Damon Albarn – L’ultimo esploratore
Dimenticate la popstar dei Blur e dei Gorillaz. In ‘The Nearer the Fountain, More Pure the Stream Flows’ Damon Albarn è l’uomo che suona le montagne. L’album è una meditazione sulla natura, la vita e la morte scritta cercando di tradurre in note l’incredibile panorama di cui si gode dalla casa del musicista in Islanda. È una grande avventura pop. C’entrano il monte Esja, l’aurora boreale, le navi da crociera bloccate dalla pandemia e la fisica delle particelle
Foto: Matt Cronin
È a un quarto d’ora d’auto dal centro di Reykjavík, in un quartiere residenziale scarsamente abitato. È una casa color mattone, bassa e squadrata. Una vetrata panoramica la separa da una lingua di terra che s’allunga nel mare. Guardando fuori dalla finestra, il padrone di casa Damon Albarn vede il monte Esja. Non è una cima imponente, ma i suoi 914 metri d’altezza bastano per dominare la città. «Negli ultimi anni non ho fatto altro che osservarlo», mi racconta Damon. «Ha la forma d’un gigante addormentato. È diventato la mia musa».
In una giornata particolarmente limpida, da casa sua Albarn riesce a vedere anche la calotta glaciale dello Snæfellsjökull, che sta a due ore e mezzo di auto a nordovest. Lo racconta con entusiasmo e meraviglia. «Sai, è il vulcano reso famoso da Jules Verne in Viaggio al centro della terra». Nei primi capitoli del libro, il professor Otto Lidenbrock trova una vecchia pergamena scritta in caratteri runici dall’alchimista islandese Arne Saknussemm: “Nel cratere Yökull dello Snæffels che l’ombra dello Scartaris tocca alle calende di luglio, scendi, viaggiatore coraggioso, e raggiungerai il centro della terra. La qual cosa io feci”. È l’inizio di una grande esplorazione.
Il viaggio affrontato da Damon Albarn è decisamente meno pericoloso di quello di Lidenbrock, ma a suo modo avvenuturoso. Contemplando la sua musa, ha scritto un ciclo di canzoni sulla natura islandese. Costretto dalla pandemia all’isolamento, l’ha poi trasformato in una più ampia riflessione sullo stato d’animo suo e di tutti noi nell’ultimo anno e mezzo, proiettata sullo sfondo dei paesaggi di Reykjavík e del Devon, dove il cantante possiede un’altra casa. The Nearer the Fountain, More Pure the Stream Flows uscirà il 12 novembre ed è sia una meditazione sull’ambiente, come la chiama l’autore, sia una parabola su morte e rinascita. Non ha nulla dello spirito metropolitano e ipercontemporaneo dei Gorillaz. È un disco fatto di acqua e vento e roccia basaltica. In un certo senso, è Damon Albarn che suona l’Esja.
Da bambino Damon Albarn faceva un sogno ricorrente: «Levitavo e poi volavo su una grande spiaggia nera, vicino a un mare ugualmente scuro». Nel 1995 s’è imbattuto in un documentario del National Geographic sull’Islanda dove ci sono molte spiagge di sabbia nera generata dai detriti d’origine vulcanica. «Ho riconosciuto il paesaggio del sogno: dovevo assolutamente andarci». L’ha fatto per la prima volta nel 1996 e da allora ha continuato a frequentare l’isola, anche per registrare parte degli album Blur e 13 (nel 2021 gli è stata riconosciuta la cittadinanza islandese). «Adoro il carattere islandese, la sua spiritualità nordica, la sua rilassatezza. Non c’è l’isteria che vedo altrove. Ci vado più volte all’anno per soggiorni di una settimana, qualche volta di un mese. È un posto che mi fa sentire in pace».
Una volta ha detto che la vita sull’isola è un pozzo da cui abbeverarsi. Per farlo più facilmente, una ventina d’anni fa ha deciso di costruire la casa fuori Reykjavík da cui vede il gigante addormentato. «Per anni guardando fuori da quella finestra ho osservato la natura cambiare, un movimento incessante e incredibilmente lento. Ho sempre avuto il desiderio di scrivere una sorta di meditazione musicale su questo cambiamento. Quando mi è stata offerta la possibilità di portare a termine qualunque progetto volessi dal vivo, mi sono messo in testa di raccontare quel che vedevo da quella finestra e di farlo con un’orchestra, di far suonare cioè la natura a un’orchestra, di far suonare il tempo atmosferico a un’orchestra».
