“Fragilità e follia, l’insanità del gioco, cattiveria e santità, cose da credere e cose da non credere ma alcune così vere da cambiarti” . Queste le parole di Hemingway aveva speso per descrivere il modo in cui scriveva Dostoeveskij. E come se fosse una narrazione continua, che dalle parole del grande scrittore americano, riusciamo ad arrivare e ad infilarci immediatamente nelle pagine del nuovo libro della giornalista e conduttrice tv Lilli Gruber, La guerra dentro, edito da Rizzoli.
Il libro racconta di Martha Gellhorn, giornalista e reporter, la prima donna a raccontare la guerra, dal campo e sul campo. La donna che raccontava marciando. L’unica donna presente durante lo sbarco in Normandia. Intelligentissima, curiosa della vita e nella vita, bionda e bellissima, che seppur banalmente ma in maniera efficace possiamo dire che ha indossato la libertà come l’abito migliore che ogni donna dovrebbe sfoggiare. Donna libera appunto, che non sarebbe potuta sfuggire all’occhio e al cuore di uno degli scrittori più influenti di sempre, quell’ Ernest Hemingway amato, combattuto e poi lasciato – l’unica donna ad averlo lasciato.
Amore e guerra, Martha e Ernest. Ego contro ego. Un vortice a cui tutti e due appartenevano. Uno scrittore amato e venerato dal mondo intero che voleva essere anche giornalista ma che aveva troppa ottima fantasia per esserlo contro la verità di quello che accadeva e che sapeva raccontare solo sua moglie Martha. Piccoli giochi di potere, piccole rivalità legate a due personalità gigantesche, che hanno fatto di un grandissimo amore una grandissima rivalità e di una grandissima rivalità un grandissimo amore. Finito certo, perché sarà Martha a lasciare Ernest, ma che come tutte le cose enormi, vissute a pieno, lascia tutto e porta tutto con sé, l’amore e la guerra appunto. La morte e la vita. Un unico e solo vortice, come nelle pagine di La guerra dentro che trascina la carriera personale di Lilli Gruber, le esperienze di guerra e in guerra di alcune sue colleghe, e l’amore.
Abbiamo contattato Lilli Gruber per parlare con lei del libro e del perché ha voluto raccontare questa storia.
Perché hai scelto di raccontare la storia di Martha Gellhorn? Perché ora, c’entra in qualche modo il periodo storico che stiamo vivendo?
Oggi abbiamo bisogno di verità e abbiamo bisogno di forza. Martha Gellhorn è stata una donna forte che ha cercato per tutta la vita la verità. La sua storia non è soltanto una grande e appassionante avventura (e sarebbe già un buon motivo per scriverla e leggerla); è anche un’ispirazione. In un tempo in cui manipolazione, propaganda e fake news inquinano più che mai l’informazione – e costano vite umane, letteralmente – non solo i giornalisti ma tutti noi cittadini dobbiamo tenere la barra dritta e contrastare la deriva della disinformazione.
Leggendo il tuo libro, ovviamente si parla del fatto che Martha è stata la moglie di Ernest Hemingway, del fatto che la sua vita è legata indissolubilmente allo scrittore americano. Ma nel tuo libro viene fuori, non “Martha la moglie di” ma il modo con cui Martha ed Ernest si sono amati.
Mi è piaciuto raccontare dell’amore tra Martha e Ernest, che è il cuore di questo libro. Innanzitutto perché è una splendida storia da condividere, in cui non manca niente: passione, guerra, viaggi esotici, tradimenti, addii. Leggere le lettere che lei gli scriveva, i reportage dalla guerra di Spagna che hanno vissuto insieme, il resoconto del loro “viaggio di nozze” in Cina mi ha appassionata, divertita, intrigata e considero un privilegio poter condividere questa storia con migliaia di lettori.
Ci vuole un coraggio e una coscienza del proprio essere enorme per lasciare uno scrittore come Hemingway: secondo te Martha si era innamorata di quello che Ernest metteva sui libri e poi è rimasta delusa dalla realtà?
