“Sarebbe bello finire così”, La fine dei vent’anni… Ok, ma quindi come vive la fine, Motta? «Ho imparato a godermela. Una volta, quando le cose belle stavano per terminare, mi prendeva la malinconia», mi spiega a ridosso dell’ultimo concerto del tour estivo di Semplice, quello di ieri all’Auditorium Parco della musica di Roma, città che per lui ormai significa casa, famiglia, lavoro. Dicevamo? «Non so se abbia una nuova consapevolezza, più probabilmente ho solo inventato degli stratagemmi efficaci per sopportare la conclusione di un tour. Ma va bene così». Va bene così, va bene che il cerchio aperto con un’intervista intitolata “Riconnesso”, riconnesso col mondo e con sé attraverso un disco e un live dopo quasi due anni di fermo e una pandemia, si chiuda con uno show dal vivo. «D’altronde», confessa, «cominciare a girare ha fatto bene alla mia salute mentale. Se si escludono i motivi che non dipendono da noi, il bilancio è positivo sia dal punto di vista tecnico che umano».
Con calma. Partiamo da quello tecnico. «Non mi interessava mettere in piedi un set acustico, a misura ridotta». L’hanno fatto in molti, però, per via del Covid. «Non io. Sono qui con la squadra al completo, com’è giusto che sia. Mi spaventa lo snellimento delle produzioni: non vorrei ci si abituasse, i risultati ne risentono». E in effetti al lungo show di Semplice non manca niente, partendo dai brani nuovi (che occupano il primo blocco, e sono riproposti in veste simile a quella da studio, quindi parecchio complessa) e arrivando agli inizi, al rock, alla parte intima e a quella psichedelica. «Ma del resto La fine dei vent’anni, Vivere o morire e l’ultimo sono una sorta di trilogia: raccontano un’unica storia, la mia. E questa è la scaletta più completa che ho mai redatto». Quasi due ore in tutto, in scena su uno spazio essenziale con luci coperte di cartapesta per terra, con chitarra, basso, batteria, tastiere e violoncello. L’impatto è forte, lui molla presto i remi – acustica in apertura, percussioni di rito poi – per dimenarsi, saltare, inginocchiarsi, seguire quelle ritmiche che sono impalcatura, in bella mostra, simili a canti tribali, primitivi, a cui Motta stesso si abbandona. L’emozione, chiaro, è tanta. Ma l’artista toscano resta un mistero: un attimo, vestito di nero com’è, magro che sembra un unico fascio di nervi e capelli, pare un’ombra, uno che si sforza persino di sorridere; l’attimo dopo manda dediche d’amore e baci, si commuove, non smette di ringraziare.
E fa ballare. Ok l’attacco con il trio composto da A te, E poi finisco per amarti e L’estate d’autunno, ok pure Via della luce e gli altri brani di Semplice tra cui Qualcosa di normale, su cui compare la sorella Alice; ma poi si fatica a restare seduti, e lui stesso al giro di boa invita gli spettatori ad alzarsi restando sul posto. Mi confessa: «Spiace che per un’estate intera abbiamo rispettato le regole mentre intorno c’erano assembramenti incontrollati per Europei o eventi simili. Io l’ho fatto volentieri, ma ci siamo sentiti presi in giro. Chi ha organizzato dei festival è un supereroe, poco da dire». Eccolo, è il primo sprazzo di – se non rabbia – perplessità. Ma ci arriviamo. Dovevamo dire della testa. «Io ho bisogno di vedere la faccia della gente di fronte a me, non di contare gli ascolti. E infatti questo disco ha iniziato a respirare a luglio, quando l’ho battezzato davanti a una platea. I concerti sono tutto. Pensa che da ragazzino facevo cover: ho cominciato a esibirmi, poi a comporre. Una persona l’altro giorno mi ha scritto: “Nessuno ha mai sentito Motta, se non hai mai visto Motta dal vivo”. Per me è un complimento, sono contento di dare il massimo su un palco. Perché è lì sopra che vedi quanto un artista è vero, sincero».
Poi, comunque, per essere un’ultima data l’atmosfera di festa propende su quella malinconica. E tutto appare coeso, a fuoco che è un peccato perdersi così, specie nel secondo blocco di classici come La fine dei vent’anni (ad aprire i conti col passato), Del tempo che passa la felicità, Sei bella davvero e La nostra ultima canzone, tutti riletti in chiave più estrema e psichedelica – come del resto avviene in Quando guardiamo una rosa, a casa ballata posata e qui vortice di distorsioni – senza cercare l’effetto karaoke. E qui vince. Quello che colpisce, infatti, è che non è il classico live it-pop in cui cantare a squarciagola, un po’ freddo e sparagnino, ma un’esperienza coinvolgente, suonata e ambiziosa, neanche facile da digerire, viste le lunghe code strumentali, gli assolo, le sonorità ruvide, la vocalità audace. E stupisce, in questo senso, il pubblico: affettuoso e numeroso, attento, non occasionale, sinceramente vario, che quando gli urla “bravo!” (e glielo urla, eccome) senti che è per merito e non per idolatria. Il resto, è sul palco. «Si è creata una bella alchimia con tutto il gruppo. E dire che fra le mani non avevamo un disco facile da trasporre dal vivo, specie per le partiture per archi. Ci siamo riusciti da subito, non c’è stato neanche bisogno di rodaggio. Forse perché siamo stati uniti, disciplinati, come sentissimo la responsabilità di “tornare”».
Una responsabilità che, dopo quest’ultima tappa, va in pausa. Prima c’è tempo per sperimentare ancora sul tema però, con l’accoppiata Se continuiamo a correre e Roma stasera – entrambe dall’album di esordio – che alza il tiro con un lungo flusso di sensazione world violente, percussioni asfissianti e chitarre impennate, con la lucidità del cantautore navigato ed entusiasmo da rockstar, che addirittura lo fa scendere in platea; se fossimo in una situazione normale, qualcuno pogherebbe, per stasera ci si sfoga ballando in piedi, sul posto, e va bene così. Anche perché poi il circo si spegne: Ed è quasi come essere felici tira il freno, Mi parli di te è una dedica intima al padre presente in sala che finisce in commozione, e allora siamo ai saluti. E, come a tutte le feste, un po’ di malinconia sale. Qui, forse, proprio un velo di tristezza.
«Ci vediamo prestissimo», promette col sorriso dopo Abbiamo vinto un’altra guerra, con la gente ormai tutta in piedi. Sì, ma dove? «Quando non c’erano i palchi, mi esibivo pure per strada: sono pronto a farlo ovunque», mi confessa. Però? «Però per l’autunno non abbiamo disposizione: io terrei pure dei progetti, eh; ma non so se sono fattibili, è questo il problema». I «fattori che non dipendono da noi» dell’inizio, eccoli. Continuare a rispettare le regole, certo; ma fra Green Pass e vaccini, mi dice, qualcosa deve pur muoversi. Ancora: «Alla data di Torino abbiamo parlato con gli Shame, inglesi in tour internazionale. Ci hanno detto che restrizioni del genere le hanno viste solo in Italia. Dovevamo far finta che fosse una partita di calcio? Tutto ciò è ridicolo. Penso alle maestranze, ma anche ai piccoli artisti che non possono suonare. Se La fine dei vent’anni fosse uscito in un momento del genere, non staremmo qui a parlare». Altro che terzo album, Auditorium pieno e band al seguito. «A quest’ora avrei un altro mestiere».