Dal 22 luglio 2021 ad oggi, secondo i dati dell’Alto commissariato per i rifugiati dell’Onu (UNHCR), il numero di rifugiati afghani nei paesi confinanti è decuplicato: dall’ascesa dei talebani sono fuggiti in 40mila per trovare rifugio in Iran, Turkmenistan, Pakistan. Questo dato esclude chi ha avuto la fortuna di fuggire con il ponte aereo organizzato dalla NATO verso l’occidente: 12 mila verso gli Stati Uniti, 40mila in Canada e alcune migliaia verso l’Europa. “Il reinsediamento dei rifugiati afghani è un meccanismo globale, esteso a tutti i paesi che hanno la capacità di offrire accoglienza. Noi diciamo che devono farlo ma non ci sono obbligazioni legali. Questo è uno dei difetti del sistema, non c’è obbligo di condivisione delle persone che hanno bisogno di protezione”, spiega Catherine Woollard, direttrice di ECRE, il network di associazioni e organizzazione europee che si occupano dei diritti di rifugiati e richiedenti asilo.
In Europa, il Regno Unito ha previsto un piano di accoglienza programmatico, che prevede la creazione di corridoi umanitari che porteranno in UK circa 20mila afghani. L’8 ottobre i ministri dell’Interno di Austria, Cipro, Danimarca, Grecia, Lituania, Polonia, Bulgaria, Repubblica Ceca, Estonia, Ungheria, Lettonia e Slovacchia hanno chiesto “nuovi strumenti che permettano di evitare le gravi conseguenze di sistemi migratori e di asilo sovraccarichi”, alludendo alla costruzione di nuove barriere e muri. Il trattamento dei richiedenti asilo afghani era problematico prima della caduta di Kabul. “Alcuni ministri dell’UE hanno chiesto la possibilità di rimpatriare cittadini afghani, prima del crollo di Kabul. La velocità della presa del paese dei talebani ha mostrato che la sicurezza era già fragile e precaria. Adesso è veramente impossibile legalmente e moralmente pensare che i tribunali accettino i rimpatri. Ora chiediamo di riesaminare i casi legali già decisi, in funzione del cambiamento del contesto”, spiega Woollard. Secondo le infografiche pubblicate da ECRE basate su dati EASO (Ufficio europeo per l’asilo), nel 2020 solo il 42% delle richieste di asilo di cittadini afghani sono state accettate dai paesi europei.
Le politiche migratorie dell’Unione Europea sono rivolte a impedire l’arrivo di richiedenti asilo “illegali” – che si traduce oggi nell’emergenza alle frontiere e in particolare in Bosnia Erzegovina, dove in 10mila aspettano che la loro domanda di asilo sia presa in considerazione. “I Balcani e la Turchia soffrono della strategia ‘Fortress Europe’”, spiega Woollard. “Questi paesi vogliono diventare membri e hanno la tendenza di accettare le domande dell’UE malgrado le difficoltà poste da questa strategia”. Questa situazione – in stallo dal 2015, anno del grande esodo dei rifugiati siriani verso la Germania – non permette una gestione condivisa delle frontiere, passo che i paesi più esposti legittimamente chiedono ma con mezzi securitari: la pratica costante del respingimento. Una crisi migratoria potenziale che ricorda l’arrivo di milioni di siriani in Turchia, trattenuti da Erdogan sul territorio turco dopo l’accordo con l’Unione Europea. Tra i punti del patto anche “il rapido rimpatrio di tutti i migranti non bisognosi di protezione internazionale che hanno compiuto la traversata dalla Turchia alla Grecia e di riaccogliere tutti i migranti irregolari intercettati nelle acque turche”.
Uno scenario ripetibile con i rifugiati afghani? Secondo Woollard sono troppe le differenze con il 2016: “Politicamente e legalmente non è credibile un allargamento dell’accordo, ma siamo preoccupati a causa di una risposta problematica dell’Europa che potrebbe cercare di convincere la Turchia a ospitare più persone. La Turchia è il paese che ospita più rifugiati al mondo: 3,6 milioni sono siriani che hanno accesso a un regime di protezione creato ad hoc che prevede, tra le altre cose, l’accesso prioritario al mercato del lavoro. La Turchia è firmataria della Convenzione sui rifugiati del 1951, ma si è impegnata a esaminare unicamente le domande di asilo conseguenti a eventi accaduti in Europa. In altri termini, formalmente, lo stato turco non dà seguito a domande di asilo presentate da cittadini non europei: “Per gli afghani in Turchia non esiste una vera protezione. C’è un regime minimo, ma non è al livello della Convenzione sui rifugiati. Ma per gli afghani e le altre nazionalità la protezione non è adeguata. Questo vuol dire che i paesi dell’Europa non possono mandare legalmente gli afghani in Turchia, questo tipo di provvedimenti sarebbe bloccato dai tribunali”, aggiunge Woollard.
Il G20 del 13 ottobre sull’Afghanistan si è concluso con una certezza: i 20 Paesi più potenti al mondo continueranno il dialogo con il nuovo governo talebano con l’obiettivo di garantire l’assistenza umanitaria nel paese. Un equilibrio difficile da mantenere, considerando il pericolo terrorismo, la violazione sistematica dei diritti delle donne e delle bambine e la forte instabilità del regime. L’Afghanistan è oggi in una situazione di disastro economico: gli aiuti internazionali sono stati congelati – prima dell’arrivo dei talebani a Kabul ammontavano al 40% del PIL – e lo stock di moneta straniera bloccato. Uno shock che ha peggiorato un contesto economico precario, fatto di disoccupazione e povertà diffuse, corruzione governativa. Una crisi che ha portato sul tavolo dei grandi del mondo una bomba migratoria a orologeria.
L’emorragia di cittadini afghani dal proprio paese di origine non conosce tregua dal 1979, anno dell’invasione sovietica. Sono 2,6 milioni i rifugiati afghani nel mondo, di cui 2,2 milioni solo in Iran e Pakistan. I 40 anni di instabilità dell’Afghanistan – tra guerre, cambi di regime, crisi economiche, povertà cronica e invasioni occidentali – hanno portato anche 3,5 milioni di persone a spostarsi internamente per cercare un porto più sicuro della propria casa. Secondo l’UNHCR – che è tra gli attori internazionali che operano nel Paese e nei Paesi confinanti per assicurare i diritti umani fondamentali – la crisi economica innescata dalla presa di potere dei talebani porterà sempre più afghani a partire, per fuggire dalla repressione del nuovo governo e dalla povertà, se il Paese non si stabilizzerà.