Alcune tra le migliori storie del rock sono anche le più brevi. Dopo aver registrato un solo disco in studio, certi artisti sono spariti. Alcuni sono morti, le band si sono disintegrate per dissidi interni, altri hanno smesso perché non avevano più voglia di scrivere. Ecco quindici album che hanno fatto la storia, ma non hanno avuto un seguito.
15. “Seconds of Pleasure” Rockpile (1980)
I Rockpile facevano rock nostalgico ispirato a Buddy Holly e Chuck Berry, ma lo suonavano come i Ramones: musica veloce, divertente e a tutto volume. Dave Edmunds era ossessionato dal rockabilly e un mago dello studio di registrazione. Nick Lowe era uno scapestrato da pub e un guru della new wave che ha prodotto alcuni album di Elvis Costello. Come Rockpile hanno registrato un solo disco insieme. Seconds of Pleasure replicava le smorfie e l’arrapamento del rock delle origini con una potenza moderna, e la sua esistenza si spiega perfettamente con un verso di Play That Fast Thing One More Time: “Mi smuove qualcosa e mi fa sentire bene”. Musica poco complicata e quasi perfetta.
14. “Blind Faith” Blind Faith (1969)
I Traffic e i Cream si erano sciolti quasi contemporaneamente, lasciando sia Eric Clapton che Steve Winwood senza una band, né un piano per il futuro. Così i due hanno iniziato a suonare insieme nel cottage di Winwood, scoprendo un’intesa incredibile ma senza pensare a una vera e propria band. Una sera arrivò senza preavviso Ginger Baker. «Il volto di Steve si è illuminato subito», ha scritto Clapton nella sua biografia, «mentre il mio cuore è sprofondato, perché fino a quel momento ci stavamo divertendo senza pensare ad altro». La presenza di Baker li ha trasformati in una vera band, con Ric Grech al basso. Il quartetto ha iniziato a tirare fuori canzoni incredibili come Can’t Find My Way Home e Presence of the Lord. L’album di debutto è uscito nell’agosto del 1969 ed è arrivato ai primi posti in classifica in tutto il mondo. Poche settimane dopo, però, la band ha suonato il suo ultimo show alle Hawaii. Per Clapton era una situazione troppo simile a quella dei Cream e cercava nuove sfide: quando Delaney e Bonnie gli hanno chiesto di entrare nel suo gruppo, ha mollato i Blind Faith e non si è più guardato indietro.
13. “The La’s” The La’s (1990)
Non importa se parlasse di eroina o solo di amore non corrisposto, il singolo dei La’s There She Goes è considerato fondamentale per la nascita del brit pop. Il merito è del falsetto di Lee Mavers, mentre il riff di chitarra intensifica la disperazione del protagonista della canzone. There She Goes – che più avanti diventerà una hit degli Sixpence None the Richer – non era un fuoco di paglia. Feelin’ mischia classici ritornelli pop e armonie che ricordavano Beatles e Who, mentre Way Out aveva uno spirito più moderno e post punk. Tuttavia, le registrazioni lunghe e ossessive hanno avvelenato l’atmosfera. «Lo odiavamo», ha detto Mavers del disco poco dopo l’uscita. «Non raccontava nulla di quello che eravamo. Per farla breve, c’erano troppi galli nel pollaio».
12. “Temple of the Dog” Temple of the Dog (1991)
Prima che il grunge esplodesse, alcuni membri della scena di Seattle si sono uniti per celebrare una stella della comunità appena scomparsa. Andrew Wood, frontman di Mother Love Bone e Malfunkshun, è morto di overdose di eroina a 24 anni nella primavera del 1990, nel giorno in cui il suo compagno di stanza, Chris Cornell, tornava dal tour. Per celebrarlo, il cantante dei Soundgarden ha scritto diverse canzoni e fondato i Temple of the Dog con due membri dei Mother Love Bone, ovvero Stone Gossard e Jeff Ament, il chitarrista Mike McCready, il batterista dei Soundgarden Matt Cameron e il cantante Eddie Vedder, appena arrivato a Seattle per l’audizione per i Mookie Blaylock (che poi sarebbero diventati Pearl Jam). Temple of the Dog è stato un disco emotivamente pesante per quei musicisti e mette in mostra una tenerezza che non si vedrà spesso nelle loro altre band. Hanno trasformato la tristezza in un capolavoro.
11. “Colossal Youth” Young Marble Giants (1980)
Kurt Cobain li adorava. La K Records di Olympia sarebbe stata inimmaginabile senza di loro. Consapevolmente o no, qualunque band indie con un chitarrista dal tocco delicato e una cantante che non urla deve qualcosa all’unico disco di questo trio post punk gallese. Se gli eredi dei Giants sono spesso campioni di dilettantismo poco ispirato, quello che colpisce di Colossal Youth è l’incredibile senso di controllo. Le linee di basso minimaliste di Philip Moxham, le chitarre ansiose e l’organo di Stuart Moxham, i clic e i pop della drum machine: nessun suono di questo disco si prende più spazio del necessario e niente è fuori posto. E non importa quanto le atmosfere siano nervose, irrequiete o abrasive, la cantante Alison Statton mantiene sempre la calma.
