Solito richiamo elettronico, il rituale passare dei minuti ed eccolo apparire in campo grazie alla chiamata Zoom, volto rilassato, tratti ben pronunciati, capelli – «quei pochi rimasti», dice ridendo – impomatati all’indietro, accento teutonico alla Schwarzenegger e parlata svelta, intelligente, precisa, di chi sa esattamente rispondere alle domande poste. Per chi come me che ama il cinema ed è cresciuto fischiettando e comprando colonne sonore, l’incontro con Hans Zimmer (Thelma & Louise, tre Batman, Pearl Harbour, Il gladiatore, Inception, Interstellar, Dunkirk, Blade Runner 2049, Dune) per il lancio del nuovo 007 No Time to Die è più di un’intervista.
È l’occasione di strappargli una promessa di andare a ritrovarlo – post pandemia – nel suo studio di registrazione a L.A., studio mitico, che un amico mi ha raccontato essere l’incrocio fra un museo vaticano e un bordello viennese. Quadri idilliaci, colori rinascimentali, Oscar (Il re leone), Golden Globe e Grammy ovunque, quadri di Gerhard Richter, tra gli artisti contemporanei più noti della scena tedesca («A volte, quando mi blocco e cerco ispirazione, mi metto a studiare sempre uno dei suoi quadri»), divani e poltrone di velluto porpora, sintetizzatori giganteschi stile Vangelis, chitarre, pianoforte, una riserva di vino e sake degna di un intenditore, persino il – teschio prop di scena – tenuto in mano da Hannibal Lecter. Dopo qualche frase di circostanza, eccoci a 007.
Quali sono i requisiti necessari per onorare una franchise così importante?
Il rispetto: è la cosa più importante di tutte. Se uno pensa al ciclo del Cavaliere oscuro, dice: “Sono solo tre film”. Invece, per me che ho composto le musiche, non sono tre film: stiamo parlando di 12 anni della mia vita, in termini di preparazione, ricerca, composizione e rilascio ufficiale. Ecco, con Daniel Craig e Bond stiamo parlando di 16 anni, una grossa fetta della sua vita, e quindi l’errore più grande che puoi fare è quello di essere irriverente, anche quando scrivi la musica. È interessante parlare di questo con te, un italiano, proprio perché questa è stata una delle prime lezioni che ho imparato da Ennio Morricone, il quale non si stancava di ripetermi: “Anche nei film più banali devi essere sempre rispettoso con musica e immagini, non prendere mai sottogamba quello che fai. Devi fare sempre del tuo meglio, perché in fin dei conti un film è una famiglia composta da tante persone, le cui vite dipendono dal successo o dal fallimento dello stesso”. Una lezione che non scorderò mai, e l’ho sentita dire anche da altri, su altri set cinematografici: per esempio, da Bernardo Bertolucci, che era molto rispettoso del lavoro che facevo per lui. Anche se andavo solamente a prendere e portare il caffè, tutti i lavori di un film devono essere fatti sempre con rispetto.
Come hai scelto i musicisti con cui lavorare?
Ho cominciato con l’orchestra, scegliendo tutti i musicisti disponibili che avevano lavorato su altre colonne sonore di Bond. Poi, mentre il film iniziava a prendere forma, la musica ha iniziato ad evolvere, è diventata più attuale, contemporanea. L’importante per me era lavorare seguendo le impronte del leggendario John Barry: nessuno vuole rivoluzionare la musica di un film di Bond, ha una qualità senza tempo, oltre ad essere forse la colonna sonora cinematografica più conosciuta di tutti i tempi. Non volevo certo rovinarla, anzi, ho cercato di suonare con persone che fossero anche fan del franchise, in modo che potessero aiutarmi a rispettarla il più possibile.
E la collaborazione con Billie Eilish e Johnny Marr?
