Woodstock ’99 doveva essere sesso, droga e rock’n’roll. E invece è stata una tre giorni di violenza, sversamenti di liquame e Jamiroquai. Eravate adulti e non c’eravate? Complimenti per aver fatto una scelta di vita intelligente. Se invece c’eravate, preparatevi perché Woodstock 99: Peace, Love, and Rage, il nuovo documentario HBO sul festival, vi sbloccherà più di un brutto ricordo.
Non c’è metafora più facile della fine del sogno anni ’90 di un festival musicale organizzato in una base dell’areonautica, un gigantesco parcheggio d’asfalto circondato da filo spinato. La folla l’ha fatto a pezzi, mentre sul palco i Red Hot Chili Peppers suonavano Fire di Jimi Hendrix. Fatevi da parte, ecco che arriva un po’ di pesantissimo simbolismo culturale.
Io ero lì, scrivevo del festival per Rolling Stone US. Non c’erano molte riviste che avessero voglia di raccontarlo, nessuno si aspettava chissà che. Woodstock ’99, invece, si è trasformato in uno degli spettacoli più orrendi che ho visto in vita mia, roba da chiedersi: «Ma com’è successo? Com’è possibile che la cultura pop femminista esplosa negli anni ’90 sia stata tradita così presto? Com’è possibile che i nostri ideali anti-misogini, anti-razzisti e anti-omofobi si siano sgretolati in quel modo?».
Questo è un documentario che colpisce duro, è un Summer of Soul in reverse. Al posto di celebrare la musica, è un lungo viaggio a base di distruzione. (Un chiarimento: non sono stato coinvolto nella produzione del film anche se la mia voce appare spesso; viene da un’intervista che ho fatto per un podcast in cui spiego che ho dormito sui cartoni della pizza perché era facile capire se qualcuno ci aveva pisciato sopra; resto convinto della mia scelta).
Woodstock ’99 era iniziato con la follache arrivava a Rome, nello Stato di New York, in quel terribile tempio della morte e della Guerra Fredda che era la Griffiss Air Base, nel pieno di una tremenda ondata di caldo che affrontavamo con bottiglie d’acqua da 4 dollari, nessun angolo per ripararsi dal sole, addetti alla sicurezza improvvisati e non addestrati. Ah sì, poi la situazione è peggiorata. Le ragazze sono state molestate, i maschi urlavano di far vedere le tette. Ci sono state otto denunce di violenza sessuale, molte altri stupri non sono venuti alla luce.
Insieme a Michael Lang, John Scher era uno dei due veterani di Woodstock ’94 coinvolti nello show. Nel corso degli anni si è preso un sacco di critiche per il suo lavoro, allora perché non lasciare che si difenda da solo? È giusto, no? Eccolo allora nel documentario impegnato a riflettere sulle violenze sessuali di quei giorni. Vale la pena citarlo integralmente, perché la sua dichiarazione è tra le cose più stupide che un essere umano abbia mai detto davanti una camera. Guardi la scena e continui a chiederti: ma l’ha detto davvero? Sì, l’ha fatto. Ecco a voi:
«Non c’è dubbio che alcuni incidenti siano avvenuti. Ma se guardi i verbali della polizia locale, di Stato e delle altre forze dell’ordine non sono mica 100. Nemmeno 50. Stiamo parlando di una decina di casi. Io critico le centinaia di ragazze che andavano in giro senza vestiti e si aspettavano di non essere toccate. Non doveva succedere, e condanno chi l’ha fatto. Ma sai, credo che se una donna se ne va in giro nuda, è almeno in parte responsabile».
Specifichiamo: questa non è un’idiozia che Scher ha pronunciato all’epoca dei fatti, in preda alla rabbia e alla voglia di difendersi. No, è quello che dice adesso, dopo averci pensato vent’anni. Ha avuto il tempo di ragionare su cosa sia andato storto e ha deciso di chi è la colpa: delle ragazze. Ad ascoltare le parole Scher non sembra nemmeno che stia parlando di esseri umani.
È il chitarrista degli Offspring Noodles a descrivere la Griffiss Air Base: «In Germania organizzano festival in un posto costruito da Hitler. Ci abbiamo suonato parecchie volte. Ecco, la base era meno ospitale del posto dei nazisti».
L’acqua costava 4 dollari a bottiglia e negli sportelli bancomat il contante è finito subito. Si potevano riempire gratuitamente le bottiglie vuote nei lavandini, sempre che non fossero stati messi fuori uso da chi li usava per lavarsi. Le toilette portatili perdevano liquami. La gente s’accalcava sotto camion e roulotte per ripararsi dal sole. L’unico tetto disponibile era all’hangar degli artisti emergenti ed è lì che molti di noi cercavano rifugio. Gli altri tentavano di rinfrescarsi rotolandosi nel fango. Solo che, ecco, non era fango.
Nel documentario appaiono Jonathan Davis dei Korn, Tariq “Black Thought” Trotter dei Roots, Jewel, Moby, Scott Stapp dei Creed. Non c’è Fred Durst e forse è questo il motivo per cui il set dei Limp Bizkit è editato per fargli fare brutta figura, senza nemmeno un accenno al suo appello al pubblico di «tirare su quelli che cadono». Fred Durst non se ne fregava della sicurezza della gente e la stessa cosa non può essere detta delle persone a cui era demandato il compito di proteggere le persone.
Il documentario è pieno di gente dei media che punta il dito contro un festival a cui non è nemmeno andata e parla di musicisti di cui non frega niente. Meglio le interviste a fan e testimonial, tra cui una a un medico del pronto soccorso: «Ho lavorato dopo gli uragani Katrina, Rita, Sandy, ma quando mi chiedono qual è il disastro peggiore a cui ho assistito rispondo Woodstock ’99». Woodstock ’99-Umanità 0.
Nessuno si vuole prendere la responsabilità di questo gran casino, responsabilità che nelle due ore di documentario viene addossata a Bill Clinton, Hillary Clinton, DMX, Brad Pitt, Anthony Kiedis, Durst, Metallica, Korn, Napster, Columbine, i Doors, Kurt Loder, Carson Daly, Matt Dillon, My So-Called Life, la techno e il millennium bug. Secondo Scher, è stata stata tutta una montatura di MTV News. «Sono stati loro a guidare la narrativa» (onestamente, il tipo sta agli sproloqui come Jonathan Davis stava ai kilt).
Le immagini peggiori sono quelle dei ragazzi bianchi. Si vedono scene brutali fatte da e ai danni di ragazzi i cui visi non sono sfocati. Spero perciò che non riconosciute mamma e papà. O che non riconosciate voi stessi. Io sfortunatamente mi sono visto, per un attimo, mentre assistevo a una delle scene disgustose di cui ho scritto per la cover story di Rolling Stone. Fa schifo oggi come allora.
C’è una cosa che non viene citata nel film. Poche settimane dopo i Beastie Boys vinsero un MTV Video Music Award per Integalactic. Nel discorso di ringraziamento Ad-Rock parlò di Woodstock ed è l’unico che lo fece. «Leggo e sento dagli amici di violenze sessuali e stupri avvenuti a Woodstock ’99 in luglio, e questa cosa mi intristisce e mi fa incazzare». Voleva parlare di come fare per evitare che cose del genere si ripetessero. Fu un momento di verità, ma durò un istante. Oltre vent’anni dopo, la domanda su come è possibile che sia accaduto resta. E resta pure la rabbia.
Questo articolo è stato tradotto da Rolling Stone US.