«Il lavoro», dice uno dei suoi capi ad Alex, l’eroina della nuova, bellissima miniserie Netflix Maid, «è l’unica cosa che conta. Tutto il resto è fragile». È una frase appropriata sia rispetto ad Alex (Margaret Qualley) che alla stessa Maid, una serie sul valore – economico e psicologico – del duro lavoro. Dopo che Alex fugge dalla relazione tossica con Sean (Nick Robinson) e si ritrova da sola con una figlia, Maddy (Rylea Nevaeh Whittet), e senza una casa, Maid inizia a mostrarcela mentre pulisce case e fa di tutto per aggirare la burocrazia e riuscire a dare a Maddy un piatto caldo e un tetto sopra la testa. Sullo schermo spesso compare graficamente il confronto tra i soldi che guadagna e quelli che spende, il che rende ancora più evidente lo sforzo immane che fa per ottenere la più modesta delle ricompense: una semplice sussistenza di base.
Quello di Alex è un iter lento e progressivo: dal centro per le donne che hanno subìto violenza domestica al tribunale, passando per tutte le altre situazioni insostenibili – la protagonista ha anche una madre affetta da disturbo bipolare, Paula (interpretata dalla vera madre di Qualley, Andie MacDowell) – e i frequenti riferimenti al fatto che la scalata socioeconomica non è mai un viaggio di sola andata.
Le forze del reparto creativo sono divise tra Molly Smith Metzler, già dietro Shameless e qui sceneggiatrice della maggior parte degli episodi, e John Wells, regista di molte puntate. Il loro adattamento del memoir di Stephanie Land, Donna delle pulizie – Lavoro duro, paga bassa e la volontà di sopravvivere di una madre (edito in Italia da Astoria, ndt), condivide in gran parte lo spirito della stessa Shameless (anche se evita i suoi eccessi più comici o ridanciani) e per questo previene il rischio che la storia di Alex diventi il mero ritratto di una donna che si piange addosso. Alcuni passaggi sono molto difficili da digerire, ma la serie è sorprendentemente accessibile, considerata la natura della vicenda che mette in scena, e a volte persino lieve.
Gran parte del merito va dato a Margaret Qualley (The Leftovers, C’era una volta a… Hollywood), che regala una performance da grande star dello schermo. Non nel senso che è ammantata di glamour, visto che Alex passa la maggior parte del tempo in mezzo alla sporcizia, ma per il modo in cui infonde vita e calore in lunghe sequenze che, senza il suo carisma, sarebbero ben più noiose. (Ha anche un’alchimia perfetta con l’adorabile Whittet, probabilmente la bambina più felice che si sia mai vista sul piccolo schermo, a dispetto della sofferenza al centro della parabola in questione.)
Alex è praticamente in ogni scena, e Metzler e i suoi collaboratori trovano il modo di farci sentire la loro eroina ancora più presente attraverso frammenti di ricordi, fantasie, e tutte le tantissime emozioni che lei prova mentre cerca di sbarcare il lunario. È una sorta di “narrazione soggettiva” – per esempio, Alex si sente così sperduta durante il processo che l’unica parola che percepisce, per bocca dell’avvocato di Sean, è “legale”, che anche noi sentiamo ripetere in continuazione – che potrebbe compromettere il realismo cercato da questa serie. Ma una volta che ti sintonizzi su questo ritmo, ti fa solo comprendere meglio lo stato d’animo di Alex. Nel settimo episodio, la regista Helen Shaver fa un ottimo lavoro nel mettere in scena uno sviluppo inaspettato nella relazione tra Alex e Sean, in un modo che al tempo stesso fa entrare lo spettatore nella testa di lei ma rende oggettivamente chiara la gravità di quello che sta guardando.
Queste sfumature sono presenti ad ogni livello. Robinson e gli sceneggiatori riescono a farci capire perché Alex si sia innamorata di Sean, un ragazzo dalla personalità alla Dottor Jekyll e Mister Hyde, forse dovuta all’alcol. E MacDowell (in uno dei ruoli più ricchi e interessanti che abbia mai avuto) fa capire molto bene quanto la sua Paula sia al contempo colei che può salvare sua figlia ma anche il fardello che la ragazza si porterà dietro per sempre.
La serie esplora tutti i cavilli burocratici che regolano la nostra vita sociale; illustra sottilmente tutti gli ostacoli che Alex deve fronteggiare perché l’abuso di Sean è stato più psicologico che fisico, anche se quella violenza è palpabile anche ai nostri occhi. E, quando Alex inizia ad affrontare tutti i lati pratici di una vita ben al di sotto della soglia minima di ricchezza, sia il suo personaggio che la serie tutta sembrano ben consapevoli dei fattori psicologici che l’hanno portata a vivere in quelle condizioni; gli ultimi episodi in particolare sono dedicati all’analisi della giovane donna sul perché la sua esistenza abbia finito per essere proprio quella.
Maid mostra con grande chiarezza tutte le opportunità che Alex avrebbe per risollevarsi – e che, in un progetto meno sofisticato di questo, sarebbero probabilmente la sua via di salvezza – ma ci dice forte e chiaro che nessuna delle figure che incontra la potrà realmente salvare (per ragioni sempre plausibili e a volte molto dolorose): è Alex l’unica persona che può salvare sé stessa. Tra i rapporti che stringe, c’è quello – molto tormentato – con Regina (Anika Noni Rose), un’avvocatessa benestante che sta per adottare un figlio, nonché la prima persona a offrire ad Alex un impiego come donna delle pulizie. Un’altra serie avrebbe risolto tutti i problemi facendo di Alex la tata a tempo pieno di Regina; quando invece qui Alex propone questa possibilità, Regina la guarda come se fosse un procione che si è messo a parlare in esperanto.
No, Alex può solo lavorare sodo – molto sodo – per riscattarsi dalla condizione in cui la troviamo all’inizio di Maid. E Metzler e Wells lavorano altrettanto sodo. La loro serie ci mostra con grande precisione tutti i piccoli passi del cammino che intraprende Alex per uscire da quell’estrema indigenza; e dettagli apparentemente di poco conto che altrove sarebbero facilmente dimenticabili – un piccolo lavoro che va a buon fine, un amico che la accoglie senza giudicarla – qui hanno invece una forza dirompente. Preparate i fazzoletti: questa è una grande serie.