Secondo il piano originale, Albarn e gli orchestrali avrebbero portato nelle sale da concerto europee il poema musicale sull’Islanda per poi registrarlo a fine tour. Il cantante ha fatto tre prove con un ensemble di una dozzina di musicisti fatti volare sull’isola e sistemati nel salotto di casa, con la direzione del tedesco André de Ridder, con cui l’inglese ha collaborato tra le altre cose per l’opera Dr. Dee e il disco dei Gorillaz Plastic Beach. Poi è arrivata la pandemia, i lavori sono stati chiusi anticipatamente e Albarn è stato costretto a tornare in Inghilterra. In seguito, oltre a presentare i primi estratti di The Nearer the Fountain dal vivo nel suo ex granaio nel Devon, cantando e suonando sopra le registrazioni effettuate in Islanda, il musicista ha ampliato il concept. «Ho voluto articolare i sentimenti di fragilità e di perdita che ho provato durante il lockdown, sentimenti su cui il ricordo della vista dell’Esja ha avuto un effetto catartico. Nel disco descrivo tanti luoghi, dal Devon a Montevideo, ma il mood è dettato dal panorama irlandese».
Per essere un disco ispirato a paesaggi talmente estremi da sembrare extraterrestri, The Nearer the Fountain, More Pure the Stream Flows è stranamente malinconico. Mai deprimente, ma spesso abitato da un senso di solitudine, a volte di abbandono. «Credo che tu possa dire la stessa cosa di buona parte della mia musica, potrebbe essere persino il filo conduttore della mia opera», dice Albarn. Il motivo? «Sono convinto che il carattere inglese, nella sua forma più pura, sia fondamentalmente malinconico. Forse è per via del paesaggio e del meteo, abbiamo queste campagne meravigliose sulle quali pesano spesso nuvole grigie e non fa particolarmente caldo. Se ci pensi, è deprimente. Per sei mesi dell’anno vediamo a malapena il sole. È da quei sei mesi che nasce il carattere inglese e in particolare il carattere musicale: è una forma di scoraggiamento che d’improvviso diventa gioia per poi tornare scoraggiamento. Lo senti in questo disco: l’umore influenzato dal meteo e dall’ansia per l’ambiente, ma anche dagli elementi naturali che diventano fonte d’ispirazione e l’illuminazione derivante dalla comprensione che la natura grazie al cielo c’è ancora, esiste, è abbondante».
The Nearer the Fountain non è perciò un album mesto. Descrive un arco narrativo che va dalla buio alla luce. Darkness to Light, per dirlo col titolo di una delle canzoni. Si apre con una strana pulsazione che sembra uscita dal disco di un minimalista americano. È l’inizio della title track, una rielaborazione di Love and Memory del poeta inglese ottocentesco John Clare, omaggio a una persona amata che ha intrapreso prematuramente il “viaggio misterioso”. Non è che il primo di tanti riferimenti alla morte contenuti nel disco.
Capita che Albarn pensi alla morte, «chiaro che ci penso, ho 53 anni», dice ridendo, «e poi chi non ha paura dell’ignoto?», ma della poesia di Clare ha apprezzato in principio soprattutto il verso che dà il titolo all’album: più vicina è la fonte, più puro è il ruscello che scorre. «Era esattamente lo stato d’animo che volevo esprimere nel disco islandese. Quando ho cominciato a elaborare quell’idea, ho sentito la necessità di esplorare tutta la poesia di Clare e vi ho trovato l’espressione commovente del concetto di perdita. Il fatto che la persona che viene pianta in Love and Memory sia giovane non è importante. Importa invece l’evocazione della fonte. Questo disco è un invito ad ascoltare il suono più puro delle cose, a cercare l’espressione più pura. L’idea stessa della fonte che sgorga da sotto il terreno è metafora di vita».
