Avere trent’anni; una moglie, un figlio, una famiglia. Coltivare due grandi passioni, una con cui togliersi delle soddisfazioni (il fumetto), l’altra con cui divertirsi la sera con gli amici (il calcetto). Poi, di colpo, uno scontro fortuito durante una di quelle partitelle rileva un tumore maligno rarissimo e in un secondo quel quadretto idilliaco – che è una vita vera, reale, vissuta – rischia di scomparire per sempre. Tutto ciò che resta è sperare, lottare, disegnare.
Da questa terribile esperienza, da questo contatto diretto con la morte, nasce Trentatré raggi ionizzanti, il primo lavoro di Claudio Marinaccio per Feltrinelli. La premessa farebbe pensare ad un lavoro tristissimo, un bagno di lacrime e angoscia, ma l’opera di Marinaccio è tutt’altro, un mix di stupida follia e leggerezza struggente. Trentatré raggi ionizzanti si inserisce nel filone contemporaneo dei fumetti-disegnati-male, quelli in cui autobiografia e fantasia surfano sui temi della vita con sprezzante (auto)ironia. A leggere il fumetto, difatti, se ne riconoscono le geografie. Le tavole sono spoglie, private dai dettagli ma colmate da continui commenti meta-ironici, il racconto si svolge in maniera quasi del tutto lineare, eccezion fatta per l’incipit e alcuni viaggi al-di-là del reale dell’autore, spesso nella sfera onirica del contrasto sogno-incubo, e il lessico è semplice, quotidiano, gergale. Anche il titolo, come l’intera opera, cerca la via della sdrammatizzazione, sia visiva che linguistica. I trentatré raggi ionizzanti, infatti, recuperano il gergo da guerra intergalattica per rappresentare le trentatré sedute di radioterapia necessarie all’autore-protagonista per scongiurare ogni rischio di un ulteriore sviluppo di cellulare tumorali.
La notizia del tumore – difatti – è posta volutamente come incipit dell’opera, non lasciando spazio ai non detti. Il lettore si ritrova così a confrontarsi con una serie di temi complessissimi mentre nuota stranito in un oceano di citazioni pop, da Bojack Horseman ai Griffin, da Fight Club a Shining, dagli Oasis a Frank Sinatra, in un sottosopra emozionale in cui è difficile raccapezzarsi. Quando si sta per piangere, ecco apparire la figura macchiettistica del padre dell’autore che, per ogni cattiva notizia sulla salute del figlio, cerca un’analogia con la storia calcistica della Juventus. Il tema del fumetto non è quindi la morte, o la malattia in sé, ma la vita al cospetto della sua fragile esistenza.
Più ci troviamo a stretto contatto con la parola ‘fine’, più ritroviamo l’eccezionalità nell’ordinario svolgersi della vita. Marinaccio infatti non cerca compassione nel lettore, ma comprensione. Trentatré raggi ionizzanti ci ricorda – nelle sue tavole folli di scherzo e dolore – cosa significhi tornare a vivere, inteso come guardare con nuovi occhi il quotidiano. Come scrive Dottor Pira nella prefazione al volume, “quando leggete questo libro, non mettetevi a cercare l’ironia disincantata del disegno spoglio, l’ansia esorcizzata nel racconto lineare, o l’ironico distacco che deriva da un’amara accettazione della tragedia, ma godetevi i curiosi e rari momenti di sana pazzia in una normalità fuori dall’ordinario”.
Trentatré raggi ionizzanti è un fumetto di catarsi, un fumetto necessario all’autore per estirpare una paura e riposizionarla davanti a sé come oggetto concreto (un oggetto-libro) oramai avulso dal proprio organismo. La catarsi nell’arte, infondo, è un tema antico quanto l’arte stessa e il rapporto con la morte, infondo, non è che il tema più antico dell’uomo. Proprio per questo, un’opera autobiografica come questa diventa, consapevolmente, una storia per tutti.