10. “Madvillainy” Madvillain (2004)
Madlib e MF Doom hanno sempre considerato Madvillain come uno scherzo di cui godere prima di tornare alle rispettive carriere nell’hip hop underground. Il risultato è un capolavoro di beat ellittici, come quello di Accordion, brani avvolti da una nube di ganja come America’s Most Blunted, street rap scontroso come Meat Grinder, con più colpi di scena di un romanzo di Elmore Leonard. Le aspettative sul seguito non si sono mai placate. Ma ora che il rapper non c’è più, questo disco passerà alla storia come la cosa hip hop più simile a quello che Dizzy Gillespie e Charlie Parker hanno fatto nel jazz durante l’era be bop.
9. “Give Up” The Postal Service (2003)
Nel 2001, Ben Gibbard dei Death Cab for Cutie e Jimmy Tamborello (allora conosciuto come Dntel, produttore di musica IDM) iniziano a scambiarsi idee di canzoni sotto forma di cassette audio digitali che si spediscono via posta tra Seattle e Los Angeles. Jenny Lewis, leader dei Rilo Kiley, che abita nello stesso complesso residenziale di Tamborello, fornisce i cori. Il risultato è Give Up, un disco estatico e synth pop che si ribella al machismo chitarristico dell’indie rock del periodo. Ispirati dal new romantic degli anni ’80, i due hanno arricchito le loro ballate computerizzate con orchestrazioni glaciali. Tuttavia, nemmeno le voci robotiche di Gibbard e Lewis riescono a smorzare il melodramma raccontato nei testi. Il singolo hit Such Great Heights finirà in diverse pubblicità e anche nel film Garden State, nella versione acustica degli Iron & Wine. Diventato disco d’oro nel 2005, è finito nel repertorio di tantissimi artisti indie pop come Owl City, Matt & Kim e Passion Pit. Il trio si riunirà nel 2013 per un tour celebrativo, ma ha promesso che non pubblicherà altri dischi a nome Postal Service. «Non solo questa è l’ultima canzone del tour», ha detto Gibbard alla fine dell’ultimo show al Lollapalooza, «questa è l’ultima canzone della nostra storia».
8. “L.A.M.F.” Johnny Thunders and the Heartbreakers (1977)
Un disco accorato e crudele, pieno di cuori spezzati e chitarracce, pensato per accelerare i ritmi del rock anni ’50 e dell’R&B. L’unico album in studio degli Heartbreakers documenta la lotta che i newyorkesi hanno condotto a Londra alla ricerca di amore, fama e di tutto quello che potevano vendere per comprare la droga. Nati nel 1975 dopo che il chitarrista Johnny Thunders e il batterista Jerry Nolan avevano mollato i New York Dolls, nel 1977 sono partiti in tour con i Sex Pistols e poi hanno registrato L.A.M.F. (la sigla sta per Like A Mother Fucker) oltreoceano. Il mix del disco era così inconsistente che Nolan mollerà tutto per un po’. Ma anche dopo un’infinità di remix, canzoni come Born to Lose e Can’t Keep My Eyes On You dimostrano il talento di Thunders alla chitarra, capace di cavare rasoiate piene di dolcezza. Chinese Rocks, scritta da Dee Dee Ramone e Richard Hell, racconta il resto della storia: tutto verrà assorbito dal gorgo della dipendenza da eroina.
7. “Buena Vista Social Club” Buena Vista Social Club (1997)
Arrivato all’Avana con l’idea di registrare alcuni musicisti maliani che non si presenteranno mai, il chitarrista Ry Cooder ha tirato fuori un piano B che finirà per vendere più di 15 milioni di copie. Con l’aiuto del musicista locale Juan de Marcos, Cooder ha messo in piedi una band solida, arricchita da leggende locali come il pianista 79enne Rubén González e il chitarrista 89enne Compay Segundo, insieme alla cantante sessantenne Omara Portuondo. Con Cooder impegnato ad aggiungere sfumature blues e accompagnamenti in stile hawaiano, in sei giorni il suo progetto ha evocato bolero, guajira e altri brani dal fascino ineffabile e nostalgico. E anche se questo strano gruppo di musicisti non si ritroverà mai più, quelle session daranno vita a un altro debutto: Introducing… Rubén González, nato per mettere in mostra il pianista che Cooder considerava un incrocio tra Thelonious Monk e Felix the Cat.
6. “Out of Step” Minor Threat (1983)
Out of Step non è un debutto come gli altri: le sue nove tracce arrivano ad appena 22 minuti. È più il commiato di un quartetto impegnato a spiegare gli ideali sociopolitici dell’hardcore americano. All’epoca, le migliori punk band dicevano quello che dovevano dire, poi o si rinnovavano cambiando line up o sparivano. I Minor Threat avevano già conquistato la scena di Washington con Straight Edge, un inno che genererà l’ideologia di chi non assume alcol, né droga. Poco dopo, a causa di conflitti personali e problemi di soldi, la band si scioglierà. Diversi decenni dopo, l’urlo leggendario di Ian MacKaye nella title track risuona ancora, era la forza primitiva di un giovane fuori controllo alla ricerca di qualcosa in più: “Non fumo! Non bevo! Non scopo! Almeno posso pensare, cazzo!”.
