Prendendo l’esempio da Paesi come la Francia e la Grecia, dal 6 agosto anche in Italia è entrato in vigore il sistema che richiede la verifica di un green pass per accedere al genere di luoghi in cui c’è rischio di assembramento e, dunque, di maggiore esposizione al coronavirus. Per avere un green pass valido è necessario aver ricevuto una o due dosi di uno dei vaccini autorizzati dall’Unione europea, essersi sottoposti a un tampone di recente o aver avuto il Covid ed esserne guariti. Presentandosi all’entrata di uno degli spazi che richiedono il green pass, la verifica viene effettuata attraverso un’app.
È qui che per alcune fasce già marginalizzate della popolazione cominciano i problemi.
L’app di verifica della validità del green pass rende infatti visibile il nome e cognome della persona a cui appartiene il certificato a chiunque lo scannerizzi. Oltre a tutta la confusione alimentata dalla ministra degli Interni Lamorgese, che ha affermato che i titolari delle attività non chiederanno i documenti per confermare i dati del green pass salvo poi essere smentita dal Garante della Privacy, è proprio l’attuale sistema di verifica che riflette delle grosse dimenticanze.
“L’App di verifica rende visibile il nome anagrafico e il cognome della persona a chiunque scannerizzi. Questo costringe le persone trans che non hanno avuto accesso alla rettifica dei dati anagrafici a continue richieste di identificazione”, ha denunciato l’associazione romana Gay Center, i cui attivisti hanno ribadito comunque l’importanza di rispettare le norme, di utilizzare gli strumenti previsti da legge e di vaccinarsi. “Sono critici invece alcuni aspetti che riguardano l’identificazione e la privacy”, hanno però notato.
Al centro della questione stanno le persone transgender che non hanno cambiato i propri dati anagrafici – che sia perché il processo per farlo è lungo, costoso e tortuoso e richiede la sentenza di un Tribunale o per qualsiasi altra ragione e quelle persone la cui presentazione fisica non coincide, a primo sguardo, con le norme di genere legate al sesso assegnato loro alla nascita – si pensi a non-binary e genderfluid.
Il fatto che i dati presenti sui loro documenti non coincidano con il loro aspetto fisico e la loro identità obbliga quindi queste persone – che già vivono in un Paese che ha molta strada da fare per quanto riguarda l’inclusività – a tanti umilianti coming out quotidiani. Il problema era già stato sollevato settimane fa dalla comunità trans* francese: “Dovremo rivelare la nostra transidentità agli estranei più spesso, mettendoci in pericolo”, aveva raccontato la co-fondatrice della rivista transfemminista XY. “Se dobbiamo rivelare il fatto che siamo trans a tutti i proprietari di bar, ci esponiamo alla transfobia, alla rabbia, al rifiuto di ingresso nel locale, alla violenza fisica…”
“L’effetto di questa situazione sarà aumentare l’isolamento e l’esclusione delle persone trans e con varianza di genere, che dovranno scegliere se privarsi della loro privacy e della sicurezza che ne deriva o di servizi essenziali per la loro salute e socialità”, sottolinea il Gay Center, preoccupato anche per i problemi che la verifica del green pass così com’è ora solleva per le persone sieropositive e quelle migranti.
A sollevare la questione in luce di una circolare del ministero dell’Interno secondo cui “il controllo del documento è necessario solo quando emergono differenze evidenti tra i dati riportati sul green pass e l’aspetto della persona” è stata anche la senatrice del Partito Democratico Monica Cirinnà. “Alcuni giornali, oggi, fanno proprio l’esempio della persona di aspetto maschile che presenti un Green Pass con dati femminili e viceversa”, scrive Cirinnà. “Questa è esattamente la situazione in cui si trovano le persone trans in attesa di rettifica anagrafica”.
Per cercare di trovare una soluzione momentanea al problema, l’associazione Gruppo Trans ha creato una “help card” che le persone trans possono portare con sé quando si recano in uno spazio che richiede la verifica del green pass. “Sono una persona trans*. Nome e genere sui miei documenti non corrispondono al mio aspetto. Per favore, evita domande e commenti che possano espormi pubblicamente”, si legge. L’associazione ha anche messo a disposizione il proprio team legale.
“Basterebbe molto poco per non esporre lə cittadinə a situazioni abusanti e potenzialmente pericolose: il caso del green pass evidenzia secondo me la mancanza di una sensibilità sul tema”, spiega a Rolling Stone Italia Isabella Borrelli, digital media strategist e attivista LGBTQ+.
Il caso del green pass, che Borrelli chiama “oltremodo invasivo a livello personale e emotivo”, “espone anche le persone trans* a potenzialmente molto più fenomeni discriminatori e micro aggressioni in base alla loro identità di genere. Questo genere di micro aggressioni sono purtroppo comuni per le persone con identità di genere non binarie e/o transgender. Un esempio è la consuetudine di dividere in file per genere chi aspetta di esprimere la propria preferenza di voto alle elezioni: le persone trans* sono costrette ad esporsi in un outing forzato nella fila non del proprio genere, ma di quello riportato nei documenti”.
“E ancora”, continua l’attivista, “in tutte quelle dimensioni di sala d’attesa – anche all’interno della nostra sanità pubblica – in cui viene chiamato nome e cognome della persona in spazi pubblici. Queste pratiche sono semplicemente non necessarie: così come per le file in seggio è possibile disporle – come alcuni già fanno – per ordine di arrivo, così per il controllo del green pass basterebbe indicare il cognome e l’iniziale del nome che, insieme al codice identificativo unico, non lasciano margine di errore sull’identità”.