Elenco non esaustivo di cose che Iggy Pop ha fatto negli ultimi dieci anni: ha cantato La vie en rose, ha duettato con Kesha, ha scritto due testi per Zucchero, ha interpretato una canzone risalente ai tempi della corsa all’oro il cui ritornello fa “too-ra-li-oo-ra-li-oo-ra-li-ay”, ha partecipato al disco natalizio di Kylie Minogue. Se non vi va giù il fatto che uno dei più grandi rocker della storia abbia fatto un pezzo coi Måneskin potete citare queste cose qui. Potete dire che è rincitrullito, che è un vecchio, che è un venduto. È esattamente quel che stanno facendo i rocker da tastiera sui social. A quanto pare sono più selvaggi di Iggy Pop: a lui i Måneskin vanno bene, a loro no.
Nel caso siate appena tornati da un ritiro spirituale in un eremo, la notizia è che uscita la versione di I Wanna Be Your Slave cantata da Damiano con Iggy. A giudicare dai commenti che ho letto nei giorni scorsi sui social, nessuno ha sentito il bisogno di ascoltarla: le opinioni sulla collaborazione erano già pronte e polarizzate. E del resto perché aspettare e perdere tre minuti per sentire il pezzo quando puoi dire la tua opinione secca e definitiva su Facebook?
Se aveste aspettato, avreste scoperto che si tratta della versione pubblicata su Teatro d’ira Vol. 1 con l’aggiunta della traccia vocale di Iggy che si dà con un certa generosità, alterna e sovrappone la sua voce a quella di Damiano David, piazza risatine, un paio di “ok” e qualche espressione eccitata, chiude col tono arrochito dai suoi 74 anni: “I wanna be your slave, I wanna be your master”. È migliore dell’originale e in bocca a lui, che un po’ d’esperienza ce l’ha, trova finalmente un senso anche la parte del testo sulla ricerca di redenzione che sembrava prematura detta da un ventenne o poco più. E anzi l’effetto sul significato della canzone della presenza di una voce adulta e consumata è una delle cose migliori di questa versione.
Musicalmente è il 2021 che imita il 1969 e difatti c’è anche il 45 giri in vinile, come allora. È persino meglio di molte cose fatte dallo stesso Iggy Pop – ascoltate una delle sue ultime collaborazioni, L’appartement con Clio. Chiaro che i Måneskin non sono all’altezza di Iggy Pop, mi sento persino stupido a scriverlo. Del resto nemmeno Iggy Pop è più all’altezza di Iggy Pop.
Inutile cercare similitudini tra I Wanna Be Your Dog degli Stooges di Iggy (Damiano per la cronaca ha interpretato il pezzo del ’69 nella colonna sonora di Crudelia) e I Wanna Be Your Slave, anche se la seconda deriva dalla prima. Quella del 1969 era la manifestazione sonora selvaggia e oscena di un impulso laido, con un boogie pianistico ridotto a un martellamento mononota. La sua forza derivava dalla sua ottusità e dal senso di minaccia che trasmetteva. Quella dei 2021 è una dichiarazione di sottomissione, nel senso di S&M, che però non ha nulla d’offensivo o estremo. Sarà il ritmo, sarà il riff, ma specie nella versione senza Iggy somiglia a una celebrazione più che al riscatto evocato dal testo. È il sesso come festa. Utilizza un modello di rock che oggi suona consunto a chi ha sentito tanta musica, ma che evidentemente funziona. Una volta Bob Dylan ha detto che va bene copiare, ma bisogna andare direttamente alla fonte. Non caverai niente di sensazionale ispirandoti a un gruppo che si rifà ai White Stripes che a loro volta si rifacevano ai Led Zeppelin che suonavano Howlin’ Wolf. Devi andare dritto a Howlin’ Wolf e rifarlo a modo tuo: solo così puoi cavarne fuori l’energia e fare qualcosa di personale. Forse Dylan aveva ragione, di nuovo.
