Tra le poche cose oggettive di questo mondo ci sono i numeri, e se dobbiamo identificare chi sia la più grossa superstar urban dell’industria musicale contemporanea è difficile non pensare a Drake, ancora più ecumenico di J Balvin, con cui pure a livello di numeri se la gioca per il titolo. Questo è lo status con cui il canadese giunge al suo sesto album, Certified Lover Boy, uscito venerdì.
Piacciano o non piacciano il suo stile e il suo personaggio, l’influenza e l’importanza di Drake sulla black music degli ultimi dieci anni sono fuori discussione, ma se da grandi poteri derivano grandi responsabilità, forse una di queste, per un artista, dovrebbe essere anche quella di non sedersi sugli allori.
L’idea è che il disco non sia brutto, ma piatto. Che se Drake non esistesse già e non avesse già avuto l’influenza che ha avuto sulla musica degli ultimi dieci anni sarebbe anche un lavoro affascinante, ma che nelle condizioni attuali si tratti veramente di un more of the same, il disco di Drake che potrebbe fare un algoritmo caricato con tutti i suoi brani precedenti, un disco che sai già come sarà dall’inizio alla fine anche prima di ascoltarlo.
I testi, i suoni, l’atmosfera, i sample, le tematiche, il flow, le collaborazioni: tutto è esattamente come ci si aspetta già da prima di schiacciare play. Sicuramente piacerà ai tanti suoi fan che non chiedono niente di più, e sicuramente si tratta di un progetto riuscitissimo dal punto di vista industriale, ma forse ogni tanto è anche il caso per noialtri che ci occupiamo di musica da un punto di vista critico di concentrarci sull’aspetto artistico di dischi importanti, e sul percorso dei loro autori. Su quanto e come un artista stia o meno cercando di andare oltre i suoi limiti, di fare qualcosa di nuovo e di interessante.
A volte l’ansia di essere creativi porta a fare passi più lunghi della gamba, a pensare che quello che si sa fare bene allora sia banale, e a voler fare a tutti i costi allora qualcosa di diverso. A volte riesce bene e a volte no, ma Drake non ha questo problema: sta nella sua comfort zone con totale rilassatezza e autocompiacimento, forse troppo, se quello che dieci anni fa era nuovo e originale ora sembra diventato musica da ascensore.
Drake ha lo status per fare quello che vuole: provare altri generi, altre collaborazioni, altri suoni, ma sceglie di non farlo. Una No Friends in the Industry sembra un remake di Started from the Bottom, e se il momento di un disco in cui ti svegli un attimo è l’entrata di Rick Ross (che a me piace, ma innegabilmente ha lo stesso flow da tutta la vita) forse non è un buon segno.
Rinunciare alla possibilità di sorprendere è grave per un artista, e se a salvare i già poco riusciti e troppo lunghi Views e Scorpion era almeno la presenza di una manciata di fortissime hit da club come One Dance, Hotline Bling, God’s Plan, Nice for What e In My Feelings, qui sembrano mancare pure quelle.
Forse Girls Want Girls seguirà questa traiettoria, ma sembra un po’ troppo dimessa per poter davvero funzionare a quel livello.
Non aiuta le sorti dell’album anche l’insopportabile dittatura delle piattaforme di streaming per la quale, per fare i record a tutti i costi, si fanno uscire questi dischi infiniti (tendenza di cui Drake è stato un precursore). Con 39 producer per 21 canzoni sembra quasi incredibile che nessuno abbia provato a dire «ehi ma perché non proviamo a fare qualcosa di un po’ diverso?», al punto che non può non essere una scelta deliberata.
Quindi non si tratta di un lavoro non riuscito, ma di qualcosa che centra il suo obiettivo, solo che è un obiettivo che ci sentiamo di considerare un brutto segnale. Perché va ricordato che non stiamo parlando di un disco qualsiasi, stiamo parlando di uno dei progetti discografici più importanti dell’anno, del nuovo album di uno è che appena stato eletto artista del decennio da Billboard e i cui numeri non possono che confermare questa certificazione. Piaccia o meno, con numeri del genere la sua rilevanza è innegabile e la sua influenza ovunque. Ed è triste che proprio chi dovrebbe indicare la direzione si accontenti di stare sul percorso che ha già segnato da tempo. Perché è vero che è sempre stato uno in grado di cavalcare i trend del momento più che di crearne di nuovi, ma un tempo ha saputo farlo con una freschezza di cui sembra non esserci più traccia (anche perché il genere, per forza di cose, è invecchiato). E una volta il suo ruolo era quello di pescare da trend effettivamente innovativi e portarli al grandissimo pubblico. Ora non c’è niente di innovativo in un disco che suona esattamente come decine di altri degli ultimi cinque anni, che suona come i suoi stessi imitatori – peraltro in un contesto globale di uscite a ripetizione e in cui i cicli e l’attenzione vanno a esaurirsi molto più velocemente in che passato.
L’arte non dovrebbe essere catena di montaggio, produzione seriale di un format di successo. O meglio, non deve necessariamente esserlo, anche quando punta ai grandi numeri. Soprattutto quando si ha anche la tranquillità di poter contare su una pregressa fan base talmente vasta da non potere, in ogni caso, davvero fallire. E invece Certified Lover Boy è un disco rassicurante, che dà al pubblico quello che vuole e neanche una virgola di più.
La contingenza temporale sembra obbligare a paragonarlo all’altra Grande Uscita in pompa magna del periodo, ma è un paragone che non ha neanche senso esplicitare. Meglio parlare di Certified Lover Boy per quello che è e, soprattutto, per quello che non è, e poi ognuno tragga le sue conclusioni rispetto ai progetti e alle visioni di altri artisti (insomma, se pensate che Donda sia una cagata non sarà comunque Certified Lover Boy a farvi cambiare idea).
Per carità, nessuno avrebbe preteso che Drake diventasse improvvisamente i Cannibal Ox. Toosie Slide, per dire una cosa recente, non è esattamente un capolavoro avanguardista né una delle sue prove migliori, ed è fondamentalmente un progetto realizzato con il preciso intento di diventare virale su TikTok (il nome è ispirato a un influencer popolarissimo sulla piattaforma, e il ritornello indica le mosse da seguire per il balletto, un po’ come nei balli di gruppo di un tempo), però quantomeno era qualcosa di diverso, un guizzo, una cosa che avrebbe spezzato la monotonia se inserita in un disco come questo.
Quando ascoltavi Take Care non ascoltavi nulla di inaudito, ma una formula fresca e riuscita sì; anche Nothing Was the Same era un ottimo disco; la recente raccolta Care Package ci ha ricordato che tra il 2010 e il 2016 Drake è stato veramente un’incarnazione dello spirito del tempo. Ora i record polverizzati ci ricordano che sicuramente è una macchina perfettamente funzionante, ma il disco sembra volerci fare dimenticare quando questo bolide di lusso era anche in grado di emozionarci ed entusiasmarci.