece ho la testa nel lavoro quindi va bene così.
Sei teso per l’uscita del disco?
Se faccio i mixtape, come nel caso di questo Keta Music 3, sono rilassato. Non sono progetti fatti per la classifica quindi c’è meno pressione, anche se ovviamente mi interessa che vada bene. La pressione però è diversa da un disco ufficiale, lì finisco le nottate in studio e partono le nottate con l’ansia per il progetto.
Come mai riprendere ora un nuovo capitolo di Keta Music?
Era il momento giusto. Sono passati sei anni dal secondo capitolo: la gente lo voleva, me lo chiedevano, e ha anche senso uscire ora con un progetto del genere. Un mixtape è un progetto che si può fare in modo più rilassato, e nel contesto di questo momento è meglio che fare un nuovo album. Spero non subisca troppe conseguenze dalla situazione, ma se le subisce un mixtape è meno pesante che per un disco ufficiale. Quindi ho pensato di aspettare ancora un po’ per un progetto più ampio come un nuovo album.
La foto di copertina cita una famosa foto di Mike Tyson.
Sia per la mia passione per il pugilato, sia per la foto in sé. Mi piaceva l’idea di citare il mio mito sportivo, forse l’unico che ho davvero; e quella foto mi piace particolarmente perché rappresenta un periodo d’oro, ed è eccessiva, ma anche particolare. Foto con macchinoni o orologi se ne vedono tante, la tigre al guinzaglio è talmente spavalda e hip hop che mi piaceva un sacco… Volevo fare qualcosa di spocchioso ma anche di non troppo già visto, come i classici macchinoni.
Keta Music rientra in un momento di ritorno del rap. E anche di un pubblico sempre più adulto: non ha più molto senso considerarla solo “la musica dei giovani”. C’è un pubblico di ultra trentenni, rapper ultra quarantenni… Forse ha sempre meno senso rivolgersi solo ai quindicenni.
Sicuramente è anche quello che è successo a me. Per quello che leggo ancora nei commenti – do un’occhiata veloce, mentre a 20 anni me li leggevo tutti – mi rendo conto che quelli che non capiscono o non apprezzano sono quasi sempre molto giovani. È un altro dei motivi per cui è un buon momento per Keta Music 3: penso che il pubblico sia pronto anche per un lavoro del genere. Il secondo capitolo uscì a cavallo tra il periodo da cui arrivavo e il nuovo, ed era un po’ troppo presto: era valido ma non è stato capito fino in fondo, anche perché io non ero collocato come lo sono ora, arrivavo da un periodo di successi mainstream pop, programmi radio, comparsate in tv, e i miei fan dell’epoca non erano tutti particolarmente ricettivi a certe cose come magari lo sono quelli di oggi.
Anche 17 andava in questo senso.
Sì: da Keta Music 2 in poi, compresi Terza stagione e 17, c’è stato un… chiamiamolo riposizionamento, o forse meglio spostamento… Tolto Supereroe, che aveva alcuni episodi mainstream, sono tutti album molto hip hop. 17 è stato la ciliegina sulla torta, l’ultimo step, la rivendicazione più forte. È stato fondamentale. E adesso c’è il nuovo Keta Music.
Anche il rap sta cambiando, e il contesto intorno ai rapper. Che sono diventati le celebrità del momento, quasi i nuovi calciatori.
Esattamente come per i calciatori, c’è stato un momento in cui tutti i ragazzini volevano giocare a calcio, ma non perché amassero il calcio, ma perché vedevano i calciatori con le veline, modaioli, col cerchietto… Adesso sta capitando nella musica. Non c’è niente di male, però forse secondo me noi ci stiamo un po’ meno bene. I rapper italiani di cui sono fan io non sono persone molto da gossip, da rotocalchi e Instagram story. Sono concentrati soprattutto sullo stare in studio e fare musica. Nonostante io sia stato uno dei primi a sfondare nel mainstream e ad avvicinarmi a quegli ambienti poi in realtà non li ho bazzicati tanto: non mi sentivo particolarmente a mio agio, preferisco stare con i miei amici di sempre o con gente diversa. Non è la mia cosa. Però mi fa anche piacere che ci sia stato questo sfondamento, perché ne possiamo trarre tutti dei benefici.
Riguardo alla tua figura personale in effetti mi ricordo che quando sei venuto fuori all’inizio eri uno dei più zarri, diverso dal rap storico, mentre ora rispetto ad alcuni del momento sembri Umberto Eco, anche solo come articolazione del pensiero. È stata la tua crescita o il livello generale che si è abbassato?