5. “The Modern Lovers” The Modern Lovers (1976)
La prima incendiaria line-up dei Modern Lovers è stata insieme abbastanza a lungo per registrare un classico avant punk pieno di tensione, ironia e autoanalisi. Lo pensano tutti, a parte il visionario cantante Jonathan Richman, che cercava di distanziarsi dal progetto anche mentre lo registrava. «Jonathan era già su una strada diversa e il produttore John Cale voleva un suono pieno di rabbia e violenza, era quello che ci caratterizzava all’epoca», ha detto il bassista Ernie Brooks, che ha suonato in quelle session col tastierista Jerry Harrison (poi nei Talking Heads) e il batterista David Robinson (poi nei Cars). Brani folli e ipnotici come Roadrunner e Old World non mostravano una nuova strada da percorrere, ma sembravano piuttosto un attacco a sorpresa. Quell’atteggiamento così stridente è arrivato fino ai Sex Pistols e possiamo ascoltarlo ancora oggi nei gruppi punk più sperimentali come Parquet Courts.
4. “Grace” Jeff Buckley (1994)
L’eredità di Grace, lo straziante album di Jeff Buckley, ha vissuto ben oltre la sua tragica morte nel 1997. In equilibrio tra minimalismo e disperazione, Grace è un capolavoro di scrittura, talento musicale e potenza vocale, con la voce da angelo straziato di Buckley che riempie ogni brano di sofferenza. Il pezzo più famoso è la cover di Hallelujah di Leonard Cohen, una versione che sembra più una riflessione su amore e fede e che ha quasi messo in ombra l’originale, grazie all’uso frequente in colonne sonore e come sottofondo a servizi tv su tragedie nazionali. Buckley non ha mai assistito al successo del pezzo, visto che non è mai uscito come singolo mentre era in vita. Aveva solo 30 anni quando è affogato durante una nuotata in un canale del Mississippi. In quel periodo stava lavorando al secondo album.
3. “The Miseducation of Lauryn Hill” Lauryn Hill (1998)
The Miseducation of Lauryn Hill è un disco colossale. Una rappresentazione definitiva e trionfale della versione afrocentrica dello spirito bohémien già sperimentata dal vecchio gruppo della Hill, i Fugees, e dell’ethos nazionalista incarnato da eroine come Queen Latifah. Ma più di ogni altra cosa, è un disco femminista che parla d’amore, politica e moralità, di una donna in cerca di equilibrio tra carriera e maternità. Si sente nel gioioso tributo al figlio To Zion, all’attacco rap all’ex partner dei Fugees Wyclef Jean Lost One. Un altro aspetto essenziale del mito di Miseducation: Lauryn Hill sarà la prima artista hip hop a vincere un Grammy per il miglior album. Si è poi praticamente ritirata dalle scene, lasciandoci immaginare un seguito che non è mai arrivato.
2. “Layla and Other Assorted Love Songs” Derek & the Dominos (1970)
È il capolavoro di Eric Clapton. Ma la dipendenza dall’eroina o la nota infatuazione per Patti Harrison non sono sufficienti a spiegare la performance più intensa della sua carriera. Clapton era, per una volta, un primus inter pares, non competeva per avere più attenzione in un supergruppo e non cercava nemmeno l’anonimato dei turnisti. E mentre il tastierista, cantante e co-autore Bobby Whitlock gli guardava le spalle, la sezione ritmica formata dal bassista Carl Radle e dal batterista Jim Gordon era un motore dalla precisione incredibile, e la slide sognante di Duane Allman faceva da perfetto contrappunto alle frasi staccate e pungenti del chitarrista. La band non riuscirà a restare insieme e si scioglierà durante la session successiva.
1. “Never Mind the Bollocks, Here’s the Sex Pistols” Sex Pistols (1977)
Quando hanno pubblicato il loro primo e ultimo album in studio, i Sex Pistols erano già la band più famosa del Regno Unito. Chi si occupava delle classifiche pop del Paese non voleva nemmeno scrivere il loro nome – li consideravano volgari hooligan – quando God Save the Queen è arrivata al secondo posto, nel maggio del 1977. Il disco sarebbe comunque stato un punto di svolta culturale, non importa cosa ci fosse dentro. Ma dato che Bollocks conteneva 12 brani furiosi che inneggiavano al caos (Anarchy in the U.K.), godevano della pigrizia (Seventeen) e celebravano oscenità (Fuck This and Fuck That), il disco è esploso e ha cambiato tutta la musica, influenzando chiunque, da Axl Rose a Neil Young. La voglia di caos del gruppo finirà per consumarli, quando l’avversione verso gli altri membri del gruppo e verso il manager Malcolm McLaren ha portato Johnny Rotten a mollare tutto direttamente sul palco, poco più di due mesi dopo l’uscita dell’album.
Questo articolo è stato tradotto da Rolling Stone US.