Tutto quello che tocca Nick Cave diventa oro, questo non è più un mistero da un pezzo. Ma da qualche anno a questa parte la questione è trascesa nell’ambito dell’intangibile, del metafisico, del messianico.
Il secondo capitolo della raccolta B-Sides & Rarities appena pubblicata con i Bad Seeds ne è l’ultimissima conferma in ordine di tempo. Pubblicata a distanza di 16 anni dal primo capitolo che raccoglieva cover, provini, versioni acustiche e lati B risalenti al periodo 1984-2005, questa nuova compilation dimostra con la scientificità di un test A/B che il Nick Cave over 50 ha progressivamente raggiunto una dimensione artistica infallibile.
B-Sides & Rarities Part II raccoglie lavori inediti e rarità rimaste nascoste dal 2006 a oggi. Tuttavia il nucleo delle 27 tracce affonda chiaramente le radici nell’ultimo decennio, quello dell’ennesima evoluzione del sound e del definitivo salto di qualità: un’affermazione che sembrerebbe azzardata per un artista che calca le scene da quasi mezzo secolo e che è entrato nella fase finale della carriera, d’altra parte è una tesi difficile da confutare e di chi altro si potrebbe dire lo stesso? Di nessuno. Ad ogni modo questa evoluzione è trapelata naturalmente anche nei lati B, rendendo questo secondo capitolo della raccolta di una caratura rispetto al precedente.
Per i fan più incalliti di Nick Cave non si tratta di quasi nulla che non fosse già reperibile sul web, ma ascoltarli messi in fila uno dietro l’altro fanno un certo effetto, perché rappresentano in un’unica seduta ciò che rappresenta oggi Nick Cave musicalmente, passando per un tragitto alternativo da quello ufficiale degli album di inediti.
I primi tre brani arrivano dalle sessioni di Dig, Lazarus, Dig!!! e non presentano nulla di rilevante da segnalare, così come la versione di Free to Walk cantata insieme a Debbie Harry, proveniente dall’album tributo a Jeffrey Lee Pierce. La questione cambia del tutto a partire dalla quarta traccia, una cover piano, violino e voce di Avalanche di Leonard Cohen, presente nella colonna sonora della serie tv Black Sails. Non ha niente a che vedere con la cover gothic che compare in From Her to Eternity. Penso sia un privilegio ascoltare Nick Cave che rifà il pezzo di apertura di Songs of Love and Hate, uno dei brani più belli in assoluto di Cohen, uno dei più lugubri. È come ascoltare De Lillo che legge Roth, guardare un remake di un film di Wilder girato da Lynch.
Da qui in poi la raccolta si apre a escursioni di vario tipo, a partire dal singolo inedito Vortex, rimasto incastrato nell’indecisione tra Bad Seeds e Grinderman per tutti questi anni. È chiaro che i picchi più alti li raggiungono i pezzi che vengono dalla trilogia composta da Push the Sky Away, Skeleton Tree e Ghosteen. Quelli più recenti, quelli che francamente ancora devono essere tutti metabolizzati del tutto, troppo intensi, troppo profondi per poter dire di padroneggiarli veramente anche dopo decine di ascolti. In questa raccolta ne osserviamo gli scheletri, le versioni primordiali, senza i tocchi magici della produzione. E quindi ascoltiamo una delle versioni live più belle di Push the Sky Away e ne scopriamo nuovi scorci, le prime versioni di Skeleton Tree, Bright Horses, Girl in Amber, Waiting for You allo stato embrionale, che mostrano fragilità, direzioni diverse che avrebbero potuto prendere. Trova una dimora anche una nuova versione dell’inedito Euthanasia, eseguita durante il live pandemico all’Alexandra Palace nel 2020. Un’altra dimostrazione di magnificenza assoluta impartita, mentre neppure osavamo sognare di assistere a una esibizione simile.
Negli ultimi dieci anni Nick Cave ha pubblicato con i Bad Seeds tre album semplicemente incredibili, seguiti da altrettanti tour mondiali fatti di sold out e finiti puntualmente con riti sotto palco in cui la folla cerca di toccare il corpo sacro del santo (ad eccezione dell’ultimo, fermato dalla pandemia), una manciata di colonne sonore, un paio di dischi insieme a Warren Ellis, le Litanies scritte in lockdown, il già citato live all’Alexandra Palace. È apparso nei due docufilm 20.000 Days on Earth e One More Time with Feeling, ha pubblicato il diario The Sick Bag Song e il catalogo Stranger Than Kindness, è stato il protagonista di un fumetto, ha scritto la sceneggiatura di un film, fatto la voce narrante per un cartone animato, scritto con regolarità sul suo blog, pubblicando contenuti divenuti di tanto in tanto virali, tra risposte alle domande dei fan e pensieri personali. E chissà quante altre cose sto dimenticando. In tutta questa bulimia, questa costante esigenza di produrre arte in ogni modo possibile, Nick Cave non ha mai smesso di essere Nick Cave. Nick Cave è Nick Cave sempre, ogni minuto, qualunque cosa faccia e noi non abbiamo neppure idea di quanto sia difficile tutto questo.
Nel documentario Netflix Untold: Fish vs Federer, a un certo punto l’ex tennista numero 1 al mondo Andy Roddick dice del fuoriclasse svizzero che in campo non sembrava sudare, che non era come tutti gli altri, che i suoi capelli erano sempre perfetti, la sua classe impareggiabile. Anche la classe di Nick Cave è impareggiabile, ma lo vediamo sudare e spettinarsi, ma sempre mantenendo la sua classe. Nell’era dei social network è in qualche modo cool mostrarsi nella propria quotidianità, lontani dalle luci della ribalta, trasandati, in pantofole, struccati, come segno di umanità e di realtà. Nick Cave non ha mai ceduto a tutto questo, semplicemente perché non ha mai finto, neanche per un istante. È per questo che anche i lati B hanno qualcosa da dirci, conservano qualcosa di magico.
Gli ultimi brani della raccolta vedono una crescente presenza dei loop, dei cori e dei sintetizzatori di Warren Ellis, che hanno contribuito in maniera fondamentale all’identità del sound dell’ultimo Nick Cave, anche nella loro versione rudimentale, catturano l’anima dell’ascoltatore e lo trasportano da qualche altra parte. A chiudere è un altro inedito, Earthlings, che è una valida appendice alla trilogia degli anni ’10, e che come molti dei pezzi più recenti di Nick Cave suona come un testamento. Dice: “I thought that love would one day set me free/ I think my friends have gathered here for me” e poi si abbandona a cori sacri. Doveva essere solo una raccolta di scarti e invece ancora una volta c’è un cuore aperto che sprigiona un universo.