Canzone dopo canzone, il vuoto evocato dalla title track viene riempito da pezzi che parlano di nuotate in acque pericolose, cormorani, navi portacontainer, trampolieri, spiagge, cime innevate, fantasmi, stelle da guardare per ritrovare la strada, il tutto accompagnato da musiche che stravolgono il linguaggio cantautorale del primo album di Albarn Everyday Robots e suonano spesso come masse di suono instabili, in un’alternanza di vuoti angosciosi e passaggi consolanti. Durante un recente concerto a Manchester, Albarn l’ha descritta come «la musica di una banda solitaria che suona senza avere alcun pubblico di fronte a sé, a bordo di una nave da crociera fantasma». Non è un Titanic, ne è lo spettro e fa venire in mente le navi descritte in The Cormorant. La canzone è ambientata nel Devon, «dove curiosamente ho una casa in un contesto simile a quello dell’Islanda, davanti a una spiaggia». Durante lo scorso inverno è apparsa una nave da crociera ancorata, senza nessuno a bordo per via del Covid. «Il suono del disco è quella cosa lì. Nel posto dove sto, che si chiama Start Point, confluiscono le acque della Manica e dell’Atlantico. È un luogo interessante e pericoloso, l’incontro fra due forze opposte. L’album ha a che fare anche con l’idea del viaggio, un viaggio che mi sono fatto in testa in cui immagino che quelle imbarcazioni navighino fino a Montevideo e oltre» accompagnate da vecchi organi, archi, corni, hamonium fusi in un suono assieme straniante e poetico.
Mentre molti suoi coetanei continuano a fare musica come la facevano negli anni ’90, al limite spacciando come atto rivoluzionario l’uso di qualche beat digitale, Damon Albarn si è lanciato in una serie di progetti talmente vari da disorientare il fan più accanito. Il grande pubblico lo conosce per il lavoro fatto coi Gorillaz, coi quale sta scrivendo canzoni sul carnevale di West London, e naturalmente con i Blur, di cui non esclude una reunion («c’è in ballo un’idea», ha detto restando sul generico). Ha pubblicato l’album solista Everyday Robots e ha fatto due dischi coi The Good, the Bad & the Queen, la band formata col compianto Tony Allen, Paul Simonon dei Clash e Simon Tong dei Verve, quest’ultimo presente in buona parte del disco nuovo. Ha collaborato con artisti del Mali, ha preso parte a una rilettura di In C di Terry Riley, ha inciso con Flea dei Red Hot Chili Peppers, ha scritto l’opera Dr. Dee sul consigliere medico-scientifico di Elisabetta I e il musical Monkey: Journey to the West, adattamento di un celebre romanzo cinese del XVI secolo. E l’elenco non è neanche lontanamente esaustivo.
«Colpevole!», commenta ridendo, consapevole del fatto che i musicisti pop che scrivono opere e musical sono visti con sospetto. Di sicuro Albarn sembra attratto dall’idea di lavorare a opere concettuali. Non è che dopo una certa età il pop gli va stretto? «No no no», reagisce. «Prendi questo disco. Royal Morning Blue è una grande canzone pop. Non esistono la musica seria e la musica meno seria. È che mi piace imparare cose nuove, cercare di migliorarmi. Non ho ricevuto un’educazione formale fino ai 17 anni, e va bene. Conoscere i meccanismi della musica mi ha però aiutato ad articolare meglio quel che volevo dire». Il punto, per questo Lidenbrock del pop inglese, è la voglia di «lanciarsi in grandi avventure musicali», un fatto raro per artisti pop d’una certa grandezza che una volta raggiunto il successo danno al pubblico quel che il pubblico vuole, restando fermi. Da quando i Blur non sono più al centro della sua attività musicale, Albarn ha invece intrapreso un viaggio musicale eccitante.