Dice il manager Michele Torpedine che nel 1988 per avere la tromba di Miles Davis in Dune mosse di Zucchero sono stati pagati 100 milioni di lire. Soldi spesi bene. Trenta e passa anni dopo, la tromba è sempre lì, dei milioni non si ricorda quasi più nessuno. Anche quelli per i Iggy Pop sono soldi ben spesi. Non è una collaborazione orizzontale. Si capiva dal video diffuso due giorni fa che non c’è grande intesa fra la band e il rocker ed è normale: lui sta negli Stati Uniti e loro in Italia, lui ha superato i 70 e loro i 20, lui è una leggenda e loro no, lui è il master e loro gli slaves che dicono «puoi fare quello che vuoi con la nostra canzone», il che è molto appropriato visto il testo del pezzo. Non sono insomma i R.E.M. che fanno un disco con Warren Zevon, non è Lou Reed che crea qualcosa di nuovo con i Metallica, non è (eccoci) David Bowie che porta Iggy Pop a Berlino. È Iggy Pop che registra a distanza la sua voce su una canzone già pronta, sostituendo Damiano in alcune parti, come usa nell’hip hop e nell’R&B quando si riedita un pezzo con un grosso feat, per rilanciarlo. Solo che oggi commercialmente i Måneskin sono più forti di Iggy. Non è come avere un feat di una popstar per mescolare i pubblici, in ballo c’è dell’altro.
Di questa nuova versione di I Wanna Be Your Slave conta il significato simbolico. È il riconoscimento di quello che i Måneskin sono diventati: uno dei gruppi rock che vanno di più al mondo in questo momento. Non è un’esagerazione. Mentre scrivo queste righe i quattro romani hanno quasi raggiunto i Maroon 5 su Spotify. Qualora li superassero diventerebbero (reggetevi) la band che su Spotify ha il numero più alto di ascoltatori mensili al mondo, tre volte tanto (e passa) gli U2. Dopo i numeri è arrivata anche la benedizione di Iggy. Slave è anche il manifesto del gruppo, più di Zitti e buoni che pure ha vinto Sanremo e l’Eurovision. Lo è per via del tema, il sesso, che è diventato un fattore centrale nel successo dei Måneskin, un successo che passa per i loro corpi com’è sempre stato nel rock e nel pop. Il lato più interessante però non è quello della liberazione dai tabù, non siamo negli anni ’60, con lo stesso telefono col quale vedo Victoria far colare la saliva in bocca a Ethan posso andare su YouPorn. Più significativo è il discorso che portano avanti sulla sessualità e quello sì che è contemporaneo.
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Ascoltare I Wanna Be Your Slave con Iggy mi ha fatto pensare che che certi miti sono più preziosi per chi li adora che per chi li crea. È raro che i musicisti manifestino il settarismo tipico degli appassionati maniacali di rock, che spesso nutrono un senso di superiorità di proporzioni colossali verso il prossimo e considerano certe collaborazioni alla stregua di ammutinamenti. Qualche ragione ce l’hanno, è ovvio. Di tipo culturale: per farla breve, i Måneskin non vengono dal rock come sottocultura, ma come spettacolo. E il loro rock è un po’ cheesy («Italian formaggio rock sensations», scrive scherzando Brooklyn Vegan). Iggy Pop che canta coi Måneskin fa impressione, ma non è una cosa assurda per l’americano, che non ha mai fatto il prezioso. Mentre in Italia si dibatteva sul fatto che i Måneskin sono o non sono rock, è arrivato lui, ci ha tirato un coppino e ci ha detto: ma certo che lo sono, razza di scemi che non siete altro. Forse la ricerca di esclusività non è che una forma un po’ più evoluta di provincialismo. Perché il rock può essere anche questa cosa qui, non tre accordi e la verità come diceva Bono, ma tre accordi e un’erezione.
Elenco non esaustivo di cose che Iggy Pop ha fatto nei primi dieci anni di carriera: ha contribuito con gli Stooges a porre le basi del punk, ha ideato un nuovo tipo di frontman rock, ha fatto cinque dischi fenomenali (non belli: fenomenali), si è fatto talmente tanto da entrare in un istituto neuropsichiatrico, ha formato con David Bowie e Lou Reed la sacra trinità del glam, ha scritto un pezzo di storia del rock senza ottenere grandi riconoscimenti, che sono arrivati dopo. Incarna un patrimonio di rockaggine e di verità che non si cancella nemmeno con due, tre, cinque dischi mediocri o con una collaborazione strampalata con Kylie Minogue. Iggy è il nostro Papa. Ha raggiunto la santità non facendo miracoli, ma commettendo peccati. Se ti concede l’indulgenza plenaria sei libero da ogni peccato, subito, all’istante. E quindi andate in pace, Måneskin. La brutta cover di Beggin’ che tanto piace su TikTok, certe banalità da sussidiario del rock, la frase indecente «noi non ci droghiamo, per favore non ditelo»: è tutto perdonato. Passate l’estate a leggere Please Kill Me, fate cazzate a non finire, mandate affanculo chi vi vorrebbe topi da biblioteca del rock. E in autunno tirate fuori un disco degno dei numeri che fate e della fiducia del Papa.