Martha Gellhorn era una donna molto acuta e con una grande voglia di imparare. Non credo che avesse idealizzato Hemingway, credo piuttosto abbia deciso che lui aveva qualcosa da insegnarle e per questo lo abbia seguito in Spagna. E aveva ragione perché è stato lui a indirizzarla verso lo stile giornalistico che poi è diventato il suo marchio di fabbrica: raccontare la guerra “dal basso”, dalla voce di chi non ha voce cioè le donne, i bambini, le vittime civili. Poi, a Madrid, sotto le bombe, Martha ed Ernest si sono innamorati davvero e in modo travolgente, la loro è stata l’unione tra due “rivali” sul lavoro e tra due egocentrici nella vita privata. Se è finita non è perché lui fosse un pessimo amante – Martha era molto moderna e viveva il sesso con un certo disincanto – ma perché non sapeva accettare l’indipendenza della moglie. Martha ha scelto se stessa, ha rifiutato di annullarsi in nome dell’amore per un uomo: anche questo credo possa essere di ispirazione per molte donne, anche per le giovani generazioni.
Martha è la più grande corrispondente di guerra, cronista di guerra, una donna che ha avuto sempre il bisogno di stare nel mondo devastato, che lo ha descritto con vivida lucidità. Però davanti al campo di concentramento nazista di Dachau non sarà più la stessa donna .C’è stato un momento nella tua carriera dove ti sei detta “basta, questo non lo reggo”?
Il libro, nei capitoli dedicati al giornalismo e alle esperienze di guerra mie e dei miei colleghi, contiene anche qualche racconto personale, come il giorno in cui in Iraq ho dovuto scendere in una fossa comune, a poca distanza dal mucchio dei cadaveri, e fare da lì il mio “stand up” davanti alla telecamera. È stata dura. Ma niente in confronto a ciò che deve essere stato per Martha Gellhorn entrare in un inferno in terra come Dachau. Lei si è trovata di fronte al male assoluto. E lì ha raggiunto il punto più alto come giornalista, scrivendo pagine di una nitidezza e di un’efficacia tali che davvero dovrebbero essere lette nelle scuole.
Quanto è stata importante la curiosità in una donna come Martha, sia dal punto di vista lavorativo che dal punto di vista sentimentale, ma anche a livello sessuale?
La curiosità l’ha portata in Europa: una ragazza di 21 anni che veniva da Saint Louis nel Missouri e non sapeva niente del mondo, ed è partita per Parigi con una valigia, una macchina da scrivere e idee molto vaghe sul futuro. Ma ancora prima, la stessa curiosità l’aveva portata a viaggiare nell’America profonda della Grande Depressione, coprendo di fatto la prima guerra della sua vita, quella economica e scrivendo il suo primo e splendido libro. Quanto all’amore, più che di curiosità ha dato prova di libertà: nella puritana America degli anni Trenta e Quaranta, lei definiva il matrimonio “anche una violenza” e diceva “Credo che peccare sia una cosa molto pulita: non si hanno doveri verso nessuno”.
Che cosa ti lega a Martha, in primis come giornalista e poi come donna?
L’amore per il nostro mestiere e, come recita il sottotitolo del libro, il dovere comune verso la verità.
La guerra dentro è un titolo importante. Che cos’è per te “la guerra dentro”?
La guerra dentro è quella che bisogna riconoscere. Siamo circondati da guerre e da violenza, e a volte è facile indignarsi o commuoversi per conflitti lontani, senza magari avere modo o tempo di comprenderli a fondo. Ma bisogna capire e combattere le guerre vicine, che abbiamo in casa: come quella per la giustizia sociale, quella per l’equità di genere, quella contro la corruzione.
Il libro si muove tra passato e presente, e in un certo senso va anche nel futuro. Come mai hai scelto di intrecciare la tua storia con quella di Martha?
L’ho sentita molto vicina, nei mesi in cui ho lavorato a questo libro, rileggendo i suoi scritti e le lettere. Non volevo scrivere una biografia, ne esistono già di ottime, e ho pensato che il miglior servizio che potevo fare ai lettori fosse restituire un’idea di lei e della sua vita che “dialogasse” con i temi che conosco per averli vissuti in prima persona, primo fra tutti quello dell’informazione.
L’amore c’è sempre: sia per Martha, che per te quando parli di tuo marito, che hai conosciuto a Baghdad nel 1991, durante la prima guerra del golfo. Come si fa a vedere e trovare amore dove le uniche cose che si possono vedere davvero sono la morte e il pensiero costante di non tornare a casa?
Quella dell’inviata di guerra è una vita scomoda e a volte pericolosa, ma non bisogna lasciarsi andare alla retorica dell’eroismo: è un mestiere. Oggi, come tragicamente ci dimostra la cronaca, può essere più pericoloso fare l’operaia. Molti lavori e molte vite sono più difficili rispetto a ciò che è toccato in sorte a Martha Gellhorn e, anni dopo, a me e a mio marito Jacques. Innamorarsi, o cercare il calore di una relazione, è da sempre uno dei modi in cui si resta umani nonostante tutto.