Billie Eilish e Finneas (il fratello, che ha composto con lei la title track di No Time to Die, nda) ammirano Bond sin da bambini, volevano fare parte del progetto non per i soldi o per la gloria, ma perché sono innamorati del personaggio. E l’amore per me è importante sempre, sopratutto quando riguarda il mio lavoro. Per Johnny mi è bastata una telefonata, siamo amici da sempre, avevo bisogno di una chitarra come la sua. Johnny è speciale, suona con coraggio, passione e nobilità, il suo suono perfetto per Bond.
Qual è il tuo Bond preferito?
Per me non è un Bond in particolare, ma il suo viaggio, la sua internazionalità. Il personaggio di 007 è stato scritto da un inglese che viveva in Giamaica e che poteva descrivere l’Italia meglio di un locale. L’Italia in questo film ha un ruolo molto importante, è il cuore del film. Questo film è stato un viaggio interessante perché l’abbiamo finito più di un anno e mezzo fa, e quando c’è stata la première alla Royal Albert Hall è stato molto diverso da qualsiasi altra prima di un film. Questo film ha riunito persone che non erano state in grado di vedersi da una vita, è più di un film, quasi un un gesto sociale, è stato un modo per unire tutti noi e vivere un evento straordinario.
Hai menzionato Bertolucci e Morricone. All’inizio della tua carriera, quali sono state le tue ispirazioni?
Quando a 12 anni ho visto C’era una volta il West, mi sono talmente emozionato che ho deciso che questo sarebbe stato il mio mestiere, scrivere musica per film come facevano Leone e Morricone, combinare immagini straordinarie con musica straordinaria, sempre rompendo le regole. Se ci pensi bene ai tempi del Far West non esisteva la chitarra elettrica, ma Ennio è stato capace di inserirla senza attirare l’attenzione, quasi non te ne accorgi. L’aggiunta di questo elemento musicale anacronistico è stato molto influente nel mio lavoro. Come lo è stato Pontecorvo con La battaglia di Algeri, e Fellini con Nino Rota. Voi italiani siete tremendi, avete tutti i compositori migliori della storia del cinema, è ingiusto nei confronti del resto del mondo!
Cosa hai imparato da Ennio Morricone?
Ho imparato la disciplina e la pazienza, non tutto si può fare in dieci minuti, ha volte per un riff ci vogliono due settimane, sei settimane, cercare di trovare una combinazione interessante con quattro note è una responsabilità che ho nei confronti del pubblico.
Durante questo processo, quando non trovi una soluzione, cosa fai?
Leggo, faccio una chiacchierata con il regista, parlo di cibo con gli amici – conosco molti chef – oppure medito davanti a un dipinto di Richter, sempre fonte di ispirazione.
Di solito, quante volte rivedi un film durante la lavorazione della colonna sonora?
Sono come un gatto, un film lo voglio vedere minimo nove volte, dopo so tutto quello che mi serve.
Musicista preferito?
Facile: Beethoven, perché le prime quattro note della Quinta sinfonia in Do minore sono… divine. Andando in altri mondi, i miei preferiti sono Frank Zappa e David Bowie.
Com’è cambiato il tuo lavoro con l’evoluzione della tecnologia?
L’arte di essere un compositore non è cambiata, l’idea di base rimane la stessa. La prima cosa che mi chiedo quando inizio un lavoro è: perché qui abbiamo bisogno di musica? Certo, adesso realizzare questo concetto è più immediato. Credo che la tecnologia mi permetta di essere più avventuroso, di sperimentare cose che altrimenti non potrei, semplicemente perché ci vorrebbe troppo tempo per dei risultati. Mi piace il futuro, sono una persona che guarda sempre avanti.
Se potessi lavorare su una colonna sonora di uno dei tuoi film preferiti, quale sceglieresti?
Blade Runner. Ma forse anche no, perché amo moltissimo quello che ha fatto Vangelis. Ma ho avuto una possibilità con Blade Runner 2049.
Il momento più fortunato della tua carriera?
Devo la mia carriera a Diana Levinson, la moglie di Barry Levinson. Le era piaciuta molto la musica di un piccolo film indipendente a cui avevo lavorato, l’ha fatta ascoltare a Barry, che a sua volta mi ha chiesto di fare la colonna sonora di Rain Man… A volte ci sono giornate fortunate.