(Ride) Un po’ tutt’e due le cose penso. Io sicuramente sono cresciuto tanto, anche se per quanto fossi un arrogante e tutto, almeno sapevo parlare. Avevo 11, 12 anni in meno, quindi dicevo cose con cui magari oggi non sarei d’accordo, però si poteva vedere che almeno un po’ di materia grigia c’era. Alcuni di questi sembrano delle parodie, sembrano molto vuoti. Non so bene a cosa sia dovuto. Forse al fatto che questa musica è diventata di tutti: una volta era una roba di nicchia, dovevi andartela a cercare… Se ascoltavi o facevi rap eri comunque quello diverso dal branco, perché non era un genere che andava così tanto. Se ti avvicinavi a questa cosa avevi qualcosa di diverso, anche una fame di conoscenza, di diversità. Oggi in una classe di liceo probabilmente tutti ascoltano questa musica, quindi quell’elemento lì non esiste più. Poi tutti ci provano, qualcuno ci riesce, e non sempre quelli che ci riescono sono quelli speciali del gruppo. È diventata una cosa media, standard, non fatta da chi cerca una diversità. È il motivo anche per cui una canzone bella ma sempliciotta magari funziona da paura e una canzone bellissima scritta bene e complicata non riscuote successo, e questo vale anche per me: ho delle canzoni che amo molto che ascoltano in 2000 e delle canzoni tutto sommato mediocri che diventano dei successi totali.
Nei testi ultimamente vedo molto questa “lotta” in cui si prendono in giro i nuovi, i giovani, dicendo “quando io facevo la strada tu non eri neanche nato”. Però è anche un gioco delle parti, no? Il giovane fa lo spaccone perché è giovane, e quello con più esperienza dice “sei un bambino, cosa ne sai”. Spesso sta cosa viene vista come dissing, viene amplificata sui social, ma secondo me forse andrebbe fatto capire al pubblico che di base è soprattutto un gioco delle parti, un interpretare dei ruoli.
Certo. Io faccio parte di un filone e lo estremizzo nei testi, e viceversa. È come tra squadre di calcio: io gioco per la squadra della mia generazione, del mio tipo di rap, dei miei fan e di quelli che hanno intorno ai 30 anni. Il rap è autocelebrazione, è insultare gli altri, quindi ovviamente parlerò male degli altri e bene del mio, ma non vuol dire che allora per me la trap è una merda. Vengono ingigantite dal pubblico queste cose, ma poi di personale non c’è molto: è un gioco, si chiama rap game, è la definizione stessa. È il mio lavoro, ma fare rime è anche giocare.
Dicevamo dei social che ingigantiscono le cose: parliamo del tuo uso del mezzo, abbastanza spregiudicato. Ogni tanto ti parte la polemica su Twitter.
Nel 90% dei casi funziona che mi viene in mente un pensiero, magari leggo un tweet o qualcosa con cui non sono d’accordo, e mi dico: adesso faccio il bastian contrario. Non interpreto una parte, ma perlomeno un atteggiamento: il lato di me più rompicoglioni, scontroso, e lo enfatizzo a mille. Poi con pochi caratteri devi essere molto conciso e di rottura. Il mio Twitter spesso è quasi una pagina di meme come atteggiamento, brevi battute pungenti… Poi quello che dico di base lo penso, magari quello non è il modo migliore per articolarlo.
Dal mio punto di vista non è controproducente: può esserlo dal punto di vista dei grandi numeri, se appari come uno tranquillo, poco polemico, sempre d’accordo con tutti, sicuramente ci guadagni. Però con il mio carattere certi ragionamenti mi infastidiscono proprio, e io ci tengo a manifestare questa distanza, ad allontanarmi da certe persone. Alla fine mi fa vivere meglio. Per esempio la questione di Madame, io di base sono abbastanza d’accordo con lei. E se io lo ripeto questo alla fine mi aiuta, perché la gente sa che se sono al ristorante a mangiare non ho piacere di essere infastidito. Un altro esempio è il discorso sui vaccini: esponendomi, uno sa, anche se mi becca al bar, che io la penso in un certo modo e che non mi deve rompere le palle contro i vaccini se no lo mando a quel paese. Preferisco avere meno fan ma più affini a me, su certe cose.
Per apprezzare la mia musica secondo me è giusto che ci sia anche un’affinità rispetto a quello che dico e che penso, e mi fa piacere che ora lo abbia capito anche chi mi segue. Non voglio fare l’ipocrita solo per vendere più dischi.
A questo proposito, normalmente i rapper anche giustamente rifiutano di avere una responsabilità “educativa” nei confronti di chi li ascolta, ma collegandoci a quello che hai appena detto tu un po’ la senti?
È sottile: non senti una vera e propria responsabilità ma sai che c’è un’influenza. Quando parlo dei vaccini alcuni mi dicono «ma cosa stai a perdere tempo», ma io penso che su mille persone che saranno contro quello che dico magari dieci ragioneranno e penseranno che potrebbero non essere stronzate. Poi io dico la mia perché ne sono convinto, pur non pensando di avere la verità in tasca. Non mi piace l’idea di avere su un ragazzo un’influenza maggiore dei suoi genitori, però se posso mettere una pulce nell’orecchio lo faccio.