Se i Talebani conquistano per due volte il tuo paese – e stiamo parlando dei guerriglieri più duri, più coriacei, più feroci dell’epoca moderna – e tu sei un musicista afghano, non c’è nemmeno bisogno di dirti cosa devi fare. Devi prendere i tuoi strumenti musicali e andare a nasconderli in fretta da qualche parte, meglio sottoterra, perché altrimenti sai già che saranno guai. E poi devi trovarti una nuova occupazione che ti tenga molto lontano dalla musica. Dimenticati tutto quello che hai fatto. Cambia settore, perchè ti conviene.
I Talebani odiano la musica e gli strumenti musicali perché credono che siano impuri. Seguono una regola facile per decidere che cosa si può ascoltare e che cosa no. Se in un pezzo musicale sentite soltanto la voce umana da sola oppure in coro allora è legale. Se invece ci sono strumenti, fosse anche soltanto un colpo di tamburello ogni due minuti, allora è musica illegale. Fateci caso se guardate uno dei loro video di propaganda: negli inni che fanno da colonna sonora non ci sono mai gli strumenti musicali. In pratica permettono soltanto nenie che assomigliano molto alla traccia “solo voce” di un pezzo trap (l’ho detto all’inizio: sono spietati).
Anis Angar ha 21 anni e una carriera già finita. Cantava nei video musicali prodotti per la televisione nazionale, cantava ai matrimoni, si presenta con un ciuffo sinuoso da neomelodico afghano e un vestito rosso che fanno capire anche ai più distratti: aveva presenza scenica. Ora siede con un po’ di amici a non fare nulla davanti al suo negozio vuoto e vuoto non è un modo di dire: sono rimaste soltanto le pareti, la moquette per terra e un cartello che annuncia il noleggio delle casse. Il noleggio delle casse è l’unica opzione rimasta in questi tempi, perché magari c’è ancora bisogno per un discorso o una preghiera pubblica dei talebani. L’importante in questi noleggi è che la cassa abbia l’effetto riverbero per donare più solennità e profondità al discorso.
Anis viene da una famiglia di musicisti di Kabul, anche suo padre e suo nonno cantavano, quindi è una dinastia che sa già cosa vuol dire avere a che fare con gli estremisti – quando comandano loro.
Il bello è che i Talebani per ora non hanno ancora emesso un editto ufficiale per proibire gli strumenti musicali, ma Anis si muove come se conoscesse passo per passo quello che succederà. Ha sentito i racconti di chi era a Kabul quando i Talebani sono arrivati la prima volta nel 1996 e ha visto nei mesi scorsi cosa succedeva nei territori che finivano sotto il controllo dei Talebani. Gente picchiata, strumenti sfondati, molta paura.
Dal punto di vista formale però non c’è ancora una regola. C’è il fai da te. Dalle finestre di qualche quartiere di Kabul – lontano dai posti di blocco talebani – a volte esce musica o persino il pulsare di qualche pezzo da ballare nella speranza che i fanatici abbiano altro da fare in una città che ha quasi sei milioni di abitanti. In macchina c’è lo strano gioco di ascoltare musica a palla e poi di abbassarla di colpo a zero quando c’è da passare oltre un posto di controllo talebano (succede ogni due-tre chilometri).
Il guidatore sulla strada tra Jalalabad e Kabul – un percorso epico che si snoda tra pareti di roccia e i soliti posti di controllo talebani – ci chiede pezzi italiani da far suonare con il suo sistema bluetooth. Mano al telefono. Considerato che non si può scaricare nulla per problemi di connessione, ci si arrangia come si può con i pezzi in memoria. La playlist italiana è questa: L’amour toujours di Gigi D’Agostino / Appalermo, hit siciliana del 2016 di Massimo Scalici / Beggin’ fatta dai Maneskin e pertanto contata in quota italiana / Se bruciasse la città di Massimo Ranieri, introdotta al guidatore con le parole: “and now an oldie but goldie”.
Entriamo allo Shoor Bazaar, che vuol dire: il mercato del rumore. Indicava la zona di Kabul dove si concentravano i musicisti prima che tutto finisse in mano ai talebani. Andiamo a parlare con Qais Maroof, 27 anni, un’altra stella con una ex carriera promettente. Per incontrarlo si entra in una fila di edifici cadenti, con corridoi in ombra, balaustre sporche e angoli abbandonati. In uno di questi c’è Maroof, che è stato picchiato dai Talebani perché è un musicista. Ci racconta del clima di intimidazioni, delle violenze, degli strumenti salvati perché nascosti e di quelli invece sfasciati. Hai figli? Sì, dice lui. Gli farai ascoltare musica di nascosto, in modo che sappiano che cos’è? Casa mia è vicina a un comando talebano, risponde, non posso.
È anche per riavere il diritto alla musica che Tooba Lufti, 34 anni, da una settimana organizza proteste nelle strade contro il regime dei Talebani. Non sono proteste di massa, i manifestanti si contano a decine, ma è un fatto inaudito per la Kabul controllata dagli islamisti. Tooba vuole organizzare altri cortei sempre più grandi, i Talebani vogliono farla smettere il prima possibile. Hanno comunicato ai giornalisti stranieri che chi riprende le proteste si vedrà sequestrato il materiale di lavoro, inclusi computer, videocamera e telefono. Con i giornalisti locali invece usano metodi più spicci. Ne hanno presi due, li hanno portati via, li hanno fatti sdraiare e li hanno cinghiati fino a quando non sono svenuti. A quel punto li hanno svegliati con una secchiata di acqua fredda e hanno ricominciato.