The Nearer the Fountain, More Pure the Stream Flows riflette l’ampiezza dei suoi interessi e pure delle sue amicizie musicali: ci sono musicisti classici e rock, chitarristi e violiste, tromboni e sintetizzatori, anche un suonatore di marimba le cui tavolette sono ricavate da pietre dei torrenti che si trovano nella zona di Reykjavík. In un mondo di incontri maldestri fra musica scritta e musica pop, in cui la prima viene volgarizzata e usata per dare un tocco di legittimità alla seconda con effetti spesso tremendi, l’album di Damon Albarn offre un esempio virtuoso di collaborazione fra musicisti di diversa estrazione. «Più di ogni altra cosa» dice lui «mi interessa lavorare con musicisti sensibili, che si ascoltano l’uno con l’altro, che sono empatici l’uno con le vibrazioni dell’altro. È la definizione stessa di musica, questa qui. È la cosa più importante e non ha nulla a che fare col background classico o pop o d’altro tipo».
Albarn ha annunciato i concerti del 2022, in febbraio e marzo, in cui eseguirà dall’inizio alla fine The Nearer the Fountain, More Pure the Stream Flows. «L’album si presenterà in due forme», spiega, «quella che sto portando in giro e che è simile alla musica incisa e quella pienamente orchestrale, quando finalmente sarà possibile farlo, che sarà musicalmente più astratta». Per ora non sono previste date in Italia. «Sono stato a Matera alla fine del 2019 ed è stato bello. Onestamente, avevo bevuto troppo ed ero fatto. In Italia ci vengo volentieri. Qualcuno mi fissi un concerto». Lo ripeterà anche a fine intervista, come un esordiente qualunque: «Se vuoi che venga a suonare trovami un ingaggio». Non prova nostalgia per l’epoca in cui i Blur erano al centro della cultura pop e gli ingaggi erano tanti e sostanziosi. «Sono cose che cambiano di continuo, è inutile pensarci. L’ultima cosa che ci vuole per un artista è la coscienza della propria importanza. Meglio restare liberi».
Sull’aereo che lo stava portando un giorno in Islanda, Damon Albarn s’è ritrovato seduto a fianco di una donna rabbino. Le ha domandato che cosa la portasse sull’isola. La risposta gli ha ispirato il finale dell’album e anche un po’ del suo senso: «Fuggo dalle particelle».
Particles non è solo il titolo dell’ultima canzone, quella che risolve la tensione del disco. È anche una parola che ricorre nei testi e ne è uno dei concetti chiave. «Mettiti comodo», dice Damon ridendo prima di lanciarsi in una lunga spiegazione durante la quale improvvisa sul momento una canzoncina in stile Monty Python dedicata alla teoria delle stringhe e punteggiata da tanti “da di da”.
«Ci sono due filoni», dice riferendosi al testo di Particles. « Il primo ha a che fare col fenomeno dell’aurora boreale: le particelle provenienti dalle tempeste solari attraversano l’universo e impattano contro l’atmosfera, esplodono e creano quell’effetto e quei colori meravigliosi. L’altro filone ha a che fare con quello che mi ha detto la rabbina con cui ho avuto una meravigliosa conversazione e che una volta atterrati a Reykjavík non ho più visto. La sua risposta mi è sembrata astratta, ma mi ha affascinato l’idea che qualcuno voglia ripararsi dalle particelle. Sai, il corpo umano è costantemente bombardato dalle particelle che si muovono e si urtano vicendevolmente. È la dinamica stessa dell’universo».
E così nell’ultima canzone Albarn canta di particelle che si posano gioiose sulla pelle, un riferimento sia al fenomeno dell’aurora boreale a cui è possibile assistere proprio in Islanda («in questo caso la pelle è quella della Terra»), sia «all’effetto che le particelle hanno su di noi». Molte particelle che compongono le cellule dei nostri corpi hanno viaggiato nell’universo ed esistono da milioni di millenni. «I tuoi atomi di idrogeno» per usare le parole di un articolo presente sul sito dall’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare «sono stati prodotti durante il Big Bang e quelli di carbonio, azoto e ossigeno sono stati generati all’interno di stelle ardenti. Gli elementi più pesanti sono stati formati dall’esplosione di stelle».
Se la prima canzone dell’album era il racconto di un viaggio inconoscibile da cui non c’è ritorno, l’ultima è la celebrazione della vita che persiste e si rigenera di continuo. È la canzone in cui l’universo balla dentro di noi.