Perché secondo te i giornalisti oggi sono diventati come un “prodotto da vendere”, come se non contasse più quello che hanno da dire ma come si vendono a chi li legge? Cosa è diventato per te oggi il giornalismo?
Non parlerei di prodotto da vendere, ma certo oggi è molto forte la tentazione di lasciare che le esigenze della visibilità abbiano la meglio sul resto, persino sui contenuti. E questa tendenza è più accentuata rispetto a tempi, come erano quelli di Marha Gellhorn, in cui era più difficile procurarsi un palcoscenico mediatico. Ma il giornalista non è mai la notizia: i fatti sono la notizia. Quando lo dimentichiamo, offriamo un’informazione non all’altezza di ciò che il pubblico merita.
In questo libro vengono affrontate diverse guerre, dalla guerra civile spagnola, al secondo conflitto mondiale; da Beirut a Baghdad e Sarajevo: secondo te le nuove generazioni conoscono davvero il significato di “ guerra” ? E non è stato un po’ “azzardato” usare il termine guerra per raccontare la pandemia che stiamo vivendo?
Stephen Pinker, in un saggio di dieci anni fa, definiva la nostra epoca la più pacifica della storia. In Europa oltre settant’anni di pace, che abbiamo vissuto anche grazie alla grande istituzione che è l’Unione Europea, ci hanno dato una prospettiva diversa sui conflitti rispetto a generazioni che in un’unica vita di guerre hanno dovuto combatterne due. Ne conosciamo il significato ma ne abbiamo dimenticato la paura: quella vera, viva, la paura per i tuoi cari e per la tua casa che ti rende disposto a tutto pur di far sì che non succeda mai più. Nel capitolo del libro in cui si parla di Sarajevo, questa paura è raccontata da chi l’ha vissuta: credo sia utile ricordarla. Credo che le guerre andrebbero studiate anche a scuola così come le raccontava Martha Gellhorn: dal
basso. Non come scenari strategici o spostamenti di fronti militari ma come tragiche, e purtroppo ripetibili, catene di scellerate cause e terribili effetti.
Martha lascia Hemingway, che poi sposa Mary Welsh, una donna adorante e obbediente. Perché secondo te gli uomini hanno sempre paura di una donna libera e ancora di più se indipendente?
Per pigrizia. Ma non tutti gli uomini sono così, e bisogna comunque ammettere che vivere con una donna indipendente, come con un uomo indipendente, richiede un bel po’ di coraggio e di pazienza.
Come Hemingway a Martha – ricordiamo Per chi suona la campana – hai dedicato il tuo libro a tuo marito, ma con una differenza: Hemingway indica solo “a Martha Gellhorn”, tu invece hai aggiunto “a Jacques, il miglior giornalista che io conosca”. In un certo senso io la vedo come una sorta di rivincita nei confronti dell’uomo alla Hemingway, nel senso che le donne comunque non hanno paura di riconoscere il valore dell’uomo che hanno accanto, anzi. È cosi?
Una dedica un po’ scarna, quella di Hemingway a Martha, che è poi sparita dalle edizioni successive al loro acrimonioso divorzio… ma bisogna essere giusti e ricordare che lui ebbe per sua moglie parole di grande affetto e anche di grande stima professionale. Quanto a Jacques, diciamolo, batte Ernest su tutta la linea: è migliore come giornalista e migliore come compagno.
Si incontrano spesso, nel libro, i termini “responsabilità” e “bellezza”: che cosa sono per te oggi?
Elementi essenziali del mio lavoro e credo un dovere per chi ha l’enorme fortuna di fare il lavoro che ha scelto e che ama. Un privilegio che non hanno tutti: chi lo ha conquistato ha il dovere di restituire ogni giorno qualcosa alla collettività.
Questo libro è una sorta di dialogo con Martha. È come se tu le raccontassi la tua vita da corrispondente, traendo insegnamenti da quella che è stata la più grande di tutti i tempi. Se tu avessi la possibilità oggi di intervistare Martha Gellhorn cosa le chiederesti?
Nell’ultima parte della sua vita, non potendo più girare il mondo come un tempo, Martha Gellhorn faceva venire il mondo a casa sua, invitando un gruppo di giovani colleghi a Cadogan Square. Se avessi potuto partecipare a uno di quegli incontri, credo l’avrei semplicemente ascoltata, cercando di farmi raccontare il più possibile di una vita davvero irripetibile.